martedì 7 settembre 2010

12 Settembre 2010 - XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Al discepolo che è in ascolto dell'immensa sete di infinito che gli pulsa nel cuore, e della nostalgia pungente e profonda del Tutto, Gesù propone un cammino verso una scoperta inattesa: il vero volto di Dio.
Tutti abbiamo un'idea di Dio, per credergli o per rifiutarlo. Tutti abbiamo una spontanea, inconscia, sorgiva idea di Dio, una specie di religiosità connaturale: un'idea di Dio in cui credere. O non credere.
Mediamente, però, questa idea di Dio che abbiamo è approssimativa, e neppure troppo simpatica.
Dio esiste, certo, per carità, è anche potente, ma incomprensibile nelle sue discutibili scelte. Ma coraggio, fratelli, siamo onesti: non abbiamo mai pensato di fronte all'idiozia degli uomini, che noi avremmo sicuramente fatto meglio di Lui nel governare il mondo? Che Dio dovrebbe almeno fermare le guerre? Che dovrebbe proteggere sul serio i deboli? Che quella madre di famiglia, sola e con figli piccolissimi, divorata dal cancro, è una clamorosa stupidaggine divina? Che, insomma, se Dio c'è perlomeno talvolta è pigro o incomprensibile? Chi non l’ha pensato almeno una volta, per un momento?
Fratelli miei, quanta strada l'uomo ha dovuto fare per convertire il proprio cuore!
La storia di Israele è la scoperta del vero volto di Dio, della misericordia, il cuore stesso di Dio.
Nella splendida pagina dell'Esodo che abbiamo letto, Dio si accorge di essere stato troppo fiducioso nei confronti di questo popolo di schiavi, e decide di rinunciare e di ricominciare. Mosè lo sfida e rifiuta di seguirlo: tra Dio e il popolo, Mosè sceglie il popolo. E Dio si stupisce, e cambia idea: “si pentì”.
Il Vecchio Testamento intuisce ed elabora questa idea inaudita: un Dio che si confronta con gli uomini ed arriva perfino a cambiare idea nei loro confronti. Ma l'uomo – dalla “dura cervice” – nonostante le continue dimostrazioni dell’amore di Yahweh, continua caparbiamente a non capire.
E allora Dio decide di venire a spiegarsi. Definitivamente. Mettendosi sullo stesso suo piano.
Luca, dei quattro evangelisti, è quello che maggiormente ha dovuto modificare la propria visione di Dio con quella di Gesù. Lui, greco di Antiochia, è abituato ad una religiosità legata a dèi capricciosi e simili in tutto a noi uomini. Quale tuffo nel cuore deve avere provato, quando ha sentito quel tale di Tarso parlare di Dio in maniera assolutamente innovativa! Dio, diceva Paolo, è un Padre pieno di ogni tenerezza, lontano anni luce dalle nostre fobie e dai nostri timori.
Luca ha creduto al Dio di Paolo, ha ricevuto il Battesimo e si è messo alla sequela del Maestro Gesù, l'ebreo. Poi, dopo molti viaggi, dopo molta gioia, dopo una vita passata a informarsi, ci restituisce, in tre parabole che sono come tre perle preziose, la sintesi del volto di Dio.
“Dio è misericordia” dice Luca; “Dio è misericordia” anticipa il suo maestro Paolo nella seconda lettura.
È la misericordia che esprime l'onnipotenza di Dio: un amore infinito, tenero ed adulto, carezzevole ed esigente, che è il volto di Dio.
Ma allora perché continuiamo a pensare a Dio come a un vigile, un giudice, un severo preside? Perché ci ostiniamo a tenerlo ben lontano dalle nostre vite relegandolo nelle chiese e in quei pochi ritagli di tempo che dedichiamo alla religione?
La nostra triste fede pensa alla vita in Cristo come ad un pegno da pagare all'onnipotenza di Dio, non come ad un incontro di pienezza e di festa! Occorre convertirci alla tenerezza di Dio, occorre osare e pensare ciò che Lui è venuto a testimoniarci.
Le parabole ascoltate gettano una spallata definitiva alla nostra mediocre visione di Dio per spalancare la nostra fede alla dimensione del cuore di Dio. Convertirsi significa passare dalla nostra prospettiva a quella inaudita di Dio e questo significa fare come Lui.
Noi diciamo: "Ti amo perché sei amabile; te lo meriti, perché sei buono".
Dio dice: "Ti amo con ostinazione e senza scoraggiarmi perché so che il mio amore ti renderà buono".
C'è una bella differenza! In fondo in fondo noi costruiamo la nostra vita di fede orientata intorno ai nostri meriti. Ma nessuno si merita l'amore di Dio. Il suo amore è assolutamente gratuito, libero, pieno.
Dio non ci ama perché siamo buoni, ma amandoci senza misura ci rende buoni, aprendoci alla speranza.
La cura meticolosa con cui il pastore insegue la pecora lontana è il segno di questo amore di Dio per chi sperimenta di essersi "perso".
L'esperienza del peccato, che è questo "perdersi", diventa occasione per un incontro più duraturo e autentico con questo Dio che ci perseguita con il suo amore.
Ben lontano dall'avere una visione poetica o approssimativa del peccato, Luca sa che l'esperienza di sofferenza interiore che è il peccato, questo smarrimento, questa lontananza da Dio e da noi stessi, può diventare un incontro che salva, che ci aiuta a ripartire con maggiore autenticità e coraggio.
La nostra fede non si fonda sulle nostre capacità, sulle nostre devozioni, sui nostri sforzi, ma sull'ostinazione di Dio che ci cerca.
Prendere coscienza di questo significa aprirsi alla festa, partecipare, come la donna che ritrova la moneta perduta, alla festa che Dio fa per chi si lascia incontrare.
I giusti, quelli che si sentono a posto, con la lista dei loro meriti al completo, non potranno mai, purtroppo, sperimentare la gioia di essere caricati sulle spalle del Pastore. Come il figlio maggiore della parabola del Figliol Prodigo, "non entrano" in questa prospettiva, in questa mentalità.
Chiusi nelle loro poche certezze, non possono allargare il cuore nella gioia del Padre.
Quando, fratelli e sorelle, capiremo veramente il Vangelo della misericordia e, con semplicità, lo faremo finalmente diventare l’unico metro di giudizio del nostro agire, allora la Chiesa tornerà ad essere il faro luminoso e sicuro che guida l’incerto cammino degli uomini.
Che il Dio della misericordia ci aiuti in questo! Amen.

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