giovedì 12 settembre 2013

15 Settembre 2013 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario

«Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze…»
(Lc 15,1-32).
Questo brano del vangelo ha molte chiavi di lettura: è la storia di Dio Padre che aspetta il ritorno a casa di ogni figlio smarrito, e lo accoglie sempre a braccia aperte. È la storia di quei giovani in procinto di affacciarsi nel mondo: per poter trovare se stessi, la propria vita, la propria collocazione nella società, devono prima “uscire” da una mentalità ristretta, chiusa, infantile. È la storia di ogni uomo, di tutti noi, che a volte possediamo le cose ma non ce ne rendiamo conto; da qui la necessità di capire, di apprezzare e riconoscere quello che già possediamo: ci sono differenze infatti che non potremo mai cogliere stando rintanati in noi stessi, ma solo “uscendo” da noi, vivendo, magari sbagliando, ma provando e riprovando. È la storia di come possiamo fare tante “cavolate” nella vita; ma anche di come non sia mai troppo tardi per rimediarvi: possiamo finire con i porci, condurre una vita depravata, razzolare tra i rifiuti, ma abbiamo sempre la possibilità di redimerci, di recuperare la nostra vita e soprattutto riacquistare la nostra dignità. È la storia dell'amore che rimane, che vince su tutto: è la storia di quel padre che, al di là dell'evidenza, al di là del dolore, al di là del rifiuto ricevuto dal figlio, al di là di tutto, continua a rimanere un padre affettuoso, un padre innamorato del figlio. È la storia di chi ha paura di crescere, di cambiare: di chi se ne sta chiuso in se stesso, con le sue solite idee, con il suo solito lavoro, nel suo solito mondo, e muore: muore perché la sua non è vita, vivere non è questo: non è vita quella del figlio maggiore che dichiara un depravato, un morto, suo fratello, e non si accorge che sta parlando di sé; è lui che è un morto in casa, è lui che è corroso e paralizzato dalla paura; e cosa fa? Giudica! Giudica il fratello perché non riesce a vivere come lui, e ciò lo infastidisce profondamente. Il giudizio è sempre la voce della morte: attacchiamo l’altro, perché noi non siamo in grado di imitarlo e vivere la vita come fa lui.
Ecco, queste sono alcune possibili chiavi di lettura di questo vangelo. Più in generale esso ci propone la storia dell’uomo, l’evolversi della vita: ci descrive, ci mostra con mano, come le nostre relazioni interpersonali, durante l’esistenza, siano destinate a cambiare.
Guardiamo meglio cosa succede. C'è un padre con due figli, e quindi, essendo in tre, ci vengono descritte tre relazioni: quella tra il padre e il figlio minore; quella tra il padre e il maggiore, e infine quella tra i due fratelli, il minore e il maggiore.
Per entrambi i figli il padre è colui “che dà”. Il figlio minore gli dice infatti: «Dammi la parte di eredità che mi spetta». Quel “dammi” rivela chiaramente come lui consideri suo padre: suo padre è colui che gli deve “dare”. Anche il figlio maggiore la vede in questo modo, e gli rimprovera: «Tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con gli amici».
Tutti i figli, in fondo, vedono il padre e la madre in questo modo: come coloro cioè che devono “dare” sempre: il cibo, i vestiti, la casa, i soldi per i libri, per mangiare la pizza con gli amici, per uscire e divertirsi. Del resto, guai se non facessero così: guai se i genitori non assicurassero ai loro figli sostentamento e nutrimento: è la loro stessa funzione naturale quella di “dare”, fin dai primi anni di vita: sono lì esattamente per quello.
E la relazione tra i due fratelli? Non si rivolgono mai la parola. Non si diranno mai niente: i due fratelli non s'incontreranno mai! Perché? Semplice: non “vogliono” incontrarsi; entrambi sono in conflitto per il padre, un conflitto che però li divide: vince il maggiore (il prescelto), perde il minore che se ne deve andare.
Si capisce allora perché egli si rivolga al padre in maniera così dura e perentoria: “Dammi la parte del patrimonio che mi spetta”. Non a caso si rivolge così; non perché abbia un caratteraccio, non perché sia un depravato. Si rivolge così perché il padre ha scelto il maggiore (com'era normale e ovvio a quel tempo e, per certi aspetti, in ogni tempo) e lui si sente rifiutato. Non è il preferito; il padre ha scelto l'altro: e non essere scelti, non essere i primi, fa sempre molto male!
Tra i due fratelli c'è relazione, ma è una relazione di odio, di competizione, di conflitto. Non si dicono niente ma si odiano “a sangue”: e risulta particolarmente evidente quando il maggiore, rivolgendosi al padre, allude al fratello chiamandolo “questo tuo figlio”: non lo vuol riconoscere come fratello, per lui è soltanto un estraneo, uno che ha divorato i “tuoi averi con le prostitute”, uno che merita solo odio e disprezzo. Egli si sente più forte: è l'erede legittimo, e si sente quindi personalmente “defraudato”.
Il minore invece, geloso del legame speciale esistente tra il fratello e suo padre, si sente in netto svantaggio, e non può fare altro che andarsene. Anche se la differenza che lamenta in fondo rientra nella normalità. Da che mondo è mondo, infatti, i genitori non hanno mai trattato due fratelli esattamente allo stesso modo; mai, in nessuna epoca, i figli hanno avuto da loro un trattamento assolutamente paritario. Quando diciamo che i figli sono per noi tutti uguali, ci illudiamo, facciamo solo della teoria. Non è così. Pensiamoci un attimo: il primogenito, essendo il primo figlio, quello “atteso”, quello “desiderato”, quello “cercato” e “voluto”, ha dai genitori un amore e una sollecitudine del tutto particolare. Li ha tutti per lui. Il secondo non sarà mai come il “primo”, perché non sarà più una novità, non procurerà più lo stesso impatto emotivo, non richiederà lo stesso investimento di energie, né la stessa pianificazione del primo. Il primo, poi, rispetto al secondo, è sempre “più avanti” nella scala delle attese dei genitori: arriva prima a correre, a scrivere, a leggere, a fare le cose; gode di maggior fiducia da parte della mamma, che lo ritiene più bravo e responsabile, e gli da qualche piccolo incarico, a volte anche di badare al fratello minore.
È ovvio quindi che, agli occhi di quest’ultimo, sia lui il più bravo, lui il più affidabile, e quindi anche, sia lui il preferito; è tutto ovvio e naturale. Ma vedere uno che è sempre e comunque “più” di noi, essere costretti a dover lottare continuamente per dimostrare che noi valiamo di più, sappiamo “di più”, possiamo fare “di più”, beh, a lungo andare, distrugge anche i più forti.
Ebbene: quello che il vangelo riporta è nient'altro che questo: il maggiore sa di essere il primo, e il minore sa di essere il secondo.
Questa perlomeno era la situazione iniziale, ma poi c'è stato un distacco, una lontananza. C’è stato un viaggio salutare, che ha ridimensionato le cose: il minore si è staccato dal padre, cioè dall’immagine di colui che deve solo “cedere” il suo patrimonio, ed ha intrapreso quel lungo viaggio che l’avrebbe riportato dentro di sé, sui suoi passi, sulle sue valutazioni (rientrò in se stesso). Anche il padre ha dovuto fare un viaggio analogo, anche lui ha dovuto superare una immagine distorta, rancorosa: quella di avere un figlio ingrato, ribelle, egoista, che dopo aver ricevuto i soldi, invece di ringraziare, di dimostrargli riconoscenza e amore, fa perdere le sue tracce; è cambiato al punto che lo troviamo in ansia, fuori di casa, mentre attende angosciato il suo ritorno.
L’unico che non ha fatto nessun viaggio è il figlio maggiore. Per lui suo padre è rimasto “quello che dà”, e suo fratello continua ad essere per lui “quello inferiore”, il depravato, il “porco”, quello che ha dissipato tutto con le prostitute. Egli è spinto da invidia e da livore: non tollera che suo fratello, il “minore”, quello che è sempre stato meno di lui, sia accolto in casa dal padre con una dignità e con onori tali che neppure a lui, il fedele, gli erano mai stati riconosciuti: per questo reagisce distruggendo il fratello, distruggendo la sua immagine, infangandola, screditandola. Questo palese affronto alla sua superiorità, al suo primato indiscusso, scatena in lui collera, rabbia, rancore. Il suo vero problema è appunto non essersi mai mosso da casa; non essere uscito da se stesso, non aver fatto alcun “viaggio” purificatore. Quante persone, rimaste sempre ferme, tappate “in casa”, rivelano per questo tutti i loro limiti, la loro chiusura mentale, le loro solite quattro idee, il solito modo di pensare, le stesse cose e le stesse tradizioni di sempre. Per conoscere, per imparare, per cambiare, bisogna uscire dal nostro microcosmo chiuso e limitato, bisogna mettersi in discussione; uscire è scoprire immagini nuove, nuove cose incredibili; uscire è rendersi conto che il mondo e la vita sono infinitamente più grandi della nostra piccola e sclerotizzata testa. Ma uscire fa paura, è pericoloso, ci mette in balia di forze avverse: non è forse meglio rimanere in casa, al sicuro, soli e protetti dalle nostre personali certezze?
In questo modo il minore, uscendo, rischiando, è cresciuto, è diventato uomo, ha trovato la sua vita vera; il maggiore invece, trincerato nei suoi vecchi schemi e pregiudizi, è diventato un uomo morto.
Al ritorno del minore, dunque, sia lui che il padre sono completamente diversi: il padre non è più “colui che dà” e lui non è più “colui che prende”, ma uno che a sua volta “dà”.
E questo figlio, coperto di stracci, senza più nulla, ma vinto dal dolore e dal rimorso, cosa può dare ora al padre? Gli dà la gioia di esprimere la sua nuova vera paternità: gli conferma cioè che essere padre non è più questione di soldi (patrimonio), ma di amore, di affetto, di presenza (paternità). Il viaggio che lo ha portato dal “patrimonio” (ti do le mie cose) alla “paternità” (ti do l'amore), è stato determinante: essere padri non è dare cose, posizioni, uno status sociale; paternità è dare qualcosa di sé, è poter essere una casa che rimane aperta ogni volta che i figli vorranno tornare: e il “far festa con il vitello grasso”, altro non è che una espressione di questo nuovo amore.
Sullo sfondo, invece, il figlio maggiore sarà ancora lì, a discutere di capretti, di vitelli grassi, di soldi risparmiati e soldi scialacquati: non ha capito la loro trasformazione; lui non è ancora “passato”, non ha fatto ancora nessun viaggio, per lui l’immagine del padre è sempre la stessa, quella di prima: e per questo si sente rifiutato. Improvvisamente percepisce che il padre è radicalmente cambiato (“ama mio fratello quanto me”), non accetta questo cambiamento, si scontra con questa novità (“io non sono più il suo preferito”). E sempre per questo lo rifiuta e lo attacca. Non ha capito che i rapporti nella vita devono cambiare; se non cambiano muoiono o finiscono (che è la stessa cosa).
Le relazioni non finiscono perché viene meno l'amore. Le relazioni finiscono perché noi non vogliamo cambiare, ci irrigidiamo sulle nostre posizioni, ci ostiniamo a rimanere fermi, ci opponiamo con tutte le forze a far “evolvere” il nostro rapporto, farlo crescere, renderlo adulto.
Ma questo, lo ripeto, non è vivere.
Le scelte che la vita ci propone sono pertanto due: o uscire dalle nostre certezze, rischiare di perderci, ma vivere poi nella felicità; oppure non muoverci, non cambiare, fare cioè come il figlio maggiore, che dall’alto del suo legalismo statico giudica e disprezza tutti, ma è infelice. A noi la scelta dunque, ben sapendo che la nostra vita sarà condizionata da ciò che scegliamo. Amen.
 

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