giovedì 20 giugno 2013

23 Giugno 2013 – XII Domenica del Tempo Ordinario

«Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Lc 9,18-24).
Luca oggi ci rivela un piccolo spaccato di quotidianità: gli apostoli stanno a scuola. Gesù è il maestro, è chiaro; ma altrettanto chiaro è che il suo scopo didattico non è tanto quello di fare dei seguaci, dei proseliti, dei fedeli ad ogni costo; di gente insomma che “pende” dalle sue labbra: Gesù vuole che le persone che lo seguono siano invece adulte, autonome; vuol fare degli apostoli altrettanti maestri come Lui. Per questo Egli li ha sottoposti ad un apprendistato di circa tre anni.
C'è un periodo nella nostra vita in cui dobbiamo imparare; un periodo in cui tutti dobbiamo crescere e “divenire”; ma questo periodo non può essere eterno, non può essere tutta la vita. È un periodo di maturazione necessaria, in cui dobbiamo “radicarci” in ciò che crediamo, in ciò che viviamo, in modo da poter rispondere personalmente delle nostre scelte, della nostra vita; in modo da decidere noi, autonomamente, come vivere; in modo da non delegare a nessuno le responsabilità del nostro cammino. Dobbiamo insomma imparare a vivere.
Il nostro più grande peccato? Quello al quale Dio ci metterà di fronte, quando ci dirà: “Sì, forse non avrai anche fatto niente di male, ma non hai vissuto. Non sei stato te stesso. Hai sempre seguito gli altri, hai fatto quello che facevano tutti; di tuo, di veramente personale, nella tua vita non c'è niente. L’hai interamente sprecata la tua vita!”. E ci accorgeremo allora di tutta la nostra nullità, di tutta la nostra codardia, del nostro “tiepidismo”, del non essere stati mai né caldi né freddi, della nostra paura di crescere, di diventare adulti, di vivere coraggiosamente e orgogliosamente la “nostra” vita cristiana. Ma allora sarà troppo tardi.
Ad un certo punto della “lezione”, dunque, Gesù inizia a chiedere: «Le folle, chi dicono che io sia?». E gli apostoli riportano alcune opinioni: “Giovanni Battista, Elia, un profeta”, cose molto belle!; ma altrove ci sono anche altri che dicono: “Un mangione, un beone, un amico dei pubblicani e dei peccatori (un uomo, cioè, di malaffare, pericoloso), un eretico, ecc.”.
Certo, sapere cosa dice il catechismo su Dio è sicuramente importante; è importante sapere cosa si crede in giro di Lui; è importante farci raccontare le altrui esperienze di Dio. Ma ciò che conta veramente non è questo. Decisiva è la Sua domanda: “Tu, cosa pensi di me? Chi sono io per te? Come sono presente nella tua vita? Quanto vibra il tuo cuore quando ci incrociamo? In pratica, quanto vivo Io in te e tu di me? Di quanto ho cambiato la tua vita, il tuo modo di pensare, di sentire, di amare, di dare priorità alle tue scelte?”. Ebbene: tutte le nostre risposte preconfezionate, le nostre “belle rispostine” già pronte e imparate a memoria, le frasi fatte, qui non c'entrano nulla. Nella nostra vita non possiamo rifarci sempre a qualcun altro, non possiamo nasconderci dietro agli altri, non possiamo giustificare il nostro immobilismo, chiamando in causa quello che dicono o fanno gli altri, il modo con cui essi vivono la loro fede. Ripeto, quello che conta è: “Noi cosa viviamo di Dio? Cosa conserviamo di Lui nella nostra anima? Siamo disposti a lasciarci coinvolgere da Lui?”. Non svicoliamo, amici miei; non cerchiamo sostituti o panacee: siamo noi che dobbiamo dare una risposta convinta; noi soli, nessun altro.
Dio ci ama anche se gli diciamo di “no”. Dio ci accoglie anche se gli diciamo: “Non mi interessi; non voglio avere a che fare con te”. L'importante è essere chiari e veri con noi stessi, l’importante è non mentirsi. Non diciamo “Io credo in Dio” per poi vivere in maniera opposta, falsificando platealmente il nostro "credo", relegando Dio nel ripostiglio più buio o in una soffitta abbandonata della nostra vita; non esibiamo sfacciatamente una fede che non abbiamo, nascondendo in questo modo il nostro tragico vuoto.
L'esperienza cristiana è un incontro tra noi e Lui. Leggiamo pure la vita dei santi, proponiamoli all’attenzione degli altri, andiamo pure a fare esperienze spirituali e religiose in giro per il mondo, facciamo pure pellegrinaggi, frequentiamo pure corsi di alta spiritualità carismatica, ma per cortesia non assolutizziamo, non idolatriamo queste nostre esperienze, non rendiamole la quintessenza della spiritualità, l’unica via larga verso la santità. Perché tutto questo, preso in sé, non significa nulla, non ha alcun valore: ciò che conta invece, è che queste esperienze ci diano la forza e la possibilità reale di incontrare Lui, personalmente; di sceglierlo, di fargli spazio in noi, di trasformarci radicalmente in Lui, per poter noi stessi diventare poi dei protagonisti, dei partners di Dio.
E Pietro qui risponde: «Tu sei il Cristo di Dio». Questa frase condensa tutto ciò che era il Cristo per gli apostoli. Tutto ciò che essi poi ci hanno trasmesso: Dio è Colui che ci accoglie in maniera incondizionata, che ci ama al di là di ogni nostro errore, di ogni pecca, dal quale potremo sempre ritornare con tutti i nostri fallimenti, le nostre pecche, i nostri pianti: e ciò senza gesti eclatanti da parte nostra: non dovremo rimeritarci l'amore; non dovremo fare qualcosa di eroico per dimostrargli che siamo ancora degni del suo amore. Dovremo semplicemente stendere le nostre braccia e, consapevoli e pentiti dei nostri limiti, farci abbracciare da Lui. Perché Lui ci ama nonostante tutto. Questa è l'esperienza centrale della nostra fede. È l'esperienza che possiamo vivere, osare, esporci, perché Lui per noi c'è sempre, e ci sarà sempre, in ogni caso.
I momenti delle difficoltà e delle prove sono inevitabili. Ci saranno addirittura giorni in cui non ci piacerà essere amici e discepoli di Gesù; ci saranno giorni in cui malediremo il momento in cui l'abbiamo incontrato; ci saranno giorni in cui sarà rischioso seguirlo, in cui ci verrà chiesto di osare, di buttarci, di smetterla con tutti i nostri calcoli, i nostri programmi logici per ogni cosa; ci saranno giorni in cui saremo chiamati ad esporci e a metterci in prima linea; ci saranno giorni in cui pagheremo il coraggio di seguirlo, di credere alla forza dei nostri sogni e del nostro cuore; ci saranno giorni in cui proprio i “genitori” dell'amore, della fede - gli “scribi”, i “sacerdoti”, cioè proprio quelli che dovrebbero capirci, aiutarci, che dovrebbero sostenerci - si rivolteranno contro di noi.
E che faremo in quei giorni? Solamente chi è radicato in profondità, solamente chi ha fatto un incontro trasformante e decisivo, solamente chi Lo sente vivo per davvero nella propria vita, nel proprio cuore, resisterà e avrà il coraggio di non tradire la propria fede, la propria coscienza, gli slanci del proprio cuore. Solamente chi avrà fatto un incontro sconvolgente con Lui, e quindi coinvolgente, rimarrà fedele a se stesso, alla propria anima e a Lui.
C'è un proverbio russo che dice: “Con la menzogna puoi girare tutto il mondo, ma non troverai mai la strada di casa”. Chi si piega alla paura del giudizio degli altri, chi ha bisogno di essere continuamente “approvato” e non accetta di essere “riprovato”, giudicato, considerato male, chi vive nella falsità, chi mostra al mondo una facciata diversa da quella che ha nell'intimo, è uno che si allontana sempre più da se stesso e da Dio.
Non abbiamo altra scelta, fratelli: dobbiamo vivere seguendo ciò che Dio ha posto nel nostro cuore; dobbiamo prendere le parti di ciò che è “vivo” in noi; dobbiamo trovare il coraggio della verità e dell'amore, scoprendolo nella forza del nostro cuore; dobbiamo soprattutto rinnegare tutte quelle maschere fasulle che ci costruiamo per paura, per pusillanimità.
Le persone in genere si augurano una vita piena di “serenità e salute”. È un modo per dire che desiderano essere felici. Ma non c'è nessun supermercato che vende la felicità; non c'è nessuna ricetta per essere veramente felici, per stare veramente bene: nessun libro, nessun santone, nessuna formula magica, nessuna risposta decisiva. Bisogna avere solo il coraggio e l’umiltà di vivere la propria vita in “sintonia” con Lui; questo è tutto. Perché la felicità, deriva soltanto dal vivere la nostra vita con la stessa intensità, con lo stesso amore, con la stessa dignità, con cui Lui ha vissuto e ci ha insegnato a vivere.
Le persone dicono: “Io mi amo”. Ma “amarsi” non è cosa da poco: è un’impresa ardua, difficile. È difficile rinnegarsi, dirsi di “no”: perché “amarsi” è proprio questo, rinnegare se stessi, cioè spogliarci di tutte quelle false maschere che ci impediscono di vedere come e chi siamo realmente, che ci impediscono di prendere la nostra croce, di seguire la nostra strada, la nostra vita. È difficile dire “no” alla maschera del sorriso a tutti i costi; del sembrare sempre generosi e buoni con tutti. È difficile dirsi di “no” e abbandonare certi atteggiamenti di superiorità. È difficile dirsi di “no” e non reagire quando gli altri ci fanno del male: non possiamo far sempre finta di niente e “passare” sopra a tutto. È difficile dirsi di “no” e smettere di chiamare amore ciò che non è amore, ciò che è solo sfruttamento, servilismo, dipendenza, morbosità. È difficile dire di “no” alla superficialità e fingere di essere sempre felici e che tutto ci va bene. È difficile dire di “no” a certe abitudini di vita, anche se sappiamo benissimo che ci fanno male, ci distruggono, ci alienano, ci allontanano dalle persone, ci rendono insensibili. È difficile dire di “no” al nostro sentirci vittime a tutti i costi: ci piace tanto adagiarci nel compatimento, nella tristezza, aggrapparci all'illusione che sono gli altri i responsabili della nostra vita, della nostra felicità o infelicità; perché in questo modo manteniamo le cose così come sono, evitiamo la fatica di crescere e di diventare adulti. No, fratelli: smettiamola di buttare sugli altri ciò che è soltanto “nostro”; smettiamola di fare come i bambini che accusano sempre gli altri. Basta. Guardiamo una buona volta dentro di noi. Iniziamo ad accoglierci, ad amarci, non perché siamo più degli altri, ma perché siamo semplicemente “noi”. Certo, è difficile dirsi di “no”: nessuno ha mai detto che “amarsi” sia facile. Ma ci renderemo conto che ogni “no”, prelude sempre ad un “sì”. Ogni “no” a ciò che ci fa male, è sempre un “sì” a ciò che ci fa bene. Nostra madre ha dimostrato di amarci molto dicendoci “sì”; ma ha dimostrato di amarci molto di più dicendoci “no”. Così dobbiamo fare noi con noi stessi. Se ci vogliamo bene dobbiamo dire “no” a tutto ciò che ci fa male, a tutto ciò che ci allontana da noi stessi e da Lui.
Dobbiamo imparare da Gesù il coraggio di vivere la “nostra” vita, quell'unica vita che Dio ci ha destinato. Dobbiamo seguire l’esempio che Lui ci ha dato, affrontando quel viaggio che ci porta a conoscere il nostro cuore, noi stessi, la nostra missione e il Dio che abita in noi.
Caricarsi della propria croce, non è farsi del male, non vuol dire imporsi sofferenze o punizioni; è invece accogliere la propria vita in tutte le sue dimensioni, in tutta la sua radicalità, in tutta la sua compresenza di luci e ombre, in tutti i suoi richiami, in tutte le sue contraddizioni.
Prendere la propria croce è accettare la dura croce della realtà della propria vita. E chi non è disposto a fare questo, chi tenta di salvarsi per altre strade, irrimediabilmente si perde. Chi vuol risparmiarsi, chi non vuole mettersi in gioco, chi vuole mantenere tutti gli equilibri esistenti, conservare tutto, perderà la propria vita: è ovvio, è inevitabile. È così! Chi vuol salvarsi dal crescere, dall'evolvere, muore.
È proprio vero: di quante cose dobbiamo liberarci, se vogliamo raggiungere la salvezza!
Nella prima parte della vita crediamo che “salvarsi” sia “ottenere”. Allora rincorriamo la posizione sociale; accumuliamo soldi, denaro, posizioni, onorabilità; cerchiamo di avere cose, case e quant'altro. Cerchiamo di salire nella scala sociale dell'apprezzamento altrui. Ottenere, avere, raggiungere, arrivare, rappresentano la nostra unica salvezza.
Ma nella seconda parte impariamo (meglio: dovremmo imparare!) che tutto questo non ci fa felici e che la salvezza è proprio il contrario: non “ottenere” ma “perdere”. Dobbiamo perdere tutte le maschere e le facciate che ci siamo costruiti; dobbiamo perdere le tante illusioni in cui ci siamo cullati; dobbiamo perdere i tanti rivestimenti, le tante incrostazioni, per ritornare alla “nudità” originale, all'essenziale della vita; dobbiamo spogliarci di tutto per ritrovare noi stessi.
E allora finalmente capiremo che la vita più che un processo di acquisizione, di conquista, è in definitiva un grande processo di rinuncia e di perdita. La piena felicità della nostra vita poggia infatti sulla paradossale verità che per “trovare” bisogna “perdere”. Amen.
 

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