mercoledì 25 luglio 2012

29 Luglio 2012 – XVII Domenica del Tempo Ordinario

«Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i [cinque] pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto.» (Gv 6,1-15).
Giovanni, nel vangelo di oggi, ci mette di fronte ad una situazione molto concreta: una grande folla (circa cinquemila uomini), attratta dalla fama di Gesù, lo aveva seguito fin oltre il Lago di Tiberiade; il luogo è deserto, e immediatamente si pone il problema di come poter dare qualcosa da mangiare a tutta questa gente,già da tempo assente dalle loro case. Gesù si siede e li avvolge con il suo sguardo amorevole; tutti si sono accomodati sull’erba e attendono le sue parole. Egli, per provare la loro fede, chiede ai suoi discepoli cosa si può fare: certo non hanno molte soluzioni, con sé non hanno proprio nulla; trovano soltanto un ragazzo che casualmente ha cinque pani e due pesci: un niente per tutta quella folla!
Sia ben chiaro: non si tratta qui di un picnic organizzato, in cui tutti sono andati equipaggiati di borse cariche di vettovaglie che, messe in comune, vengono poi distribuite a tutti i presenti, con buona pace di tutti: come ebbe a spiegare in una omelia domenicale un parroco; secondo il quale, quindi, non si sarebbe trattato qui di un autentico miracolo di Gesù, non ci sarebbe stata “moltiplicazione” di pani e pesci, ma semplicemente una “equa distribuzione proletaria dei beni” che ognuno aveva con sé; questa sarebbe infatti, sempre secondo lui, l’esatta “lettura” di questo vangelo (sic): tutto il resto è solo fantasia, ricamo devozionale!
Lasciando da parte questa interpretazione socio-economica del fatto, realmente udita durante il mio attuale peregrinare, una cosa giusta bisogna riconoscere al nostro amico parroco: l’aver intuito che condividendo, mettendole cioè in comune, le cose si moltiplicano. Se si condivide, ce n’è per tutti. Altrimenti, come lo sappiamo, ce n’è solo per l’arroganza di pochi. Condividere tutto con fede, con la benedizione di Dio: questo è il significato del miracolo di Gesù: egli infatti sa perfettamente che i cinque pani e i due pesci del ragazzetto sono un niente di fronte alla moltitudine presente, eppure ordina la condivisione, e man mano che il poco, il niente, viene distribuito, condiviso, automaticamente si moltiplica, non si esaurisce mai… addirittura ne avanza!
Primo insegnamento: Gesù ci invita a non nascondere il nostro poco, ma a tirarlo fuori, ad usarlo, a fidarci del poco che siamo; a non fare sempre le vittime, a non nasconderci dietro al fatto che non siamo niente, che siamo poco. Anche se effettivamente siamo poco, Dio non guarda mai la quantità, quanto facciamo: Dio guarda come lo facciamo, Dio guarda il nostro cuore.
Tutte le cose all’inizio sono niente. Ma poi crescono. Se ci fidiamo di quel poco che abbiamo, se lo usiamo, se lo mettiamo a disposizione, se non ce ne vergogniamo, se lo mostriamo, un giorno diventerà grande, crescerà e si svilupperà.
Forse i nostri occhi considerano meschino ciò che abbiamo ma, fratelli, fidiamoci di Dio, perché ai suoi occhi nulla è meschino! Forse quando ci guardiamo allo specchio non ci piacciamo, ci butteremmo via. Ma ricordiamoci: veniamo da Dio! Ogni giorno della nostra vita benediciamo ciò che siamo; ogni giorno ringraziamo per essere così, per cercare ogni giorno la nostra trasformazione; ogni giorno cerchiamo per chi dobbiamo diventare pane; ogni giorno “fidiamoci di Dio”.
Il senso del miracolo di Gesù, ho detto, è che più si condivide, più le cose si moltiplicano. Ora, in una comunità, più mettiamo insieme, e più i miracoli si compiono. Se ognuno fa la sua parte l’impossibile diventa possibile. In un’azienda più ognuno mette a disposizione di tutti le proprie informazioni, le proprie capacità, le proprie risorse professionali e umane, e più quell’azienda funzionerà. In famiglia, più si condivide ciò che ciascuno ha vissuto durante la giornata, ciò che ha provato, gli alti e i bassi, e più quella famiglia trova l’unione, diventa forte, intima e profonda. Mi raccontava una suora che nel suo paese dell’America latina, come del resto in tante altre parti del mondo, tutti gli abitanti collaborano gratuitamente per costruire le case. Uno deve farsi una casa? Tutti insieme lavorano i fine settimana per lui. Una volta finita in poco tempo la casa, si spostano tutti a costruirne un’altra. E così via. Un’idea semplice, ma geniale, economica ed educativa. Mentre la società tende a dividerci sempre più, a privatizzarci, a singolarizzarci, noi abbiamo invece bisogno di metterci insieme, di aiutarci, di condividere, di offrire ciascuno gratuitamente ciò che può offrire.
Secondo insegnamento: dobbiamo “benedire” quel poco che abbiamo. “Benedire” vuol dire fidarsi di quel che c’è, di quello che siamo, di quello di cui disponiamo. Gesù si fida di quei cinque pani e due pesci, e Dio moltiplica quel poco. “Benedire” vuol dire: “Amo e accetto quel poco che sono perché viene da Dio; perché se sono così è perché Lui vuole che io sia così; è Lui, che sa ogni cosa, che conosce ciò che è bene per me, che mi ha fatto così”. Allora smettiamo di cercare in tutti i modi di essere diversi, smettiamo di voler essere come tutti gli altri, e non essere noi stessi; smettiamo di invidiare gli altri chissà mai per cosa! Benediciamo invece ciò che siamo e ringraziamo Dio per questo; cerchiamo di scoprire da Lui, partendo da ciò che siamo, cosa dobbiamo fare in questa vita; quali miracoli possiamo fare con Lui in questa nostra vita. Forse ci sembra poco; ma fidiamoci di Dio. Ci ha creato Lui, Lui sa!
Abbiamo visto che quando Gesù “benedice”, tutto è possibile, il poco diventa abbondanza per tutti. Le sue parole richiamano le parole che ogni domenica sentiamo durante l’Eucarestia: “Prese il pane, rese grazie, lo spezzò, lo diede loro…”; e così pure col vino, prendendo il calice. Benedire e spezzare per tutti, è ricordarsi da dove viene ogni cosa. Ogni cosa non è nostra. Non è una nostra proprietà. Quindi ricordiamoci la sua origine. Quindi ricordiamoci che è di tutti. Quindi ricordiamoci che tutti ne hanno diritto. Spesso invece noi scambiamo per proprietà ciò che abbiamo semplicemente in uso. Chiamiamo proprietà ciò che non è nostro, ciò che non possiamo portare con noi, che non possiamo vincolare a noi. Abbiamo mai visto un uomo portare con sé i suoi beni dopo la morte? No. E Perché? Unicamente perché non è possibile (anche se ci piacerebbe!). Eppure mentre è in vita, l’uomo si arroga il diritto di chiamare “suo”, ciò che usa soltanto. È una grande illusione. Neppure la “nostra” vita è nostra. Una malattia qualunque ce la può togliere. Basta un incidente qualunque, e la vita improvvisamente si spegne, in un istante ci viene sottratta. Dobbiamo restituirla. E se siamo chiamati a restituirla, vuol dire che non può essere nostra. Allora, fratelli, cosa c’è di veramente nostro? Solo l’attimo presente; l’istante che stiamo per vivere; l’adesso, l’hic et nunc, come dicono i latini, “il qui e ora”. Capite l’importanza di questa inafferrabile frazione infinitesimale di tempo?
Noi pensiamo invece che la vita ci sia dovuta, sia un diritto, sia senza fine. E, invece, no. È un regalo, un’opportunità. Ci arrabbiamo quando ci viene tolta; ma ci dimentichiamo di gustarla quando ce l’abbiamo, ci dimentichiamo di benedire chi ce l’ha data, di ringraziare Dio per le immense possibilità che ci offre continuamente, ad ogni battito di orologio. Se ringraziassimo di più, se vivessimo nel modo giusto la nostra vita, se fossimo coscienti del grande dono che in ogni istante, in ogni battito di cuore, in ogni respiro ci viene confermato, saremmo più riconoscenti e meno angosciati dalla paura di perderla. Chi pensa di essere “proprietario” delle cose, non ha motivo di ringraziare nessuno, non ha motivo di stupirsi, di benedire: sono sue, perché farlo? Al contrario soltanto chi sa di non avere nulla può provare gratitudine: per quello che è, per tutte le cose che gli sono date in consegna; soltanto chi sa che nulla gli è dovuto, che niente gli spetta di diritto, che tutto è dono, solo costui può vivere veramente sereno e felice. Solo così penserà meno a sé e più ai fratelli. Ecco allora che quel “distribuire a tutti il pane” significa per lui “siamo tutti un'unica famiglia”.
Del resto è anche il vero senso della così tanto decantata “globalizzazione”. Se in una famiglia uno sta male, tutti ne sono coinvolti; lo star bene è di tutta la famiglia, altrimenti tutta la famiglia ne soffre. Come dire: se sto male di stomaco o se ho il mal di denti, tutto il corpo ne risente. Solo se ogni singola parte del corpo sta bene, l’intera persona sta bene, è sana.
Così, se c’è condivisione allora ce n’è per tutti. Se manca condivisione, allora ce n’è solo per pochi. La torta c’è. Ma se uno ne mangia metà da solo, è chiaro che qualcuno ne rimarrà senza.
John Young in occasione del quinto viaggio sulla luna, il 16 aprile 1972 diceva: “Da questa prospettiva non ci sono bianchi o neri, est ed ovest, comunisti e capitalisti, nord e sud. Formiamo tutti un’unica terra. Dobbiamo imparare ad amare questo pianeta di cui ognuno è una piccola parte”.
Niente di nuovo: è l’esatta prospettiva di Gesù. C’era tanta gente quel giorno, in riva al lago: alcuni gli credevano ciecamente, altri intuivano soltanto che qualcosa di grande e di diverso c’era in quell’uomo; altri lo seguivano solo per egoismo, per ricavarne qualcosa; altri lo odiavano, volevano metterlo alla prova, cercavano motivi per ucciderlo; altri erano solo curiosi. Ma Gesù li abbraccia tutti con il suo sguardo amorevole; non fa distinzioni, non guarda in faccia alle singole persone, non si chiede se chi gli sta davanti sia amico o nemico. A tutti indistintamente Egli dà il pane, offre il nutrimento. A tutti Egli offre la stessa opportunità. La sua è l’autentica prospettiva universale.
Mettiamoci allora, fratelli, in questa prospettiva di Dio, guardiamo anche noi questo povero mondo, tanto martoriato, con gli stessi suoi occhi: non ci sono bianchi o neri, buoni o cattivi, quelli di destra e quelli di sinistra, quelli ricchi e quelli poveri, quelli intelligenti e quelli stupidi, quelli religiosi e quelli no. Ci sono solo uomini, creature che hanno fame di Dio, di verità, di pace. È Lui il solo Padre, tutti siamo suoi figli. E a tutti Egli offre il pane del Vangelo, dell’Amore: alcuni lo mangiano, altri non sanno che farsene. Lui ci ama tutti: alcuni si aprono al suo amore, altri no. Siamo suoi figli, e Lui si preoccupa per tutti: alcuni lo ascoltano, altri no. Lui vuole nutrirci tutti di Vita: alcuni si sfamano, altri no. Lui ci vuole tutti nella sua casa: alcuni ritornano, altri no. Lui vuole che nessuno si perda: alcuni lo accolgono, altri lo rifiutano. Ma tutti, tutti, sono suoi figli. Tutti gli stanno a cuore. Li ama tutti. È il padre di tutti. È il Pane di tutti. Questo, fratelli, è il grande miracolo su cui siamo chiamati a meditare. Amen.


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