mercoledì 6 marzo 2013

10 Marzo 2013 – IV Domenica di Quaresima

«Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto» (Lc 15,1-3.11-32).
 
“Un vangelo nel vangelo”, potremmo definire quello di oggi. Un brano che ci mette in contatto con l’universo della bontà di Dio: perché è chiaro, la figura del “padre” è la sua. È la storia di un Dio “padre”, che accoglie a braccia aperte ogni figlio smarrito. Ma il testo ci offre anche altre chiavi di lettura: quella della nostra storia personale, la storia dei rapporti umani, la storia di tutti i figli di questo mondo che, per vivere, devono rompere con la “casa” e con “il padre”, per poter trovare se stessi, la propria vita, la propria missione, il proprio posto nella società: perché per vivere è fondamentale fare esperienza, capire, percepire la vera portata delle potenzialità che tutti abbiamo, ma di cui non ce ne rendiamo conto.
È la storia di come possiamo fare tante “cavolate” nella vita, ma è anche l’avvertimento che non è mai troppo tardi per rimediare. Possiamo anche finire con i porci, condurre una vita dissoluta, priva di qualunque valore, ma abbiamo sempre la possibilità di redimerci, recuperando la nostra vita e la nostra dignità.
È la storia dell'amore vero, che rimane: l’amore di quel padre di famiglia che ama al di là di tutto, al di là dell'evidenza, al di là del dolore, al di là del rifiuto ricevuto dal figlio.
È la storia del rifiuto “per amore”: il figlio che dice di no, che vuole slegarsi, che vuole andarsene, lo fa perché ama la vita, perché cerca nuove possibilità su cui costruire il suo domani: per vivere, infatti, tutti dobbiamo affrontare il nostro “viaggio” personale; per crescere, per maturare, per responsabilizzarci, dobbiamo affrancarci dal legame infantile che ci lega ai genitori, e prendere in mano razionalmente la nostra vita e il nostro domani.
È la storia di chi ha paura di crescere, di dover cambiare qualcosa nella vita: continua a starsene nel suo guscio protettivo, con le sue solite idee, con il suo solito mondo: e non si accorge di essere invece un “morto” in casa, corroso e paralizzato dalla paura di crescere.
È la storia di come non sia possibile alcun “ritorno”, se prima non “rientriamo in noi”: se non ci ascoltiamo, se non ci guardiamo dentro, se continuiamo a vivere proiettati soltanto all’esterno, all’effimero, facendo dipendere la nostra felicità esclusivamente dalle cose esteriori (i soldi, i divertimenti); oppure pensando che “gli altri”, e non noi, debbano darci il senso della vita.
Ecco, fratelli, queste sono tante altre possibili letture, altri spunti di approfondimento di questo vangelo.
Un vangelo, dicevo, che ripropone la nostra crescita umana e spirituale, mediante un progressivo cambiamento dei nostri rapporti con le persone, col mondo e con le cose.
Un brano, quello di oggi, che ci presenta in particolare tre personaggi, ciascuno dei quali deve fare i conti con le proprie problematiche relazionali: è pertanto il significato dei loro rapporti reciproci che va approfondito, preso in considerazione: primariamente quello dei figli col loro padre; un padre che è visto da entrambi soltanto dal punto di vista egoistico: è colui cioè “che dà”, che “deve dare”; il suo ruolo è soltanto quello di soddisfare le loro richieste; il figlio minore infatti gli dice “Dammi la mia parte di eredità”; il maggiore gli rinfaccia “Non mi hai mai dato un capretto per far festa con gli amici”. A nessuno dei due figli sta a cuore l’amore paterno; per loro vale soltanto l’utile, il proprio tornaconto.
C’è poi il rapporto tra i due fratelli: come si relazionano tra loro? Non si relazionano! C’è solo indifferenza: non si rivolgono la parola, non si dicono nulla, non s'incontrano mai! E perché? Semplice: perché volutamente non ne vogliono sapere; tra loro hanno costruito un muro di incomprensione, di egoismo, di invidia. Motivo scatenante di tale contrasto? Il comportamento del padre: sì, il loro conflitto poggia proprio sul comportamento paterno, ritenuto a torto o a ragione, discriminante, di parte. Il minore percepisce la maggior considerazione del padre per il primogenito, il prescelto, il primo in tutto; capisce di essere considerato solo come rincalzo e di non avere alcuna possibilità di competere alla pari con il fratello; quindi pianta ogni cosa e se ne va di casa. Vuole staccarsi dal padre; meglio, da quell’immagine di padre che egli si era auto costruito, un padre carente di imparzialità. Se continuava a stare in casa, non avrebbe mai potuto cambiare idea. Per farlo ha dovuto allontanarsi, intraprendere un lungo viaggio, visitare molti paesi, godersi la propria autonomia, la propria “libertà”; un cammino che finirà poi per portarlo “dentro di sé”: “Rientrò in se stesso”.
Anche il padre ha dovuto fare un suo viaggio personale: al ritorno del figlio minore lo troviamo infatti premuroso, fuori di casa, ad aspettarlo. Si è dovuto distaccare dall’idea classica di un padre, di un genitore, che ha, apertamente o implicitamente, delle pretese nei confronti del figlio: io ti do qualcosa (la vita, un nome, sicurezza, benessere) e tu mi devi qualcosa (seguirmi, rispettarmi, prenderti cura di me, farmi felice, non abbandonarmi, ecc).
Il terzo personaggio, il figlio maggiore, al contrario non ha fatto nessun viaggio: per lui suo padre rimarrà sempre quello che “deve dare”, e suo fratello continuerà ad essere quello “inferiore in tutto”, il depravato, il dissipatore, “con le prostitute”, del patrimonio familiare. Egli giudica suo fratello per rabbia: non sopporta che il “minore”, quello meno di lui, sia accolto in casa dal padre con la stessa dignità riservata a lui, che ha sempre rigato dritto; che questo sfaccendato sia trattato dal padre allo stesso modo con cui tratta lui, come se fosse suo pari; per questo egli distrugge la sua immagine, lo infanga, lo scredita. Non accetta di aver perso la sua superiorità assoluta.
Il suo problema sta proprio qui: nel fatto che è sempre rimasto in casa; non è mai uscito.
Quanti di noi, fratelli, continuano a passare la loro vita “in casa”, con le loro solite quattro idee, con i soliti pensieri, le solite persone, il solito modo di pensare, le solite cose da fare.
Non capiscono che uscire significa conoscere; vuol dire mettersi in discussione, scoprire cose incredibili, rendersi conto che il mondo e la vita sono infinitamente più grandi delle proprie piccole e sclerotizzate convinzioni. Ma uscire fa paura: è meglio rimanere in casa.
Il figlio minore, uscendo dalla propria immaturità, pur facendo delle scelte nefaste, ma pagando a caro prezzo le amare conseguenze, è comunque diventato un uomo, ha trovato la vita, ha fatto esperienza, si è messo in gioco in prima persona; il maggiore, al contrario, è rimasto un immaturo, un uomo morto, trincerato nei suoi vecchi schemi e pregiudizi; il vangelo non ci dice che fine farà, ma l’immagine che ne esce è quella di un uomo fallito. Se non si deciderà a “uscire” anche lui, a cambiare, continuerà per sempre a trascinarsi nella sua mediocrità.
Al loro “ritorno”, invece, sia il figlio minore che il padre, sono diversi. Il padre non è più quello “che dà”, e il figlio non è più quello “che prende”. Hanno fatto entrambi la loro strada, e le loro posizioni si sono invertite: il padre, che aveva dato, ora riceve; e il figlio che aveva preso, ora dà. Ma cosa dà questo “prodigo” a suo padre? La paternità: quell'uomo adesso sente che, per il figlio, lui non è più questione di soldi, di eredità, ma di amore, di affetto, di presenza. Tutto è stato superato, cambiato, maturato. Rimane un’unica nota stonata, in questo quadretto familiare: il figlio maggiore, che è ancora lì a discutere di capretti, di vitelli grassi, di soldi risparmiati e di soldi buttati: è il figlio che non ha ancora capito, che non è ancora passato, che non ha fatto nessun viaggio, che non ha ancora cambiato nulla.
Nella vita c’è un dato di fatto imprescindibile: i rapporti interpersonali sono destinati a cambiare; e se non cambiano, intristiscono, languiscono, muoiono. Ecco perché noi stessi dobbiamo cambiare, uscire, maturare continuamente, adattarci alle nuove situazioni: nei confronti dei figli, del nostro partner, dei fratelli, di quanti ci circondano. Dobbiamo trovare continuamente nuovi motivi, altre funzioni, nuovi equilibri: quelli di una volta, con il passare del tempo e dell’età, non vanno più bene. Dobbiamo rinnovarci. Dobbiamo abbandonare la nostra “immagine” per trovarne un'altra più vera, rivista e corretta; più coerente con i nostri sentimenti, con la nostra anima, col nostro cuore.
Ecco, fratelli: il Vangelo di oggi ci mette di fronte a questa tremenda alternativa: o uscire da noi stessi, che vuol dire rinascere, vivere, maturare, godere della pienezza dell’amore paterno, rischiando magari di cadere ma trovando la forza di rialzarci immediatamente; oppure rimanere immobili, morire, soffocati dalla paura e dall'indolenza, insoddisfatti della nostra vita e corrosi dall’invidia verso gli altri; sempre pronti a giudicare e a prendersela col mondo intero; oppressi dal rimorso e dall’amarezza di non aver saputo guardare oltre l’orizzonte del nostro io.
Dalla scelta che andremo a fare dipenderà ciò che ciascuno di noi sarà. Amen.
 

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