venerdì 29 febbraio 2008

2 Marzo 2008 - IV DOMENICA DI QUARESIMA


Ora siete luce nel Signore
Quaresima tempo di desertificazione, tempo di autenticità per riscoprirci più uomini e scegliere di essere discepoli. Il Tabor ci aspetta, la bellezza di Dio è il termine ultimo del nostro cammino. Come la Samaritana, anche noi scopriamo che Dio solo può dissetare la nostra vita, e Dio ci svela che lui per primo ha sete di noi e della nostra fede. Un percorso iniziatico che in passato preparava i catecumeni a ricevere il Battesimo e che oggi porta noi a prendere consapevolezza di ciò che possiamo diventare.
Per trovare Dio occorre scoprire la sete di infinito che abita nel profondo del nostro cuore e che nulla, neppure la vita affettiva della donna di domenica scorsa, può davvero saziare.
Nel racconto del cieco nato Giovanni non si accontenta, come negli altri Vangeli, di raccontare un miracolo, ma di questo miracolo ne dona interpretazione e significato.
L'uomo è cieco, ma Dio ci vede benissimo. L'inizio del brano, che ci mostra Gesù che vede, è una provocazione alla nostra poca fede. Quante volte abbiamo l'impressione che Dio sia cieco? Che non veda la sofferenza degli uomini, che non si chini a vedere le mie difficoltà?
Dio ci vede benissimo, noi, spesso, no. La nostra miopia interiore, la nostra cecità, ci fanno esprimere giudizi affrettati, ingiusti nei confronti di Dio. Gesù ci svela il volto di un Dio misericordioso, attento, delicato, rispettoso, che conosce e guarisce le nostre miserie interiori.
Come il colloquio strepitoso con la donna di domenica scorsa, diffidente, all'inizio, che viene portata dal Maestro a guardarsi dentro con serenità, a riconoscere il proprio limite. E quando scopre, lei che non poteva entrare nel Tempio di Gerusalemme perché ebrea e non poteva entrare in quello di Garizim perché giudicata, che Dio la faceva diventare Tempio, abbandona la brocca dell'appartenenza relativa per riconoscere in Gesù il Messia atteso. Un Messia che conosce il dolore, nel suo caso il dolore di un'affettività a pezzi, e lo redime.
La cecità del personaggio di oggi è la nostra cecità, la nostra incapacità a credere, la nostra fatica a credere. Al tempo di Gesù, malgrado secoli di riflessione sulla sofferenza (Giobbe insegna), molti erano convinti che la malattia fosse punizione divina. Ragionamento corretto e implacabile: se sgarri Dio ti punisce con la malattia, se nasci malato hanno peccato i tuoi e Dio ti punisce attraverso i figli. Dio crudele ma ineccepibile.
Al tempo di Gesù. Oggi, grazie a Dio, nessuna più pensa queste cose orribili.
Gesù scardina quest'opinione: il punito, il maledetto diventa discepolo, la cecità non è più limite ma apertura ad una dimensione più profonda, più luminosa della realtà stessa. L'abbandonato, il reietto giudicato (i malati non suscitavano compassione: se l'erano cercata!) viene salvato, guarito, illuminato.
Anche noi discepoli siamo chiamati a superare la cecità, ad essere accesi e illuminati. L'uomo, così bravo a scoprire e usare le leggi della natura e del cosmo, ancora si vive come un Mistero irrisolto, si percepisce con profondità vertiginosa, non sa darsi risposta.
Manchiamo di coscienza di noi stessi. Pur conoscendoci, non riusciamo a sondare tutti gli aspetti della nostra vita, del nostro carattere; Dio, allora, ci rivela a noi stessi.
Con il dono della fede, ci illumina la vita.
Tempo fa un amico diventato credente diceva: "E' come se fossi sempre vissuto in una stanza al buio. Certo: mi orientavo, mi muovevo, ogni tanto urtavo qualche oggetto che mi provocava dolore. Poi, d'improvviso, qualcuno ha aperto le ante e la luce è entrata".
Sì: l'esperienza della fede è illuminazione interiore. A noi, solo, di non tenere gli occhi chiusi per ostinarci a dire: "E' buio".
Questa coscienza di chiarezza era così forte che in origine i cristiani chiamavano il Battesimo proprio "illuminazione". Riscoprire la fede diventa allora esigenza portante, fondamentale, per acquistare una prospettiva sulla vita e sulle cose completamente diversa.
Davanti alla vista del cieco nato, però, occorre aprire il cuore, fidarsi. I dotti del tempo di Gesù, davanti a questa guarigione si irrigidiscono, non vogliono capire, non vogliono vedere. Così i genitori del cieco hanno paura del giudizio dei Farisei: anche loro vivono nelle tenebre del pensiero altrui, dell'omologazione che impedisce di essere liberi di fronte alle scelte.
Il grande Giovanni, al solito, gioca sull'ambiguità: chi è cieco e chi ci vede dentro questo racconto? Chi credeva di vederci benissimo è, in realtà, inchiodato ai suoi pregiudizi (anche religiosi!) o al giudizio degli altri. Il cieco, maledetto da Dio secondo gli uomini è, in realtà, l'unico a vederci benissimo!
Il miracolo conduce il cieco ad un'altra luce, ben più profonda.
Le domande che Gesù gli rivolge, portano ad una conclusione: sì ora può vedere chiaramente che Gesù è il Messia, il Figlio dell'uomo.
Cosa significa camminare nella luce? Significa innanzitutto abbandonare le luci false: la luce fredda e fatua del pregiudizio contro gli altri, perché il pregiudizio distorce la realtà, falsa le proporzioni, ci carica di avversione contro coloro che giudichiamo senza misericordia, condanniamo senza appello. Non possiamo pretendere di essere luce di noi stessi. Un'altra luce falsa, perché seducente e ambigua, è quella dell'interesse personale: se valutiamo uomini e cose in base al criterio del nostro utile, del nostro piacere, del nostro prestigio, inevitabilmente non facciamo la verità nelle relazioni e nelle situazioni. Il buio del nostro cuore ci acceca: non riusciamo a vedere oltre la superficie dei fatti e delle cose; come possiamo discernere con obiettività? Tante volte poi la vista ci si appanna perché ci autocondanniamo a camminare con la luce fioca del lumicino del tran-tran quotidiano: come possiamo orientarci nel groviglio di situazioni complesse e delicate se a forza di vivere il giorno-per-giorno ci riduciamo poi a vivere alla giornata?
Camminare nella luce - ci ha detto s. Paolo - consiste "in ogni bontà, giustizia e verità"; consiste nel "cercare ciò che piace al Signore". Camminare nella luce significa saper vedere Dio alla regia di una storia che sembrerebbe condotta solo dagli uomini; significa saper leggere le tracce della sua sapienza e bontà sui sentieri a zig-zag della nostra vita; significa riuscire a decifrare i misteriosi messaggi del suo amore anche nelle pagine striate di lacrime e sangue nel nostro calendario.
Ci valga di incoraggiamento questo passaggio di s. Agostino: "Forse tu cerchi di camminare, perché ti dolgono i piedi. Per qual motivo ti dolgono? Perché hanno dovuto percorrere i duri sentieri imposti dal tuo tirannico egoismo? Ma il Verbo di Dio ha guarito anche gli zoppi. Tu replichi: Sì, ho i piedi sani, ma non vedo la strada. Ebbene, sappi che egli ha illuminato perfino i ciechi".
Non chiudiamoci quindi nei pregiudizi e nella vergogna della nostra fede: sappiamo che tutta la luce che abita nel nostro cuore è dono della tenerezza di Dio.
Accogliamo la sfida, fratelli, non opponiamo resistenza alla luce, lasciamo le dita di Gesù toccare i nostri occhi e guarirli. Che la nostra vita diventi testimonianza di quest'illuminazione.
Non abbiamo paura ma fidiamoci di Colui che, solo, può guarire la nostra cecità. Il nostro Battesimo, ancora tutto da riscoprire, ci ha aperto gli occhi della fede. Usiamoli, ora, per rileggere la nostra vita con lo sguardo stesso di Dio.

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