mercoledì 11 gennaio 2012

15 Gennaio 2012 – II Domenica del Tempo Ordinario

«Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbi, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete».
Tema della Parola di oggi è “la chiamata”. La chiamata è l’irruzione di Dio nella storia di una persona. Avviene per ogni uomo ma accade solo quando una persona è disponibile, aperta, pronta ad accoglierla e soprattutto quando si lascia coinvolgere. Normalmente, quando parliamo di “chiamata” di “vocazione”, pensiamo immediatamente a preti, frati e suore. E invece no, fratelli, perché tutti siamo chiamati a seguire Cristo. Nessuno escluso. Essere preti, frati, suore, sposati, padri o madri, è solo il mezzo, il veicolo, la via che ci serve per arrivare alla meta; è la strada che ci porta a compiere ciò che dobbiamo compiere, ciò che dobbiamo diventare, ciò che dobbiamo raggiungere: testimoniare e vivere questa nostra esistenza conformandoci al nostro Maestro. Ed è importante, fratelli miei, non confondere la meta, il punto di arrivo, Cristo, con il mezzo utilizzato per raggiungerlo; sarebbe come chiamare “sinfonia” gli strumenti musicali che concorrono a suonarla.
La chiamata inoltre è individuale, personale: ma è anche in qualche modo contagiosa; si trasmette cioè da una persona all’altra per emulazione, per “mediazione”: così il Battista è una mediazione per Andrea; Andrea è una mediazione per Simon Pietro; nei versetti successivi (1,43-51) Filippo, che aveva incontrato Gesù, diventerà mediazione per Natanaele; Simon Pietro, poi, sarà una mediazione per tanti altri uomini che, a loro volta, lo sono stati, lo sono e lo saranno per i cristiani di ieri, di oggi e di domani.
Anche la fede si trasmette per “mediazione”: è cioè un virus, un passaggio, una trasmissione, un contagio. Se viviamo una cosa che ci inebria, che ci coinvolge, che ci attira, è naturale, ovvio, che ne parliamo, la comunichiamo. Come facciamo a tenerla per noi? Come facciamo a non dirla, se ci appassiona? Non ci limitiamo a dare una semplice informazione ma comunichiamo qualcosa che per noi è vitale, qualcosa che ci ha cambiato la vita. E questa, fratelli, è la testimonianza, questa è la missione. La fede non la si comunica per indottrinamento, per imposizione, inculcando e pressando dentro la testa delle persone dei concetti e delle verità, ma per contagio. “A me ha cambiato la vita. Vuoi provarci anche tu?”. “Io non sono più lo stesso, sono un altro, sono cambiato, sono felice. Questo mi è successo da quando l’ho incontrato. Vuoi provare?”. Quante esperienze, fratelli miei, abbiamo cominciato come nel vangelo, per semplice curiosità. C’è uno che dice: “Lo sai che quell’incontro è proprio bello? Sai che quell’esperienza è stata veramente bella? Sapessi quanto è brava quella persona!”. E l’altro, un po’ per amicizia, un po’ per curiosità, si fida e va. E poi non smette più di andarci.
Bisogna però essere almeno curiosi. Bisogna almeno fidarsi. Bisogna almeno provarci. Bisogna almeno lasciarsi contagiare. Bisogna, cioè, torniamo a dirlo, lasciarsi coinvolgere. La fede, come la vita, come l’amore, come tutto ciò che è intenso, è coinvolgente. Se abbiamo paura di cambiare, di metterci in gioco, di soffrire, di star male, di sentire le emozioni, non possiamo seguire il Signore. Dio è coinvolgimento totale, per questo è difficile seguirlo! Dio è coinvolgimento totale, per questo, seguirlo, è affascinante, inebriante, vitale!
Molti credono che la “chiamata” sia una telefonata speciale di Dio. Una mattina ci suona il telefono, rispondiamo, e una voce perentoria: “Sono Dio, devi seguirmi!”. E così per tutta la vita aspettiamo chissà cosa o chissà chi che ci dica come e quando; aspettiamo chissà quale fatto straordinario, che ci faccia finalmente partire. Ma in realtà il nostro è solo un pretesto per rimanere come siamo. Non ci sarà mai niente di ufficiale e di solenne, fratelli; Dio passa e ci suggerisce, attraverso un amico, una persona, una casualità, un evento fortuito, una situazione, una intuizione: “Vieni; provaci; fallo anche tu!; segui il tuo cuore”. E noi lo facciamo; perché la fede, cari fratelli, anche se debole, comporta proprio questo: fidarsi e andare (“Vieni e seguimi”). Sì, la fede è fiducia.
Pietro si fida di Andrea: è suo fratello, è pieno di entusiasmo per quest’uomo; e pensa: “Beh, perché non provarci? Perché non andare? Andiamo a vedere!”. Pensate: se Pietro non si fosse lasciato coinvolgere dall’entusiasmo di suo fratello, se non si fosse fidato, non sarebbe diventato il primo degli Apostoli, il primo Papa della Chiesa cristiana. Dio passava in quel momento e gli chiedeva di cogliere l’attimo, l’occasione, di fidarsi di suo fratello e di lasciarsi coinvolgere. Non aveva la più pallida idea di cosa sarebbe successo dopo. Ma si è fidato.
La fede è la cosa più personale che ci sia: soltanto noi, singolarmente, possiamo sentire la chiamata, cogliere l’occasione al volo e dire di sì. La responsabilità della risposta è tutta e solo nostra. La fede è la cosa più facile che ci sia, basta dire: “Sì”. Però dobbiamo scegliere. La fede è la cosa più entusiasmante che ci sia, perché ci coinvolge personalmente, vuole noi e non altri. Ma la fede è anche la cosa più difficile che ci sia, perché dobbiamo fidarci ciecamente.
In questo brano del vangelo c’è poi un bellissimo gioco di sguardi e una insistenza sul verbo “guardare”. Prima Giovanni Battista fissa lo sguardo su Gesù (1,36); poi è Gesù che fissa lo sguardo su Pietro (1,42), quindi sempre Gesù si volta e vede che lo seguono (1,38), e dice: “Venite e vedrete” (1,39). E i due discepoli, come conseguenza, “andarono e videro” (1,39).
Gli occhi dicono di una persona molto di più che tutte le sue parole. Perché gli occhi sono lo specchio dell’anima, e, fratelli, non è solo un modo di dire: gli occhi, veramente, proiettano un raggio che viene da dentro; quello che siamo, quello che abbiamo, quello che viviamo, nella nostra anima, viene visualizzato, viene rivelato dagli occhi, dallo sguardo. Se guardiamo negli occhi di una persona, possiamo vedere la sua anima. Per questo quasi mai ci guardiamo negli occhi; temiamo delle intrusioni, abbiamo quasi paura ed è come se ci dicessimo: “Io non guardo dentro di te, e tu non guardare dentro di me”.
Alcune persone hanno occhi ostili, che ci giudicano, che ci condannano; occhi magnetici, da cui siamo, come dire, presi, ingabbiati, posseduti: occhi mortiferi, occhi negativi, perché è l’anima di queste persone ad essere così. Ma ci sono anche persone con uno sguardo dolce, che salva, che ci guarisce, che ci libera, che ci fa sentire amati e riconosciuti. Occhi che sono una rugiada per le nostre paure, per le nostre debolezze, per la nostra vergogna. Sono gli occhi dell’amore perché l’anima di queste persone è piena d’amore. E noi abbiamo bisogno di essere riconosciuti. Noi tutti abbiamo bisogno di essere visti, considerati, apprezzati, amati.
Giovanni Battista “fissa lo sguardo” su Gesù e Gesù “fissa lo sguardo” su Pietro. Non è uno sguardo veloce, il loro; non un guardare fugace, soprapensiero, distratto. È un guardare penetrante, di quelli che ti scavano dentro, di quelli che ti fanno rabbrividire ed emozionare perché non guardano la pelle del viso o il colore degli occhi, ma scrutano, dentro, l’anima e il cuore.
Molti sono convinti di conoscere una persona prima ancora di vederla, di fissarla negli occhi, di conoscerla, e si fermano a questa prima impressione per emettere giudizi e sentenze. Niente di più sbagliato: per conoscere a fondo una persona, abbiamo bisogno di fissarla negli occhi, non di fissarci sulle nostre idee, sulle nostre impressioni; abbiamo bisogno di guardarla, di guardarla soprattutto dentro, di guardarla attentamente; perché le persone sono molto più rivelatrici ed esaurienti di qualsiasi nostra idea, di qualsiasi nostra teoria psicologica.
E poi abbiamo bisogno che qualcuno guardi dentro anche a noi. Abbiamo bisogno che qualcuno ci fissi, come Gesù ha fatto con Pietro; che veda ciò che abbiamo dentro e che non abbia paura (almeno lui, visto che noi a volte ne abbiamo tanta) di quello che vede, che non si vergogni di noi, ma che anzi sappia “vedere” il nostro vero volto, la nostra vera identità.
Visto all’esterno, Simon Pietro era un pescatore, uno fra i tanti, niente di speciale. Ma Gesù gli ha visto dentro: “Tu sei di più, Simon Pietro. Io credo in te. Io ho visto ciò che hai dentro. Io vedo la tua passione, il tuo fuoco, la tua sensibilità. Vedo anche la tua durezza, la tua cocciutaggine, ma vedo tutta la tua ricchezza, la tua generosità. Tu puoi essere diverso. Puoi essere un altro. Tu non sei una pietra qualunque ma una roccia”.
L’amore è così: uno entra dentro di noi e vede ciò che noi non vediamo.
Ci sono poi due domande da sottolineare: “Che cercate?” e “Dove abiti?” (1,38) e una risposta: “Venite e vedrete” (1,39). Domande e risposta che costituiscono il centro della nostra fede: Vuoi sapere chi sono? “Seguimi!”.
Gesù non ha dato una risposta, non ha fornito una soluzione, pronta e impacchettata; non ha dato un ordine secco, e non ha neppure detto cosa fare o cosa non fare. Gesù ci invita a percorrere una strada, un cammino, una via: “Venite e vedrete”. Chi vuole, lo segua. Gesù non fa una lezione di catechesi, un discorso, una bella conferenza; dice semplicemente: “Venite e vedrete”. Cioè: “State al mio fianco e voi stessi ve ne farete un’idea; venite a casa mia, ascoltate quello che dico, guardate quello che faccio”.
Gesù non ha mai costretto nessuno. Il suo è un invito, una proposta. “Seguimi”, solo se lo vuoi, se ti va. E molti, infatti, non lo seguirono allora (ricordate il giovane ricco?) e non lo seguono ora. La fede vive di libertà, così come tutto ciò che è importante (l’amore, i rapporti tra le persone). La fede cristiana non è una teoria o una serie di pratiche ma è una esperienza, un rapporto, una relazione, una comunione. È vita, perché è esperienza, rapporto con Qualcosa di Vivo.
Quanti di noi che si ritengono religiosi (e ne sono fieri!), in realtà non vivono questa fede. La loro, fratelli miei, è una fede “morta”. Perché? Perché non sanno provare misericordia per il prossimo; sono incapaci di provare la gioia dell’amore gratuito; sono impassibili, di ghiaccio, nei confronti di chi sbaglia: con loro non c’è alcuna possibilità di comunione. Non si entusiasmano, non sanno abbandonarsi a slanci di gioia, disdegnano l’immenso e la vastità della carità; non sanno commuoversi di fronte alle nuove nascite né al progressivo crescere dei bambini; sono duri, insensibili, non sanno piangere quando il loro cuore è affranto e piegato dal dolore; non c’è poesia in loro, non c’é canto, né lode, né contemplazione nella loro fede; ma solo tristezza, sentimenti tetri e funerei.
Quando invece, il “vieni e seguimi” di Gesù è completamente all’opposto. Gesù ha predicato là dove c’era vita: c’erano sì il dolore, la malattia, lo sconcerto e l’abbandono: ma erano vita! Gesù è andato proprio là dove c’erano le catene, e le ha rotte, ha portato liberazione. È andato là dove c’era dolore e sfiducia e ha portato luce. È andato dove c’era sordità e indifferenza, e ha portato la musica del cuore e dell’anima. È andato là dove le persone non camminavano, schiacciate dalle contrarietà della vita, le ha risollevate e ha dato loro dignità. È andato dove nessuno voleva andare, perché per Lui non esistono luoghi dannati, in cui un raggio della sua luce non possa arrivare. I suoi discepoli li portava tra la gente: in mezzo al dolore, alla malattia, alla disperazione, alla morte; ma anche in mezzo alla gioia, alla festa, in mezzo alla gente che si divertiva e che era viva dentro: insomma li portava ovunque c’era vita: quella vera, però, quella che spera sempre, quella che si entusiasma, quella che soffre e che si lascia anche andare, ma che è sempre pronta a rialzarsi e ripartire. Gesù non lo troviamo mai nei palazzi dei nobili, alla corte dei ricchi, nei luoghi del potere civile e religioso, dove la vita è mortificata, fissata, cristallizzata, pianificata, stabilita. Lo troviamo solo là dove la vita scorre, fluisce, diviene. Perché lui è la Vita che guarisce la vita.
Dio infatti non guariva le persone sradicandole dalla loro vita, trasferendole in altre realtà: Egli le guariva mettendole a contatto con le loro situazioni concrete, con le loro malattie, le metteva di fronte alle loro infermità, alle loro miserie, a tutto ciò che esse non volevano vedere e toccare. Questo perché, fratelli, è solo “toccando”, solo rendendoci conto delle nostre infermità, del nostro malessere, che si può guarire. Seguire quindi Gesù vuol dire prendere, toccare, mangiare, in una parola vuol dire impossessarci della nostra vita, così com’è.
Dio non lo incontriamo solo in chiesa: anzi lo incontriamo soprattutto fuori, nella vita; dentro, semmai, lo possiamo incontrare solo se la Chiesa è veramente vita, comunione, carità, e non formalità, un accavallarsi di riti e parole vuote, senza senso. È entrando nella vita, con tutte le sue variabili, le sue difficoltà, i suoi alti e bassi, le sue salite e discese, le sue ripartenze e i suoi fallimenti, le sue sfide e le sue conquiste, che noi certamente incontreremo il Dio di Gesù Cristo. È solo entrando nella nostra vita e prendendola sul serio come un dono ricevuto dalle mani di Dio, come avuta da Lui, senza esimerci, senza sottrarci, senza sfuggirla, che lo incontreremo. Purtroppo la vita (e scusate se insisto su questo) non è una strada in discesa, come piacerebbe a noi! La vita è contorta, strana, oscura, misteriosa; a volte è crudele e a volte è meravigliosa. A volte la capiamo, altre no. Dio lo sa questo; e quando ci chiama, non ci sottrae alle contraddizioni della nostra vita, ai nostri lati oscuri, alle zone di mistero, ai conflitti inevitabili o ai dubbi che ci tormentano. Dio anzi ci butta dentro tutto ciò. Ci sommerge. Gesù non ci tira mai fuori dalla nostra esistenza; Egli ci chiama a diventare suoi discepoli così come siamo.
Dio è una realtà così coinvolgente e trascinante, da farci vivere completamente con Lui e per Lui. Però, fratelli miei, se noi continuiamo ad aver paura di lasciarci andare, se non siamo pronti a buttarci tutto alle spalle, se temiamo di provare questo brivido, anche se solo dubitiamo dell’infinita ricchezza di questa vita, allora, fratelli, non saremo mai in grado di poterlo seguire. Ripeto, mai; e qualunque Sua chiamata cadrebbe puntualmente nel vuoto. Perché? perché non siamo disponibili a vivere il suo “brivido”, non abbiamo il coraggio di buttarci. Dio invece ci offre di vivere solo ad alta quota; di camminare sempre a tutta velocità, a tavoletta; di tuffarci continuamente dentro le cose con crescente entusiasmo. Egli ci prende, ci appassiona, ci attira: è irresistibile. Lo abbiamo visto con i chiamati della prima ora, gli apostoli: dopo aver accolto la Sua chiamata, non poterono più tirarsi indietro. Furono sedotti, conquistati. Per loro Dio fu letteralmente un colpo di fulmine, un blitz, una luce abbagliante, una illuminazione totale, un innamoramento senza precedenti. Ecco, questo è il punto. Questa è la realtà, fratelli: e finché Dio non sarà anche per noi fuoco, amore, luce, vita, è inutile che ci illudiamo pensando di essere suoi discepoli; non lo siamo e non lo saremo mai; se il nostro cuore non vive in Dio e per Dio, davanti alla gente possiamo anche sembrare degli ottimi cristiani, ma non arriveremo mai a conoscerlo, a viverlo così come Egli è. Quindi, fratelli, niente scuse, niente giustificazioni, né scorciatoie. È questo il nostro compito e dobbiamo assumercelo: andare e seguirlo. Come Lui ci ha insegnato. Come hanno fatto gli apostoli. Nient’altro. Amen.


Nessun commento: