mercoledì 20 ottobre 2010

24 Ottobre 2010 - XXX Domenica del Tempo Ordinario

Perseverare in una vita di fede, in tempi così problematici come quelli odierni, richiede una costanza e una determinazione fuori dal comune. I ritmi della vita, le continue spinte che ci allontanano dalla visione evangelica, un certo sottile scoraggiamento, ci impediscono, realisticamente, di vivere con serenità il nostro discepolato.
Domenica scorsa abbiamo visto che la preghiera è una questione di fede: credere che il Dio che invochiamo non è una specie di sommo organizzatore dell'universo: un faccendiere che, opportunamente lusingato, potrebbe anche concederci ciò che chiediamo. Dio non è un potente da blandire, un giudice corrotto da convincere, non è un politico da cui farsi raccomandare, ma un padre che sa ciò di cui abbiamo bisogno. Se la nostra preghiera fa cilecca, sembrava suggerirci Gesù, è perché manca l'insistenza. O manca la fede.
Oggi, con la parabola del pubblicano e del fariseo – cruda fotografia di una mentalità piuttosto comune – ci viene suggerita un'altra pista di riflessione.
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano…»
I farisei erano devoti alla legge, cercavano di contrastare il generale rilassamento del popolo di Israele, osservando con scrupolo ogni piccolissima direttiva della legge di Dio. L'elenco che il fariseo fa', di fronte a Dio, è corretto: per puro zelo il fariseo paga la decima parte dei suoi introiti, non soltanto, come tutti, dello stipendio, ma finanche delle cose più piccole ed insignificanti che entrano in suo possesso!
Qual è, allora il problema del fariseo? Semplice, dice Gesù, è talmente pieno della sua nuova e scintillante identità spirituale, talmente consapevole della sua bravura, talmente riempito del suo ego (quello spirituale, il più difficile da superare), che Dio non sa proprio dove mettersi.
Peggio: invece di confrontarsi con il progetto (splendido) che Dio ha su ciascuno di noi (e su di lui), si confronta con chi è peggiore, come con quel pubblicano, lì in fondo, che – lui ne è certo! – non dovrebbe neanche permettersi di entrare in chiesa!
Questo è il nocciolo della questione: succede che ci mettiamo – a volte anche sul serio! – alla ricerca di Dio. Desideriamo profondamente conoscerlo, diventare discepoli, ma non riusciamo a creare uno spazio interiore sufficiente perché egli possa manifestarsi. Abbiamo la testa e il cuore ingombri di preoccupazioni, di desideri, di pensieri, di confronti da fare – a volte anche stupidi – e concretamente non riusciamo a fargli spazio. Oppure accade che, dopo un'esperienza fulminante, che so, un ritiro, un pellegrinaggio, sentiamo forte la sua presenza, ma, una volta tornati a casa, la nostra testa viene riempita dalle preoccupazioni del quotidiano, del come vivere in questo mondo.
Non è solo il problema dell'orgoglio. E' proprio una complicazione dell'esistere, una vita che non riesce ad uscir fuori dal buco nero in cui si è infilata. Una vita che, con tutto il nostro daffare, si dimentica di Dio. Giornate intere in cui tutto ci assilla, meno che il bisogno di fermarci un istante e rivolgere a Lui una preghiera. Tutto è troppo importante!
Che fare allora? A dirlo è semplice: ma dobbiamo necessariamente ritagliare nella nostra giornata qualche minuto di assoluto “relax”, di vuoto mentale, per entrare dentro di noi (ricordate? “introire secum”), nel nostro cuore, nel silenzio della nostra anima: perché è questo il luogo più semplice in cui raggiungere Dio, per stare un po’ con Lui.
Purtroppo fratelli e sorelle, noi moderni cristiani – come già il fariseo – non abbiamo spazio per l'interiorità; questo è il nostro grave problema!
Il pubblicano della parabola, invece, di spazio ne ha tanto.
Il denaro che ha guadagnato con disonestà, l'odio dei suoi concittadini (è un collaborazionista!), l'amara impressione di avere fallito tutte le sue scelte, creano un vuoto dentro di lui, un vuoto che Dio saprà riempire. Consapevole dei suoi limiti, li affida al Signore, chiede con verità e dolore, che Dio lo perdoni. E così accade.
Ecco, fratelli, questo è il monito del Vangelo di oggi: dobbiamo lasciare un po' di spazio al Signore, non dobbiamo vivere di presunzione, di pretese; non sprechiamo il nostro tempo ad elencare le nostre virtù e i nostri meriti.
Siamo tutti nudi di fronte a Dio, tutti mendicanti, tutti peccatori. Ci è impossibile giudicare, se non a partire dal limite, se non da quell'ultimo posto che il Figlio di Dio ha voluto abitare.
Ancora una volta, il Signore chiede a ciascuno di noi l'autenticità, la capacità di presentarci di fronte a lui senza ruoli, senza maschere, senza paranoie.
Dio non ha bisogno di bravi ragazzi che si presentano da lui per avere una pacca consolatoria sulle spalle, ma di figli che amano stare col padre, nell'assoluta e (a volte) drammatica autenticità.
Questa, e questa sola, fratelli, è la condizione per ottenere, come il pubblicano, la nostra conversione del cuore. Amen.

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