mercoledì 4 maggio 2011

8 Maggio 2011 – III Domenica di Pasqua

«Resta con noi, Signore, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto».
Quello di oggi è uno dei brani più conosciuti e più belli dell'intero vangelo. «In quello stesso giorno, il primo della settimana....»; un giorno ricco di grazia, che ha riproposto più volte la realtà del Cristo risorto. Dopo la sconvolgente esperienza di Maria di Magdala e la corsa di Pietro e Giovanni al sepolcro, ormai vuoto; dopo il misterioso ingresso del Signore risorto nel cenacolo, a porte chiuse; dopo il dono dello Spirito e della pace, in quello stesso giorno, Gesù risorto, non più soggetto a condizionamenti spazio temporali, raggiunge lungo la strada due discepoli incamminati verso Emmaus. Si allontanano dalla città che uccide i profeti. Sono scoraggiati, tornano a casa loro, scappano. Sono tristi, i discepoli, e parlano delle loro disgrazie. Meglio, si lamentano, si caricano a vicenda. La tristezza è palpabile, la delusione e l'amarezza sono profonde, insostenibili, terribili. C'è un crescendo nel parlare: dallo sfogo lamentoso, attraverso l'approfondimento degli eventi, fino al dibattito acceso, alla vera e propria discussione con Dio. Gesù si avvicina e cammina con loro. Ma essi non lo riconoscono; del resto, come potrebbero? Non alzano mai lo sguardo da loro stessi per poter incrociare quello del Signore. Sono talmente pieni del loro “sacrosanto” dolore da non accorgersi che il motivo della loro sofferenza non esiste più! Sono totalmente incapaci di uscire dalla spirale vorticosa di quel loro nulla, in cui sono precipitati dopo la scomparsa di ogni loro sicurezza.
Quante volte, fratelli miei, succede lo stesso anche a noi: siamo depressi, ci lamentiamo di tutto e di tutti, niente ci sta bene: invecchiando poi, non sopportiamo più nulla; perfino le chiacchiere amichevoli, lo scambio di qualche impressione, l'amabile conversare del nulla, la vacuità del dire, ci irritano enormemente; nulla di soddisfa. Con Dio, poi, è un disastro. Diventiamo pretenziosi, quasi insolenti. E Lui, di fronte alla nostra idiozia e al nostro vuoto assordante, tace. Tace suo malgrado, perché Dio ama la discussione con noi; egli stesso la modera, vuole che ci lasciamo coinvolgere nella riflessione, ci chiede di indagare. Dio, rispettoso e discreto, ci considera capaci di conoscere, di arrivare a conclusioni ragionevoli e positive; ci chiede di essere audaci nell'interrogarci. Egli non ci vuole cristiani beoti: vuole gente convinta, battagliera. Ma noi ─ non appena egli si mette al nostro fianco lungo il percorso della vita, quando con tutta la sua amorevolezza cerca di farci capire che in fondo il nostro dolore non è poi così insuperabile ─ diventiamo immediatamente ombrosi, insofferenti; ci offendiamo: “ma come si permette Dio di mettere in discussione il nostro dolore? Che ne sa lui della nostra situazione attuale? Delle nostre preoccupazioni, dei nostri problemi? Che ne sa lui delle condizioni in cui siamo costretti a vivere oggi? della disoccupazione, della difficoltà di arrivare a fine mese, del tirare su dei figli, della situazione internazionale, delle guerre, del terrorismo, della crisi economica, della fame, del malcostume generale che ci fagocita? Perché mai vuole scuoterci da questo nostro dolore? In fin dei conti il dolore ci rassicura, ci dona identità, ci identifica… e in questo nostro percorso di autodistruzione folle, finiamo col costruirci una nuova identità. Finiamo col coltivare il dolore per se stesso: “Ho perso un figlio. Sono un infartuato. Ho il cancro. Mio marito mi ha lasciata...”. Il dolore diventa il nostro segno di riconoscimento: così ci presentiamo, così vogliamo che ci riconoscano, sperando dagli altri, magari, un cenno di benevolenza, un gesto di compassione…  Siamo degli illusi, fratelli miei. Quando finalmente capiremo che dobbiamo fuggire il dolore come la peste? Il “sepolcro” deve essere abbandonato; deve essere  superato, non usato come segno di riconoscimento.
“Cosa è successo?” Chiede il risorto. È mai possibile che questo intruso sia tanto “svanito” da non conoscere, almeno per sentito dire, quel che è successo a Gerusalemme?
Sono offesi, frastornati, i discepoli; e ne hanno tutti i motivi, poveracci. Sono rimasti improvvisamente orfani della loro guida, su cui avevano riposto ogni speranza. E gli parlano della passione, della croce, della morte di Gesù: ma nulla; Lui, che li ha affiancati, sembra non ricordarsene; Lui che ha superato tutto questo, sembra non sapere  nulla.
“Che è successo?” ripete. Eh sì, “noi speravamo”... speravamo in un futuro di libertà….
“Speravamo”. La speranza si riferisce sempre ad un futuro: declinarla al passato, come fanno loro, significa ammetterne il totale fallimento. Purtroppo è sempre difficile accettare un fallimento: il fallimento di un progetto, di un'azienda, di un gruppo parrocchiale, della propria vocazione, della propria vita. Il fallimento della speranza porta inevitabilmente alla morte interiore. La delusione, poi, è la punta estrema del dolore: è un dolore sordo, che suscita rabbia, che aggiunge alla sofferenza la consapevolezza dell'inganno; un dolore che ci rimette completamente in discussione, fin nel più profondo, che ci destabilizza, che ci impedisce di riprendere coraggio. Delusioni, speranze abbandonate ad agonizzare, senza che nessuno riesca ad abbreviare tale sofferenza. Eppure lì, proprio lì in fondo, alla soglia dell'annientamento, Dio ci ascolta e ci aspetta, cammina con noi.
“Noi speravamo” insistono i discepoli: ma siamo stati proprio degli stupidi a voler seguire il Nazareno, a credere che fosse lui il Messia! Che ingenui! “Noi speravamo”: ma ci siamo illusi, siamo stati degli idioti abissali, non abbiamo giustificazioni! La nostra speranza è morta su quella maledetta croce. È morta e sepolta con Gesù, nel suo sepolcro.
Ebbene, fratelli: quanti ne abbiamo incontrati di discepoli come questi, tristi e rassegnati! “Noi speravamo”, continuano a ripetersi. E intanto non si accorgono che il Signore, creduto morto, cammina con loro.
Si aspettano comprensione, i discepoli, da questo compagno occasionale: si aspettano compassione, condivisione. Ottengono invece uno schiaffone in pieno viso.
Stolti e tardi di comprendonio”, dice loro lo straniero; “Stupidi e idioti! Ignoranti!”.
La sua provocazione li scuote, li costringe ad alzare lo sguardo. È ora di capire, loro come noi, che non sempre chi ci dà una carezza ci vuole bene; non sempre chi ci dà uno schiaffo ci vuole male. A volte una bella scrollata ci distoglie dal dolore e ci aiuta a vedere le cose in maniera diversa. Essi si scuotono ma continuano a non capire: “cosa sta dicendo questo sconosciuto? Come si permette?”
Sciocchi e incapaci di capire le Scritture”, insiste lui. E giù a spiegare il senso di quella sofferenza, della Sua sofferenza, della sua passione e morte, aiutandoli a rileggere gli ultimi eventi in una chiave diversa, più ampia, a leggere il dolore alla luce del grande disegno di Dio. I discepoli del risorto, non possono, non devono fermarsi alla croce, alla morte!
Le parole del vangelo di Luca sono qui taglienti, quasi insostenibili: il problema, fratelli, il problema vero, non è l'assenza di Dio, il fatto che Dio improvvisamente sia mancato al nostro sguardo, ma la nostra incapacità di riconoscerlo, la nostra tragica miopia. Siamo tutti talmente concentrati su noi stessi, sui nostri problemi, da non essere in grado di riconoscerlo neppure quando cammina accanto a noi, quando ci aiuta ad attraversare la strada, ad evitare le buche e i pericoli del percorso.
Si, fratelli, perché egli è costantemente con noi; Egli cammina sempre accanto a noi: e ci spiega pazientemente l’incomprensibile: ossia come Dio abbia accettato di cambiare, di adeguarsi, di abbandonare la rassicurante eternità, la perfetta autosufficienza, l'immobilità beata, per sporcarsi le mani con noi; per questo Egli cammina, si è messo in viaggio; un viaggio lunghissimo: dall'eterno al finito, dall'essere Dio al diventare uomo, dalla perfezione assoluta all'incarnazione. E tutto ciò per amore, soltanto per amore. Dio non è un masso granitico, immobile e compatto, ma soffre, cambia idea, decide. Ama e, si sa, l'amore è sempre in movimento; l'amore chiede sempre sofferenza.
Gesù dunque spiega loro le Scritture, apre loro l'intelligenza; e, attraverso la Parola, essi possono finalmente capire cosa è veramente successo... È un momento di grande tensione, questo: i due ─ pur essendo stati amabilmente insultati ─ ascoltano col fiato sospeso. Non fanno gli offesi, anzi... percepiscono che questo tale li sta aiutando ad interpretare gli eventi, a capirli in profondità. Il cuore di questi tiepidi discepoli finalmente si scalda. Poi il tepore divampa, e diventa fuoco incontenibile.
Lo conosciamo anche noi a volte questo fenomeno, vero, fratelli? La Parola meditata si insinua dentro di noi, ci inquieta, ci apre, ci obbliga alla verità. E più troviamo argomenti contrari a questa verità che avanza, più i nostri granitici pregiudizi vacillano, scricchiolano, finché alla fine dobbiamo arrenderci! Il nostro dolore, che paradossalmente ci gratificava, viene spazzato via dalla Parola che ci riscalda e illumina. Allora tutto acquista senso, tutto acquista una nuova dimensione. La nostra vita, riletta alla luce del grande progetto di Dio, assume un valore completamente diverso. È come se Gesù ci dicesse: “Non cercatemi nei fatti straordinari. Non inseguite continuamente ciò che sembra magico e miracoloso, perché non mi trovereste. Cercatemi piuttosto lungo i percorsi quotidiani, nei gesti elementari, nelle piccole cose. Fermiamoci insieme sulle Scritture, figli miei; fidatevi della mia Parola, non di quelle degli uomini... a volte forse non succederà niente, ma a volte sentirete un turbamento profondo, un ardore improvviso che infiammerà il vostro cuore. Ebbene, quel turbamento sono io a crearlo, perché sono io che parlo nel vostro cuore”.
Ecco, fratelli, Gesù ci educa così; ci insegna a non rivolgere la nostra fede allo stupore dei miracoli, ma al fascino che nasce da ogni parola e da ogni gesto che trasmette un messaggio d'amore. E allude proprio a questo quando, chiedendogli di restare con noi, ci mette in condizione di superare la tristezza, la solitudine, il vuoto, la delusione...
Arrivati intanto al villaggio, Gesù con un sorriso saluta i discepoli. Ma essi, ancora incerti e impauriti, vengono presi nuovamente dal panico: “Come, te ne vai già? Resta con noi, è buio, fermati!”. E il Signore si ferma, e resta con loro. Si ferma, e resta con noi. Il Signore non ci abbandona, fratelli: il Signore si ferma eccome! Egli vuole fermarsi, Egli vuole restare con noi: è sufficiente che noi glielo chiediamo!
E Gesù entra con loro; Gesù entra con ciascuno di noi: entra nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nelle nostre chiese, nelle nostre comunità, nei nostri cuori martirizzati.
E qui, all'interno, avviene il miracolo: durante la cena, allo spezzar del pane, gli occhi dei due si aprono, e lo riconoscono! «Ma egli sparì dalla loro vista».
No, Signore, non andartene. Non ora. «Mane nobiscum Domine, quoniam advesperascit, et inclinata est iam dies ─ Rimani con noi Signore, perché si fa sera e il giorno sta per finire!». Non lasciarci mai soli, Signore, soprattutto quando il giorno della nostra vita sta per concludersi!
È proprio così, fratelli; il Signore non ci può abbandonare, non può lasciarci soli, mai! Lo ha promesso: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo(Mt 28,20).
Cristo risorto, vivo, cammina infatti al fianco di ogni uomo, gli parla con le parole della Scrittura, si dona a lui nell'Eucaristia, lo nutre, lo illumina, lo guida attraverso tutte le Emmaus del mondo, verso quella salvezza che non conosce più sere, perché illuminata perennemente dalla luce del mattino di Pasqua, l'unica luce che non tramonta. Crediamoci, fratelli, e comportiamoci di conseguenza.
E termino con le parole del Beato Giovanni Paolo II: «Quando si è fatta vera esperienza del Risorto, nutrendosi del suo corpo e del suo sangue, non si può tenere solo per sé la gioia provata. L'incontro con Cristo, continuamente approfondito nell'intimità eucaristica, suscita nella Chiesa e in ciascun cristiano l'urgenza di testimoniare e di evangelizzare... Il congedo alla fine di ogni Messa [l’Ite missa est] costituisce una consegna, che spinge il cristiano all'impegno per la propagazione del Vangelo e l'animazione cristiana della società. Per tale missione l'Eucaristia non fornisce solo la forza interiore, ma anche, in certo senso, il progetto. Il cristiano che partecipa all'Eucaristia apprende da essa a farsi promotore di comunione, di pace, di solidarietà, in tutte le circostanze della vita». (Lettera apostolica “Mane Nobiscum Domine”, 2004, nn. 24.25.27, passim).
Questa dei due è la nostra esperienza, questa è la nostra vita. Confusi e scoraggiati, quando meno ce lo aspettiamo, ci succede qualcosa. Qualcuno si fa nostro compagno di viaggio e ci aiuta a comprendere, ad interpretare, a vedere e a saper ascoltare. Nel nostro cuore si accende di nuovo la fiamma della speranza, lo zelo per il Signore, il fuoco dell'amore.
Fermiamoci allora, fratelli, e mangiamo tutti insieme il Pane del banchetto; condividiamo l'amore; muniamoci del mantello e del bastone, e di nuovo incamminiamoci per portare ad altri l’amore del Risorto!
Donaci per questo, Signore, occhi che possano scorgere la tua presenza, che vedano la bellezza della vita, anche tra le mille difficoltà e delusioni della vita; donaci orecchie che sappiano ascoltarti e che possano riconoscere la tua voce tra i tanti rumori quotidiani; donaci ogni giorno compagni sinceri, guide sicure con cui condividere il nostro cammino; donaci, Signore, di riconoscerti in ogni momento della nostra esistenza e, dopo le nostre Eucaristie, di contagiare chi ci circonda con la gioia incontenibile e l’amore ardente che solo l'incontro con Te può dare. Amen.

Nessun commento: