mercoledì 10 luglio 2013

14 Luglio 2013 – XV Domenica del Tempo Ordinario

«Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» (Lc 10,25-37).
È la domanda classica del cristiano quella che il dottore della legge rivolge a Gesù. Una domanda che tutti, prima o poi ci poniamo: ma è anche una domanda tendenziosa, provocatoria: “Che cosa devo fare per andare in Paradiso? Come devo comportarmi per essere un buon cristiano? Io so già cosa mi dicono le regole, ma tu, Gesù, tu cosa mi dici?”. È chiaro che si tratta di una domanda comunque inutile, perché tutti sappiamo perfettamente come dobbiamo comportarci, cosa dobbiamo fare, cosa evitare.
Certo, in questi ultimi anni le cose sono molto cambiate: da un comportamento cristiano rigido e severo, regolamentato da norme e prescrizioni, si è arrivati ad un lassismo preoccupante: tutto è permesso, tutto lecito; è l’individuo stesso che determina la moralità dei suoi atti. Tanto, ci troviamo di fronte ad un Dio “super” misericordioso: la sua bontà infinita, il suo amore smisurato, la sua compassione senza limiti, hanno avuto decisamente la meglio sulla sua severità di giusto giudice. Entrambe le posizioni sono ovviamente sproporzionate. La virtù come al solito sta nel mezzo. Ed è questo che Gesù intende dirci tra le righe.
Non so se ricorderete, ma una volta le persone arrivavano addirittura a trasferire su Dio lo stesso ruolo inquisitore e vessatorio, tipico di gran parte dei “genitori” e dei preti vecchio stampo: si era in regola, si andava bene solo se il “Grande Genitore” (Dio) era contento di noi. Per questo abbiamo obbedito, ci siamo piegati a regole che oggi definiremmo assurde, abbiamo (forse?) svenduto la nostra “gioia” di vivere spensieratamente, pur di “essere in regola” con Dio. Insomma i tempi avevano contribuito a trasformare Dio in un “Grande Fratello”, la trasmissione voyeuristica che tutti abbiamo criticato: quel Dio (che decisamente non è il Dio del vangelo) era un po’ “guardone”, uno che spiava sempre tutti, vedeva e sentiva ogni cosa; sapeva quindi perfettamente quando uno sbagliava, perché tutto era registrato chiaramente sul suo “monitor”. Una visione angosciosa che terrorizzava la gente di allora: aveva paura di sbagliare, di non essere in regola, di far peccato, di essere esclusa, di non essere ammessa in paradiso, insomma di non andare bene, di essere sbagliata. Lo scopo primo della vita non era pertanto quello di “vivere”, non era amare, non era entrare nelle relazioni interpersonali con la forza piena dei sentimenti, con tutta l'intensità possibile dell’amore, con tutte le vibrazioni possibili del cuore. No, lo scopo primario della vita era “la regola”. Per questo nessuno cercava veramente Dio, nessuno cercava di vivere serenamente la “propria” vita. Ciò che contava era vivere “in regola”, da “bravi cristiani”. Pensare diversamente, scostarsi appena dalle “regole”, significava essere decisamente dei cattivi cristiani.
Bene: colui che si rivolge tendenziosamente a Gesù è intriso di questa mentalità, è un “esperto in regole”: «Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Ma Gesù, sapientemente, elude il tranello, e gli rivolge una contro domanda (nasce quasi una sfida tra i due!). «Che cosa sta scritto nella Legge?». Come a dire: “Ma come? Proprio tu che sei un esperto della legge chiedi a me una cosa del genere? Dovrei essere io a chiederlo a te!”. E in questo modo Gesù lo smaschera: “Visto che tu conosci perfettamente le leggi fondamentali dell’amore verso Dio e il prossimo, osservale e basta!”. Ma il dottore della legge non demorde: dopo la brutta figura, cerca di “rimettersi in piedi”. E gli fa un'altra domanda: «Chi è il mio prossimo?». È chiaro che questo tizio non arriverà mai a capire la nuova mentalità di Gesù: viaggia su un livello diverso, è sintonizzato su una stazione diversa. È limitato, impastoiato nelle sue prescrizioni. Con Gesù non ci sono limiti all’amore: non esiste più il “fino a dove”, il “fino a quando”. Se uno ha un cuore, deve seguirlo pienamente. Chi ama non fa distinzioni su chi ha davanti: chi ama segue solo il proprio cuore. Chi pone delle differenze, dei distinguo - “tu sì” e “tu no” - è ancora “fuori”, è condizionato dall'esterno, da regole esteriori, umane, spesso di convenienza.
Il dottore della legge non può capire. Perciò Gesù gli propone la parabola: «un uomo scende da Gerusalemme a Gerico...». Gerusalemme distava ventisette chilometri da Gerico, con un dislivello di mille metri. Era una strada conosciuta soprattutto per la sua pericolosità, piena di agguati, rapine e imboscate. Beh, a tutti nella vita capiterà, prima o poi, qualche imboscata. Tutti avremo a che fare con dei predoni e dei briganti: qualcuno ci bastonerà, qualcuno ci spoglierà, qualcuno ci lascerà mezzi morti. Ora, il punto non sta tanto sul “come evitare i briganti”, visto che l'unica soluzione è quella di starsene sempre rintanati “in casa”, chiusi nel nostro io, rinunciando a vivere; il punto sta piuttosto su come programmare la nostra vita: cioè se “vivere o non vivere”; se rimanere a “Gerusalemme” (all’ombra delle sacrestie, delle parrocchie) o provare ad uscire, andare incontro agli altri, a quelli che sono più bisognosi, più feriti, più bastonati di noi.
D’altronde Gesù nella parabola è chiaro: se qualcuno non interviene immediatamente, quell'uomo muore. E chi l'ha ucciso? I briganti? Solo loro? O non l'hanno ucciso anche coloro che, potendo fare qualcosa, non l'hanno fatto? Eppure quante persone si giustificano con la famosa frase: “Io non ho fatto nulla di male!”. Già, ma in certe situazioni, non fare nulla, non intervenire, vuol dire condannare.
Nel racconto di Gesù emergono dunque tre personaggi diversi, ognuno soffocato dal proprio ruolo specifico; compaiono tutti “per caso”, come del resto tutto (o forse niente?) avviene per caso nella vita: si tratta prima di tutto di un sacerdote, un addetto al culto e quindi di uno che viveva ad un livello superiore, un livello cui non competeva “istituzionalmente” il doversi preoccupare di un “ferito”, di un “moribondo”. Poi un levita, un sacrista diremmo oggi, anche lui un uomo di chiesa: e anche lui convinto di essere al di sopra, estraneo alla situazione. È sintomatico: quando non vogliamo fare qualcosa, tutti abbiamo sempre una scusa pronta: il problema di questi due “ecclesiastici” è che sono così presi dal loro “status”, da non accorgersi che la loro anima, il loro cuore, ne sono rimasti soffocati: “Sei un sacerdote, non spetta a te fare queste cose!”, il ruolo dice al primo. “Sei un levita, uno che è vicino alle cose di Dio; devi comportarti in maniera adeguata”, dice al secondo.
C’è anche un terzo personaggio, più defilato, ma non per questo meno arroccato nel proprio ruolo: l'albergatore:. Quando il samaritano gli consegna il pover’uomo, mezzo morto, si guarda bene dal dirgli: “Ma sì, non ti preoccupare per i soldi! In una situazione del genere non se ne parla neppure: vai tranquillo, tu hai fatto già fin troppo; ora mi prendo io cura di quest'uomo e non voglio assolutamente nient’altro da te”. Nossignori, quando arriva, lui se ne sta zitto e incassa tutto: incassa i due denari e, fiutato l'affare, gliene chiederà di sicuro anche altri. Anche lui è vittima del suo ruolo distruttivo: “Io non guardo nessuno in faccia, mi faccio gli affari miei”. Il suo ruolo gli impedisce di provare amore, compassione, di sentire la vita.
È così, dunque: anche nella nostra esistenza il ruolo può uccidere il nostro cuore, può distruggere la nostra anima, la nostra vita. Quando noi ci identifichiamo in un unico ruolo, costringiamo la nostra sensibilità su di un solo canale. È come mangiare solo dolci tutto il giorno. Sì, buoni, ma a lungo andare ci producono repulsione. Se non stiamo attenti il ruolo ci distacca da noi stessi, dal nostro sentire, da ciò che abbiamo dentro; per cui di fronte ad una situazione improvvisa, completamente diversa, non ascoltiamo il nostro cuore, ormai atrofizzato, e diamo sempre la stessa risposta, preconfezionata, già fatta, già stabilita dal nostro “ruolo”. Non siamo più noi che sentiamo e che agiamo, ma è lui, il nostro ruolo, che agisce autonomamente e automaticamente.
Ebbene, in questa parabola – ed è il più importante - c'è anche un uomo libero, un uomo non imprigionato dal suo ruolo: il samaritano. È lui che ci viene proposto come esempio da seguire. Il samaritano non ha maschere o ruoli da difendere: in lui, nel suo cuore, la vita circola libera e vibrante. Sono in tre che  passano per la stessa strada (sacerdote, levita e samaritano); tutti e tre vedono l'uomo. Ma solo del samaritano il testo dice qualcosa che non dice degli altri due: che ne “ebbe compassione”. Tutto ciò che fa dopo, è solo la conseguenza di questo suo sentimento.
Compassione: in greco, con la stessa radice, si indica “l'utero materno”: è quell'emozione che tocca, che colpisce, che fa male, che fa vibrare: è l’amore di una madre per il proprio figlio. Come poteva allora il samaritano tirare dritto? Come poteva far finta di niente? Il sacerdote e il levita si sono appellati alle loro regole: la “regola” giustificava il loro comportamento. Sì, ma il loro cuore? La verità è che “non lo sentivano” più. Non “sentire” il cuore, significa essere “insensibili” all’amore, a tutto ciò che riguarda i nostri fratelli, il nostro prossimo. Quando le persone dicono: “Io sono sensibile”, bisognerebbe chiedere loro: “Sensibili come? a che cosa?”. Perché sentire suonare una cassa di 500 watt di potenza, non è “essere sensibili”; significa non essere sordi del tutto. Come la mettiamo sotto i 10 watt? Davanti a noi ci sono due tipi di morte: quella del fisico e quella dell'anima. Con quella del fisico moriamo dentro e fuori. Con quella dell'anima viviamo al di fuori, ma siamo morti dentro. Facciamo in modo allora di “sentire” sempre; di essere sensibili in ogni caso, per non correre il rischio di essere morti, prima ancora che arrivi la nostra morte fisica. Amen.
 

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