mercoledì 6 luglio 2011

10 Luglio 2011 – XV Domenica del Tempo Ordinario

Nel capitolo 13, Matteo racconta tutta una serie di parabole. C'è quella del seminatore di oggi (13,1-23), quella della zizzania (13, 24-30), quelle del granello di senapa e del lievito (13,31-33), quelle del tesoro, della perla e della rete (13,44-50). Sono quasi tutte parabole che parlano di crescita, affermano l'esistenza di un qualcosa che, se ce ne prendiamo cura, può crescere e piano piano, giorno dopo giorno, diventare ciò che deve diventare.
Nella vita tutto avviene con gradualità, senza che noi ce ne accorgiamo, giorno dopo giorno.
La “cura”, la “crescita” sono gli elementi decisivi della vita. La cura è il tempo, l'attenzione, la presenza che noi dedichiamo a ciò che è importante, è il nostro esserci fisicamente e con il cuore. Dove c'è cura le cose crescono. Dove non c'è cura le cose crescono pure, ma disordinatamente, sganciate dal nostro controllo, senza una direzione, come la celebre vigna di Renzo di manzoniana memoria.
È per questo che si prega ogni giorno: perché la nostra anima non muoia. È per questo che si mangia ogni giorno: perché il nostro fisico non muoia. È per questo che fa bene leggere un libro o partecipare ad un incontro, perché la nostra mente non si sclerotizzi. Dove c'è cura tutto cresce e fiorisce e diventa fecondo. Dove non c'è cura tutto cresce, ma si inselvatichisce.
«Quel giorno Gesù uscì di casa e si sedette in riva al mare». Il vangelo dà una serie di piccole annotazioni prima della parabola. In riva al mare di solito c'è un po' di vento e si sta bene. Il mare è evocativo, ti fa pensare, ti fa riflettere. Il mare è come quel terreno di cui Gesù parlerà subito dopo: sembra che non ci sia niente dentro e invece è pieno di vita.
Gesù esce da solo, ma subito attorno a lui si raccoglie una grande folla. Chi ha qualcosa di vero, di autentico, di grande, da comunicare, chi vive qualcosa di serio e importante, raccoglie spontaneamente tanta gente attorno a sé, è rincorso dalle persone, dovunque vada. È invece chi non ha nulla di interessante da esprimere che deve rincorrere le persone, deve affannarsi per farsi ascoltare. E questo, fratelli miei, dovrebbe già portarci ad una prima considerazione: ci siamo mai chiesti come mai alle nostre messe vengono così in pochi? Come mai nessuno ci chiama e solo qualcuno ci cerca? Forse perché oggi non ci sono più buoni cristiani? Forse perché la gente non ci stima? Forse perché non ci conosce? O non dipende piuttosto dal fatto che siamo noi poco convincenti, che siamo noi a non esprimiamo niente di “vissuto”, di convintamente sentito, di spiritualmente efficace?
Di fronte alla gran folla Gesù si distacca e si mette a sedere. Le cose importanti hanno bisogno di tempo materiale, di distacco, di silenzio intorno a noi. Non si può pregare in profondità,con il cuore, mentre siamo di corsa, impegnati in altre cose; non possiamo parlare con Dio di ciò che abbiamo dentro, di ciò che viviamo nell'anima, dei nostri problemi vitali, guardando la tv, ascoltando la radio, lavorando o facendo qualcos'altro. Per esprimerci consapevolmente dobbiamo fermarci, sederci, guardarci negli occhi del cuore. Non si possono risolvere problemi complessi, difficoltà grandi, con un discorso superficiale, fatto al volo, pensando ad altro. Ci vuole serenità, una mente libera dal frastuono, guardare la questione da tutti i punti di vista, dedicargli tempo e spazio. È vero che l’importante è il “come” si fanno le cose; è vero che non è tanto la “quantità” quanto la “qualità” del tempo che è decisiva nel nostro dedicarci alle persone e alle cose. Ma è altrettanto vero che se a priori non “abbiamo tempo”, se non ci fermiamo, se non abbiamo materialmente neppure qualche minuto da dedicare, allora non c'è neppure nessun “come”. A monte ci deve essere la nostra disponibilità temporale; così se non non ci siamo mai con i figli per ascoltarli, con la famiglia per aprirci, con la comunità, con i confratelli e le consorelle per fare condivisione, con la nostra anima per darle forza e vigore, voi capite che è inutile che ci preoccupiamo del “come” fare tutte queste cose, perché senza un “quando”, il “come” purtroppo non ci sarà mai. Da qui l’importanza del nostro tempo.
Alle folle radunate davanti a lui, Gesù parla in parabole. Ora, la parabola ha un doppio valore: è una favoletta stupida, se la prendiamo superficialmente, se non vogliamo capirla, se non vogliamo lasciarci coinvolgere; ma è profondissima se ci entriamo dentro con il cuore. È fondamentale questo, perché la parabola ci parla e ci convince, in funzione della nostra apertura di cuore. Se non la capiamo è perché il nostro cuore è chiuso, è ottuso. La parabola serve per chi vuole capire, per capire meglio: “Chi ha orecchi intenda”, dice Gesù; per chi vuole vedere c’è tanta luce, ma per chi non vuol vedere, il buio ottenebra il suo cuore-
Per ascoltare il vangelo, il messaggio della Parola, dobbiamo dunque fare proprio come faceva Gesù: sedersi, dedicare tempo, avere calma e pace nel cuore e nell'anima. Dobbiamo distaccarci dalla ridda di pensieri, di preoccupazioni, che normalmente ci accompagna, dal quel “frullatore” che è la nostra mente e concentrarci sulle parole che abbiamo davanti, ascoltare cosa esse ci dicono dentro. In quelle Parole dobbiamo entrarci con il cuore, con la vita, se vogliamo coglierne il valore pratico, essenziale per la vita dello spirito.
La parabola di oggi è molto semplice. C'è un seminatore che fa il suo lavoro, ma il seme che egli sparge, finisce col cadere su quattro diversi tipi di terreno. L’allusione è chiara: Gesù qui ci indica i nostri diversi modi di reagire di fronte al Suo messaggio. Di fronte ad una stessa situazione, ad una stessa persona, ad un medesimo evento, noi tutti reagiamo in modo diverso: non è tanto l’evento, ciò che accade, che rende tristi, depressi e vuoti (anche se ha la sua importanza), ma è il modo in cui noi interpretiamo questo evento, il senso che noi gli diamo. Siamo noi che facciamo, di ciò che ci accade, una tragedia o una commedia, una occasione per ridere o per piangere e disperarsi.
Dunque: il primo terreno su cui cade il seme, è la strada: un terreno duro, impenetrabile. Nella strada non nasce niente (negli altri terreni almeno all'inizio qualcosa nasce!). Alcuni uomini spiega Gesù nella “esegesi” che lui stesso fa di questa parabola hanno la coscienza così indurita che nulla li mette in discussione. Sono duri come la pietra, hanno “il pelo sul cuore”. Il loro atteggiamento di chiusura totale fa sì che non nasca nulla. Nessuna creatività, nessun sentimento, nessuna ricettività. Tutto è bloccato dentro. Non può nascere nulla. Con persone così è meglio aspettare tempi migliori. È inutile discutere, è inutile confrontarsi. Purtroppo è meglio lasciar perdere, è meglio rivolgersi altrove.
Il secondo terreno è una pietraia, un luogo sassoso, dove non c’è molta terra: il seme cade, germoglia, anche se la terra è poca, ma non appena il sole è alto, i germogli si bruciano, si seccano, poiché non hanno radici profonde. Un terreno di “facili entusiasmi”, il classico fuoco di paglia. Il seme cade e nasce. Ma non c'è una sufficiente consistenza, non ci sono risorse, non c'è profondità e convinzione nelle scelte e tutto finisce. Non può che essere così. Sono le persone volubili, incostanti, quelle che si entusiasmano in un attimo, ma poi, sempre in un attimo, scompaiono. Il sole rappresenta le difficoltà, le prime crisi e i primi ostacoli che si presentano. Non essendoci consistenza dentro queste persone, tutto si dissolve. È il calore della prova che scioglie tutto. Quanti matrimoni, quante vocazioni, quanti propositi iniziano con le migliori intenzioni! In essi c’è sincerità, c’è generosità, ma non c'è profondità. E così nel tempo, dopo qualche anno, tutto si spegne, tutto si appiattisce e,quando va bene, si “tira avanti”. Basti pensare alle tante persone che passano per le nostre parrocchie: animatori entusiasti, pieni di energia, di simpatia e di risorse: ma basta una difficoltà, basta una delusione, un primo scontro, e lasciano. Non riescono a tenere, non hanno risorse per affrontare l'afa, la calura, la pesantezza del momento e si sciolgono come neve al sole. Quante persone, fratelli miei, hanno iniziato cammini veri e profondi con grande entusiasmo: “Andrò fino in fondo; non lo mollerò mai; è la svolta della mia vita”. Ma poi non hanno resistito. La forza di un uomo è la costanza: più che nel fare certe scelte, il merito è nel sostenerle! È nel non arrendersi, nel non piegarsi, nel non mollare quando arriva la difficoltà; il valore di un comportamento è nell’adattarsi, nel combattere, nel credere fermamente.
Il terzo terreno è quello pieno di rovi: il seme cade sulle spine, cresce, ma le spine più numerose e fitte lo soffocano: sono le condizioni esterne troppo soffocanti. Vivere in certi contesti culturali, in certi paesi, diventa per l'anima motivo di soffocamento. Quando si vive in contesti dove “tutto è male, tutto è proibito; questo no perché è peccato, quello no perché non sta bene; stai attento a cosa dirà la gente; non ti esprimere troppo...” allora ci si sente soffocare, non si riesce più ad esprimersi. Quando si vive in un ambiente come la nostra società attuale dove non c'è rispetto né per le persone né per l'ambiente, dove si fa tranquillamente ciò che è illecito, dove il consumo e l'apparire sono i valori principali, è ovvio che l'anima soffoca. Per l'anima, non è la stessa cosa vivere nell’onestà, nella verità del proprio lavoro oppure vivere arraffando a più non posso, passando sopra tutto e tutti! Per l'anima non è la stessa cosa vivere il piacere sessuale con il proprio partner o con tanti altri occasionali! Per l'anima non è la stessa cosa abortire o no, far nascere o far morire una vita! Spettegolare e malignare in continuazione, fare solo discorsi stupidi e banali, invece che impegnarsi nella vicendevole conoscenza, in cose profonde, serie, valide.
Il quarto terreno, finalmente, è quello buono: qui il seme cade sulla terra buona e dà il suo frutto: dove il cento per cento, dove il sessanta, dove il trenta.
Tre terreni negativi, dunque, (strada, sassi, spine) e uno positivo con tre tipologie di resa: il cento, il sessanta, il trenta. Quindi con una differenza, che non è solo quantitativa ma anche qualitativa; cioè: ognuno porta frutto a modo suo, come può; e questo è senz’altro positivo. Il frutto dipende dall'albero, è vero, ma la fecondità dell’albero dipende esclusivamente da ogni singolo terreno, da come è stato lavorato: “Dai frutti li riconoscerete”, diceva Gesù. La responsabilità è individuale, è nostra; non possiamo scaricare sempre la colpa sugli altri e sulla società. Siamo noi che nella società, nella famiglia, nel nostro ambiente dobbiamo preparare adeguatamente il terreno: in un frutteto, è difficile che ci siano alberi selvatici. L’ambiente è favorevole allo sviluppo, e in questo caso, “un albero buono fa frutti buoni”. Guardiamo alla nostra famiglia, guardiamo ai nostri figli, guardiamo le persone delle nostre comunità: sono tutti “alberi da frutto” potenzialmente buoni; se il terreno in cui si sviluppano è “lavorato”, fertile, i frutto arriveranno di conseguenza. Il terreno è come noi viviamo, è la coerenza con cui viviamo, le nostre parole, le nostre scelte, i nostri comportamenti; da ciò dipendono i frutti degli altri alberi. Lo specchio della nostra vita irradierà luce e calore per la vita degli altri.
Soltanto se ci lasciamo trasformare, se permettiamo al seme di fecondarci, di cambiarci, di farci diversi, di farci nuovi, di farci crescere, saremo a nostra volta l’humus vitale per altri uomini e donne dai grandi frutti. Ecco perché, per accogliere nuovo seme, dobbiamo essere disponibili, accoglienti, soffici, profondi. Vedete, la creatività, la fecondità, la felicità non si possono produrre autonomamente, né si possono pretendere. Solo se siamo aperti alla vita, se siamo ricettivi, se ci lasciamo trasformare, allora, e solo allora, lei, la Vita, ci raggiunge: e scopriremo di poter essere ancora molto di più, per noi stessi e per gli altri.
Penso, fratelli, che tutti ci ritroviamo in questa parabola: la sentiamo di grande conforto dentro di noi, anche per altri motivi. Alludo alle varie percentuali di produttività, quando cioè ci accorgiamo di non aver prodotto il cento per cento. A tutti infatti può capitare di fare un bilancio della propria vita e di trovarla un vero disastro, un fallimento, una delusione; ebbene, questa parabola ci dice che la nostra vita ha comunque un senso, pur avendo mancato il top della produzione, pur avendo prodotto poco frutto. L’importante è che sia buono! Questa parabola in altre parole ci insegna che possiamo essere un buon terreno anche se poi non siamo arrivati a produrre il cento per cento.
Gesù ci accoglie e ci ama sempre e comunque, anche se la nostra vita non ha avuto una produzione ottimale. Gesù ci ama anche se siamo stati inadeguati, anche se in alcuni periodi siamo stati alquanto aridi. L'importante è guardare avanti, cercare comunque di migliorare, di essere sempre più accoglienti; senza poi angosciarci se i risultati non sono sempre eccellenti, nonostante la nostra buona volontà. Il Signore ci ama per quello che siamo: l’importante è che siamo determinati, umili, che agiamo con rettitudine e sincerità.
Anche solo col trenta, possiamo guardarci dentro senza arrossire e non buttarci via. Dobbiamo capire che la nostra vita ha comunque un senso, ha un significato, ha uno scopo al di là dei nostri fallimenti, dei nostri insuccessi e delle nostre aridità. Perché anche una piccola fecondità, dice questo vangelo, vale una enorme fecondità. Purché coerente con le reali possibilità del terreno. Amen.


Nessun commento: