mercoledì 26 giugno 2013

30 Giugno 2013 – XIII Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo…» (Lc 9,51-62).
L’azione didattica di Gesù nei confronti delle numerose persone che lo seguono continua anche durante il viaggio che dalla Galilea lo porta a Gerusalemme, dove è diretto per celebrare con i suoi la festa di Pasqua. Si muovono in gruppo e si sa, quando ci si sposta in molti, è indispensabile un minimo di organizzazione. Così Gesù manda avanti alcuni discepoli per predisporre dove pernottare e ristorarsi. Succede però che una città della Samaria, regione attraverso cui deve necessariamente passare, si rifiuta di accoglierlo e di dargli ospitalità.
È un imprevisto sgradevole per chiunque l’essere rifiutati: Gesù non si aspettava un trattamento di questo genere, anche se per lui il “rifiuto” non costituiva una novità: già fin dalla nascita, nei suoi primi giorni di vita, egli viene rifiutato dai “potenti” del luogo; viene poi praticamente rifiutato e perseguitato durante tutta la sua missione terrena; scribi e farisei lo contrastano continuamente, cercando in tutti i modi un pretesto per catturarlo, condannarlo, ucciderlo; infine è rifiutato dal suo stesso popolo, che al momento finale del processo-farsa cui viene sottoposto, gli preferisce un delinquente, decretando per lui una morte straziante di croce.
Se guardiamo insomma Gesù sotto questo profilo, l’impressione che ne possiamo trarre è quella di trovarci di fronte ad uno che ha fallito completamente la sua missione: ha fallito con quelli di casa sua perché non gli hanno creduto (dicevano che era un pazzo); ha fallito con i capi del popolo, religiosi e politici (dicevano che era figlio del diavolo, di Beelzebul); ha fallito con la gente che non ha accettato il suo regno (e lo ha lasciato solo come un cane nel pericolo); ha fallito con i suoi stessi amici (gli apostoli) che se la son data a gambe proprio quando era ora di difenderlo e di sostenerlo; ha fallito anche con suo Padre che non è intervenuto a salvarlo, né ha mosso un dito per evitargli una morte atroce.
Del resto la società consumistica in cui viviamo, con la sua pubblicità martellante, ci ha ormai abituato a guardare all'uomo solo come ad un “vincente”, ad ammirare solo colui che “riesce” in tutto; nella vita di oggi, infatti, l’unica parola che conta è “riuscire”, “sfondare”. Bisogna “arrivare” a tutti i costi. La felicità sta nel sentirsi “realizzati”: avere una bella famiglia, dei figli di successo, vivere nel benessere, una situazione economica florida, essere al top della scala sociale. Ma sono illusioni che hanno vita breve. Ben presto la vita ci insegna che la realtà non è questa: le famiglie falliscono, i figli si ribellano, le economie, anche le più floride, vanno in malora; le persone finiscono per “scoppiare”, “danno di matto”; quelli che erano gli ideali sublimi e le mete ambiziose da raggiungere, si rivelano un groviglio di falsità e di imbrogli. La felicità, una amara chimera. È il fallimento dell’uomo di oggi, il fallimento di una società che si ostina a rifiutare Dio. Un fenomeno, il fallimento che, anche se per motivi completamente diversi, anche Gesù ha provato: anche Lui ha fallito; anche Lui è stato e continua ad essere rifiutato dalla società; anche lui ha dovuto in qualche modo ridimensionare, cambiare i suoi programmi: questo suo “fallimento” lo ha messo infatti di fronte ad una dura realtà: non basta la chiarezza della Sua verità, né la profondità del suo animo; non basta la bontà delle sue idee, né l’amore che lo spinge, per convertire e salvare il cuore degli uomini. Ci vuole anche la loro volontà. Se uno non vuol convertirsi, purtroppo, non si converte, nonostante tutto. È per questo Gesù si sente “impotente”: Egli sente cioè che tutto il suo amore, tutto quello che ha sofferto, tutto quello che ha fatto e continua a fare per la salvezza dell’umanità, non basta. Non basta il suo messaggio, il suo annuncio, il suo Vangelo; non basta la sua Chiesa: gli uomini continuano e continueranno a non accoglierlo, a rifiutarlo: il suo amore continuerà ad essere calpestato, rifiutato, volutamente ignorato. È questo il “fallimento” del suo amore.
Quanti fallimenti nell’amore! Eppure continuiamo a fallire, anche se ogni fallimento ci offre una forte lezione di vita, che dovrebbe aprirci gli occhi. Solo se faremo tesoro di tali esperienze e impareremo a non ripetere continuamente i nostri errori, solo allora cresceremo. Altrimenti nuovi fallimenti si aggiungeranno ai precedenti. È solo questione di tempo. Dobbiamo fare tesoro delle esperienze vissute, fratelli; non trasformiamo mai il niente in tutto, perché questo tutto si dimostrerà ben presto niente. Attacchiamoci a Dio: guardiamo a Lui: Egli non vuole che noi falliamo nel nostro cammino di sequela; non vuole degli sconfitti. Dio vuole solo che noi ne usciamo vincitori. Nulla ci deve abbattere: anzi, dobbiamo mettere in conto qualche fallimento; fanno parte della vita; e ci deve consolare il pensiero che anche Gesù ha dovuto confrontarsi con questa realtà. Ogni volta che falliamo, stendiamo le mani e diciamo umilmente: “È così!”. Cioè, accettiamolo questo fallimento, accogliamolo come segno della nostra debolezza, non nascondiamocelo. Cerchiamo di non vergognarci, non è una condanna a morte. Essere dei perdenti, non riuscire, fallire, non è mai stato piacevole per nessuno, in nessun campo; è anzi molto doloroso, perché si tratta di perdere quella bella immagine patinata, di facciata, che con tanta cura ci eravamo costruiti per l’ammirazione degli altri. Se ci capita di fallire, dobbiamo imparare la lezione; solo in questo modo il fallimento diventa un fattore evolutivo e creativo; e ripartendo dal basso, possiamo rinascere; soprattutto se ci rimettiamo a Lui, al Suo Abbraccio: perché Lui è sempre pronto ad accoglierci!
Il vangelo prosegue poi definendo alcune condizioni per seguire Gesù. Gesù non chiede a quanti lo vogliono seguire, di fare i voti di povertà, castità, obbedienza: chiede solo la nostra “libertà” d’animo, un affrancamento interiore. Nei tempi passati si diceva che le parole di questo Vangelo riguardavano solo i preti e le suore. Invece sono insegnamenti che riguardano tutti: seguire Gesù, andare dietro a Lui, vuol dire seguire la voce più profonda, la nostra personale “vocazione”, ascoltando non le voci e i desideri di superficie, ma i bisogni profondi della nostra anima. E non possiamo fare questo, se non siamo interiormente liberi di muoverci.
«Ti seguirò ovunque tu vada», gli dice un uomo. L'uomo è molto motivato e ben disposto. Ma Gesù smaschera subito i facili entusiasmi e la superficialità: «Le volpi hanno le loro tane, ma io no». La tana è il rifugio, la sicurezza, la certezza che lì si è al sicuro e protetti. Gesù non garantisce questo; Gesù garantisce la vita non la protezione, la copertura totale; garantisce la felicità, non la tranquillità. Gesù non si fa abbagliare dalla nostra subitanea disponibilità. “Non solo se lo vuoi (è la prima condizione), ma se lo puoi”; in altre parole, “non solo se ti piace, se sei innamorato della proposta, ma anche se ne sei convinto interiormente, se ne hai la libertà interiore, allora seguimi”. “Io vorrei seguire il Signore... ma se poi qualcuno trova da ridire? E se poi entro in conflitto con le persone? E poi… vorrei essere certo di non sbagliare strada, di fare la scelta giusta per me. E se mi inganno? Se non ce la faccio? Se rimango solo?”. La risposta di Gesù brucia ogni velleità di certezze inconsistenti e infondate: “Chi ha il nido vi ritorna; e chi ha la tana vi si rifugia lì”. Per seguire il Signore invece bisogna mettere tutto in discussione; tutto deve essere vagliato. Nulla può essere dato per certo, anche ciò che prima ci sembrava assoluto. Per Lui deve essere messo in gioco tutto. Vivere così è vivere senza certezze interiori, riferimenti assoluti, senza “case, nidi o tane”.
Gesù lungo il viaggio si rivolge poi ad un altro e gli dice: «Seguimi», ma riceve un altro fallimento, un altro rifiuto, come già con il giovane ricco. “Aspetta un attimo!”. L'uomo non dice di no, ma rimanda, posticipa: “Guarda Gesù, vengo sicuramente, ma prima devo sistemare alcune cosucce; prima devo laurearmi, devo sposarmi, devo sistemarmi e poi verrò; quando sarò diverso, quando avrò più possibilità, più tempo; quando saranno cambiate un po' le cose, quando avrò risolto i miei problemi e superate le mie paure, allora ti seguirò”.
La risposta di Gesù è tremenda: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti». Cioè: “Tu sta con la Vita, non con la morte. Stai dove c'è la Vita e vivrai; se stai dove c'è la Morte, morirai. Lascia quindi che quelli che sono morti dentro, spiritualmente, stiano e trattino con le cose morte, con le persone e le esperienze di morte; tu va' per la tua strada. Vivi e sta dove c'è la Vita, dove si sente l'amore, il pulsare e la vibrazione dell'esistenza”.
Un altro ancora dice a Gesù: “Ti seguo ma lascia che prima mi congedi da casa mia”. Egli vorrebbe l'approvazione e l'accettazione dei suoi familiari. Ma non si può vivere dipendendo dal giudizio degli altri; non si può permettere agli altri di determinare la nostra vita. Se non ci sottraiamo alle aspettative dei familiari, non solo non possiamo seguire il Signore, ma non possiamo vivere, non possiamo diventare noi stessi, non possiamo scoprire chi siamo realmente.
La frase: «Nessuno che si mette all'aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio» ci illumina su un’altra questione del nostro vivere. L'aratura in Palestina è un lavoro duro e anche un po' pericoloso. Se guardiamo a destra o a sinistra, o peggio ancora se guardiamo indietro, rischiamo non solo di non andare dritti ma di farci male. Quindi bisogna guardare avanti e non guardare mai indietro. Questo lo portiamo scolpito nel nostro corpo: i nostri occhi sono posizionati sul viso in modo da guardare sempre avanti, non per guardare indietro (altrimenti li avremo anche nella nuca).
Il passato blocca. Quante volte ci diciamo: “Se non avessi fatto quella cosa... se avessi agito diversamente... se potessi tornare indietro... se lo avessi saputo!”, e continuiamo a pensare e a rammaricarci su quanto abbiamo fatto. Ma il passato è passato. Non giriamoci continuamente indietro; andiamo avanti e basta!
Nella Bibbia c'è un bellissimo episodio (Gn 19,1-29): quando vennero distrutte Sodoma e Gomorra fu detto a Lot di non voltarsi indietro e di non guardare. Sua moglie, invece, scampata dalla distruzione, si voltò a vedere cos'era successo, e divenne una statua di sale. Gli occhi possono guardare in avanti o indietro ma non nello stesso momento. Se ci soffermiamo a guardare indietro, a quello che poteva essere e non è stato, alle scelte che avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, non andiamo più avanti, diventiamo statici, immobili, morti; come una statua di sale. Qualunque cosa ci succeda nella vita, dobbiamo avere sempre fiducia; non giriamoci mai indietro. Ciò che è stato, fa parte del nostro bagaglio di vita, lo porteremo sempre con noi sulle nostre spalle; davanti a noi ora si apre un nuovo tratto di strada da percorrere, libero; dobbiamo proseguire, andare e guardare avanti, sempre: perché Lui è lì che ci aspetta: di fronte, non alle nostre spalle. Amen.
 

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