martedì 24 gennaio 2012

29 Gennaio 2012 – IV Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, a Cafarnao, insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi».
È sabato. Giorno sacro per gli Ebrei. Gesù, con al seguito lo sparuto gruppetto di discepoli appena chiamati, entra nella sinagoga di Cafarnao e si mette senza tanti preamboli ad insegnare; e che succede? Le persone presenti si rendono subito conto che egli, pur non essendo scriba, pur non essendo preposto all'annuncio della Parola di Dio, è decisamente su un altro livello rispetto agli scribi; si rendono immediatamente conto che, a differenza degli scribi, egli viene direttamente da Dio. Sentono le sue parole scendere in profondità nel loro cuore; sentono che sono parole cariche di umanità, di vita, di liberazione. E tra di loro sussurrano, stupiti, meravigliati: “Finalmente! Si sente che è in collegamento diretto con Dio!”.
Non è uno scriba! Ma chi erano dunque questi scribi? Originariamente erano tecnici esperti nella trascrizione dei testi sacri (scriba, sôphêr (in ebraico), significa appunto scrivano, amanuense). Progressivamente però hanno assunto una smisurata autorità nella comunità ebraica, superiore a quella del sommo sacerdote, superiore persino a quella della stessa Torah, di cui erano i custodi, gli infallibili interpreti, gli unici ad essere autorizzati a commentarla.
Ebbene: quel sabato, alla presenza di questi signori, Gesù prende in mano il rotolo e con grande serenità impartisce loro una magistrale lezione di stile e di vita, una di quelle che avrà modo di ripetere più volte anche in seguito. Siamo nella sinagoga, praticamente in casa loro: per cui se non fosse stato per il popolo presente che, “meravigliato”, si è schierato immediatamente a fianco di questo sconosciuto dalla grande “autorità”, questo gesto di Gesù si sarebbe sicuramente risolto con una dura reprimenda nei suoi confronti. Ma tant’è; anche se a malincuore, gli scribi devono fare buon viso a cattivo gioco.
Anzi il vangelo prosegue annotando ironicamente che in questa “loro” sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito immondo: una annotazione curiosa, che mi ha colpito e che mi suggerisce una domanda: perché questo poveraccio, nelle precedenti riunioni tenute dagli scribi nella “loro” sinagoga, non si era mai “ribellato”? Tento una spiegazione: perché con loro egli stava bene, si sentiva al sicuro, a suo agio. Del resto erano stati loro, con le loro dottrine, a inoculare in lui il veleno dello “spirito immondo”. Egli ha dato loro piena fiducia, ha sempre creduto e continua a credere a quanto gli hanno insegnato; non si è mai chiesto se ciò corrispondesse alla verità, se la realtà fosse questa o un’altra. Non aveva mai avuto dubbi, non si era mai fatto domande e mai si era sognato di considerare le cose da altri punti di vista. Si diceva: “Questo mi hanno insegnato, questo credevano i miei padri, questa è la verità”. Una verità che fino ad allora gli aveva sempre dato sicurezza, stabilità. È quando arriva Gesù che nascono i problemi, che tutto gli si rovescia addosso: percepisce che chi gli sta di fronte ha ben altra "autorità" rispetto agli scribi; sente che Gesù ha la sapienza, la forza e la potenza di Dio («Io so chi tu sei: il santo di Dio!»), ma egli non può accettarlo come Dio, perché ha già in cuor suo il suo Dio. E quando Gesù semplicemente guardandolo sembra dirgli: “Guarda che non è come credi tu! Guarda che Dio non è come te l'hanno insegnato!”, quando cioè si rende conto che Gesù gli sta smantellando le sue certezze, che sta demolendo le fondamenta su cui ha costruito la sua vita, si sente improvvisamente minacciato, e reagisce con violenza, affrontandolo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?». Perché non ci lasci in pace? Perché non te ne torni da dove sei venuto?
Parla al plurale, il malcapitato, perché in realtà sono in due: lui e il suo demone! 
Ebbene fratelli: quante volte anche noi abbiamo dato spazio al nostro demone, attribuendo a Dio la colpa dei nostri insuccessi, delle nostre sconfitte, dei nostri dolori, delle nostre malattie, dei nostri lutti. Non è colpa di Dio, fratelli; non è Dio che li vuole: sono purtroppo i disagi della vita, le inevitabili zavorre dell'umanità, il pesante bagaglio del nostro terreno peregrinare. Dio non c’entra! Etichettare tutto come “volontà di Dio” è molto pericoloso. Perché con l’etichetta “Dio”, individuiamo immediatamente il responsabile di tutto, e ci dispensiamo dall’andare alla radice del problema, della questione, del suo vero perché. Prendersela con Dio ci offre la giustificazione per non fare passi in avanti, per non crescere, per non cambiare, per non impegnarci, per non soffrire, per non evolvere. Questa etichettatura religiosa, fratelli, è la più forte resistenza che noi opponiamo a Dio, per giustificare la nostra mediocrità.
Inoltre, quanti di noi abbiamo fatto di un gruppo, di una setta, di un movimento religioso, il nostro Dio: il nostro bisogno di avere un “padre”, di essere cioè riconosciuti e amati da qualcuno (sia esso guru, prete, santone, maestro, non importa), di appartenere a qualcuno (gruppo, setta, associazione, movimento) è talmente forte (carenza affettiva dell’infanzia) da arrivare a “sacrificare” la nostra libertà personale, la nostra testa, pur di aderirvi. Il bisogno di appartenenza diventa talmente importante, da uccidere il bisogno di unicità, il bisogno di essere noi stessi, di fare la nostra strada.
Siamo un po’ come l’indemoniato nella sinagoga: ce ne stiamo buoni buoni. Ma quando Gesù ci smaschera, ci mette di fronte alle nostre responsabilità, allora reagiamo con una forza inaudita e gli urliamo: Che vuoi da noi? Sei venuto a rovinarci? “Non vogliamo avere nulla a che fare con te!”. Parole in cui c’è tutto il nostro rifiuto, il “no” a Gesù e alla verità. “Sei venuto a rovinarci?”. Ebbene: “Sì!”. Dio viene, e quando serve manda in frantumi le nostre impalcature, i nostri alibi, le nostre scuse, le nostre sicurezze. Dio è la rovina, la distruzione, l’uragano, il vento che spazza via tutto quanto credevamo vero, e non lo era.
Ma ascoltiamo attentamente le parole velenose dell'invasato della sinagoga: “Che c’entri con noi?”. Perché usa il plurale, se è il solo che parla? Chi sarebbero questi “noi”? È chiaro: l’uomo è posseduto dal demonio; ma qui parla anche a nome degli scribi, gli artefici di questo demone: le parole di Gesù li minacciano, li destabilizzano, mandano in rovina la loro autorità, il loro prestigio, le loro liturgie: “Invano mi prestano culto, mentre insegnano dottrine che sono precetti di uomini, annullando così la Parola di Dio(Mc 7,7.13).
“Loro”, gli scribi, (il testo dice: la lorosinagoga”) sono i detentori della verità, “loro” organizzano le liturgie, “loro” custodiscono la Scrittura dei padri, “loro” sanno cosa è puro e cosa è impuro, cosa è giusto e cosa non è giusto, chi può essere ammesso e chi non può essere ammesso. Lo dice la Bibbia, lo dicono i profeti, lo dicono tutti! Per questo “loro” possono giudicare e sentenziare sulla vita degli altri. Sono “loro” che dicono: “Questa è la fede, questo è Dio”.
Insomma sono “loro”, sempre “loro”. Ma non vi pare che oggi in quel “loro” ci siamo un po’ anche noi? Questo vangelo ci provoca parecchio, fratelli. Noi ci definiamo cristiani, cattolici e parliamo di Dio agli altri. Ma dobbiamo stare molto accorti, perché anche noi, nelle nostre chiese, nelle nostre parrocchie, nelle nostre comunità, potremmo trasformarci facilmente in altrettanti scribi.
Eh sì, fratelli miei: non capita forse anche a “noi”, oggi, di sentirci l’unica chiesa autentica, gli unici fedeli, i veri cattolici, quelli che possono tranquillamente sostituire i preti, quelli che ne sanno più di loro, quelli che hanno frequentato corsi di spiritualità, università cattoliche, specializzazioni liturgico teologiche, quelli che organizzano la carità, quelli che sono convinti di sapere già tutto, quelli che non ascoltano più alcuna direttiva pastorale perché tanto, sono convinti di aver sempre ragione loro? Credo proprio di sì: senza che ce ne rendessimo conto, siamo diventati anche noi come “loro”, come i capi della sinagoga di Cafarnao. E del suo indemoniato. Siamo purtroppo tutti infermi, siamo, un pò tutti, in preda ai nostri demoni; quei demoni che non vogliamo vedere, di cui neghiamo l'esistenza, che non vogliamo prendere in considerazione: siamo “ciechi”, ma pretendiamo di essere “guide” per gli altri, rischiando di portare anche loro nelle tenebre.
Ascoltiamo a questo proposito le parole di Gesù: “Può un demonio aprire gli occhi di un cieco?” (Gv 10,21). “Quando un cieco guida un altro cieco tutti e due cadranno in un fosso!” (Mt 15,14). “Guai a voi scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete il doppio di voi figlio della Geenna” (Mt 23,15). Parole dure, fratelli, parole dure che ci devono scuotere nell’intimo; parole che ci devono far pensare seriamente.
 «Taci! Esci da lui!» sono le parole risolutorie e salvifiche di Gesù: soltanto le sue Parole, fratelli, possono liberarci dai nostri demoni, possono strappare dal nostro cuore, dalla nostra mente, quegli spiriti immondi che ci possiedono, e guarirci.
Guarire è meraviglioso, fratelli; ci fa sentire liberi e leggeri, ci fa recuperare la nostra identità, la nostra dignità, la nostra vita.
Ma guarire “fa male”, a volte “tanto male”, è doloroso; perché è staccarsi da ciò che chiamavamo certezza (spirito) e che invece si rivela malvagio, condizionante, imprigionante (impuro). È una esperienza dura, una esperienza che richiede molto sacrificio. Guarire “fa male”, perché va ad aprire delle porte chiuse a chiave, che non vogliamo aprire perché sappiamo che lì dentro c’è qualcosa che ci fa vergognare, qualcosa di doloroso e di terribile. Per questo tentiamo con tutte le forze di evitarlo e di scappare. Per guarire però, per cauterizzare a fondo le nostre ferite, è necessario talvolta scendere nell’inferno del dolore. 
Il vangelo dice “straziandolo e gridando forte” (Mc 1,26). Ebbene: il verbo “straziare” (sparassein, tirare fuori, strappare, dilaniare, torturare) rende molto bene l’idea di questo difficile percorso, di questo drammatico distacco dal maligno: è una lacerazione interiore che però ci affranca, ci ridona la guarigione, la felicità, l’Amore, la Vita.
Non aspettiamo, fratelli, che il “nemico” ci immobilizzi; lui è sempre pronto, è il suo mestiere: “adversarius vester diabolus tamquam leo rugiens, circuit quaerens quem devoret; il vostro nemico, il diavolo, va in giro come un leone ruggente cercando qualcuno da divorare. Resistiamogli saldi nella fede” (1Pt 5,8). Questo deve essere il nostro proposito. E con Pietro vi assicuro che: “Il Dio di ogni grazia, che ci ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, egli stesso, dopo che avremo un poco sofferto, ci ristabilirà, ci confermerà, ci rafforzerà…” (Ib.).
A lui la potenza e la gloria nei secoli. Amen!


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