giovedì 24 ottobre 2013

27 Ottobre 2013 – XXX Domenica del Tempo Ordinario

«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo” (Lc 18,9-14).
La parabola di oggi ci propone due personaggi, il fariseo e il pubblicano; due uomini “diversi”, che si accingono a pregare in due modi altrettanto diversi.
Il fariseo si ritiene giusto. Già la parola “fariseo” non promette nulla di buono: fariseo significa, infatti, “separato”; farisei erano coloro che si dedicavano all'osservanza meticolosa della legge, e proprio per questa loro scrupolosità, si sentivano separati, diversi, superiori a tutti gli altri. Erano stimati dalla gente proprio per la loro puntigliosa religiosità; essi questo lo sapevano e se ne compiacevano. “Ma non erano quelli che perseguitavano Gesù? Non sono stati proprio loro che hanno tentato in tutti i modi di metterlo a tacere, arrivando poi ad ucciderlo?”. Una domanda pertinente, che ci dimostra come molto spesso siano proprio i giusti, i religiosi, gli osservanti, ad essere i peggiori nemici di Dio. Una constatazione che deve farci riflettere.
Poi c'è l’altro personaggio, il pubblicano. I pubblicani erano amici dei Romani; erano considerati dei traditori collaborazionisti, e quindi odiati cordialmente dagli ebrei.
Entrambi questi due tizi, salgono dunque al Tempio per pregare: la preghiera ufficiale si teneva due volte al giorno, alle nove e alle quindici. Ed è proprio nella preghiera, che i due rivelano la loro profonda diversità: la preghiera del fariseo è lunga, piena di particolari, autoreferenziale, compiaciuta; al contrario di quella del pubblicano che è brevissima, umile e contrita.
Il fariseo sta dritto in piedi e “prega tra sé”. In greco questa forma verbale significa più esattamente “egli prega se stesso”. Molti infatti pregano se stessi, adorano se stessi; per loro la preghiera è l’occasione per mettersi in buona luce davanti a Dio e agli uomini, per dimostrare, compiaciuti, tutti i loro meriti.
Il fariseo sta in piedi e prega in silenzio. La cosa era normale per un ebreo, ma Luca lo interpreta come un segno di superbia. Nella sua preghiera egli ringrazia Dio per averlo fatto diverso dai miserabili, dalla comune gentaglia: la sua preghiera altro non è che un panegirico di se stesso. Dapprima mette bene in luce ciò che lui non è: non è un uomo ingiusto, un disonesto, non è un ladro, un adultero, non è insomma un “pubblicano”; poi, non soddisfatto, passa a sottolineare i suoi meriti, ciò che lui fa: digiuna due volte alla settimana (quindi più di quanto prescrivesse la Legge, che limitava il digiuno a pochi giorni all'anno), paga regolarmente le decime, cioè la decima parte del raccolto e di quanto possedeva (frumento, olio, vino) che veniva devoluta al tempio e per i poveri. Tutto in Lui è perfetto, ineccepibile: la sua vita, la sua preghiera, il modo di rapportarsi con Dio. Nessuno può rimproverargli nulla. Quello che dice è tutto vero. Il fariseo sembra veramente bravo.
Quanta gente di questo tipo conosciamo anche noi: sono “i giusti”. Di loro e della loro vita esteriore non possiamo proprio dire nulla. Non troviamo in loro nessun difetto: pregano, sono ottimi padri o madri, grandi lavoratori, apertamente non fanno del male a nessuno; ma nel loro intimo sono aridi, la loro è una vita senz'anima, una vita senza vita, senza slanci d'amore.
Il pubblicano, invece, se ne sta a distanza, curvo fino a terra. Il “pubblicano” era la personificazione della più profonda miseria morale: imbrogliava Dio, imbrogliava i poveri, i miseri, i deboli. Era coinvolto in un traffico di denaro “sporco”, dal quale, una volta entrati dentro, è difficilissimo uscirne. Faceva un mestiere maledetto e proibito agli ebrei. Per cui quando dice di essere un povero peccatore, dice fino in fondo la verità, non si nasconde dietro a scuse o bugie. E il suo atteggiamento di battersi il petto lo conferma.
Entrambi sono dunque sinceri, ma Gesù afferma senza esitare che uno se ne va giustificato, cioè cambiato, reso giusto, e l'altro no. Perché?
Il fariseo inizia molto bene la preghiera: inizia con una lode a Dio. La funzione dell'uomo è infatti quella di ringraziare Dio. San Paolo dice: “Rendete grazie a Dio in ogni cosa per mezzo di Gesù Cristo”. Se noi potessimo rendere grazie per ogni cosa, noi faremmo della nostra vita una “liturgia”, una preghiera continua, un'eucarestia. Poi però il fariseo, nel mettersi a confronto con gli altri, sbaglia tutto, cade completamente in basso.
Di fronte agli altri, noi possiamo rifugiarci nell’apparire, nel mentire, nel far passare qualunque menzogna per verità; possiamo distorcere la realtà sulla nostra preparazione, sulla nostra professionalità, sui nostri ruoli; possiamo mascherarci e crearci tutte le immagini che vogliamo. In fondo, chi lo sa? Chi ci vede dentro? Ma di fronte a Dio questi teatrini non servono, questi trucchi non valgono, cadono tutti e rimaniamo soli davanti alla nostra pseudo “verità”, nudi e spogli.
La vera preghiera è invece quella che parte dalla profonda verità di noi stessi. Quella verità che, senza menzogne, senza false apparenze, ci pone di fronte a Dio. Gli altri vedono il nostro contenitore esteriore, ciò che noi vogliamo far vedere: vedono la nostra scorza, l'esterno, il di fuori. Ci vedono pregare, andare in chiesa, fare carità, fare volontariato; cosa potrebbero mai dire? Diranno: “Ma che brava persona! Che bravo cristiano! Che uomo esemplare”. Ma gli altri non possono vederci dentro, noi lo sappiamo, e possiamo pertanto nascondere a tutti e soprattutto a noi stessi, ciò che abbiamo di negativo, ciò che è imperfetto, ciò che è doloroso, i nostri limiti, le nostre zone d'ombra, i nostri lati oscuri. Possiamo nasconderli così bene anche a noi stessi che addirittura ce ne dimentichiamo, pensiamo di non averli più: li mettiamo in cantina, in soffitta. Non li vediamo più e quindi, pensiamo che non ci siano più. Non li vediamo e quindi pensiamo di essere migliori, “più” degli altri: più bravi, più giusti, più umani, più religiosi. Ma Dio ci vede come siamo, ci conosce dentro, alla perfezione. E Lui non possiamo ingannarlo.
Nella sua preghiera il pubblicano, al contrario del fariseo, non si nasconde la verità: “Abbi pietà di me peccatore”. Questa è la realtà e gli dispiace sinceramente. Per questo egli chiede misericordia, pace, riconciliazione per i suoi lati negativi, per le sue zone oscure, per le ferite, per il male procurato agli altri, per i suoi peccati e per i suoi errori. Il pubblicano riconosce che la sua situazione è compromessa, non mente a se stesso, non si inganna.
Solo quando uno si riconosce completamente povero davanti a Dio, solo allora può ricevere la ricchezza, che è Dio stesso. Il pubblicano sa di aver bisogno di Dio; ha bisogno che Dio corra da lui con le braccia spalancate, che lo accolga, che lo stringa al cuore, che gli restituisca dignità, che lo salvi dalla “fossa” della cattiveria. Lui sa di essere ammalato e sa di aver bisogno del medico che è Dio. E per questo torna a casa giustificato, cioè, amato, liberato e pacificato.
C'è una preghiera gradita a Dio e una preghiera insopportabile per Dio.
Il fariseo non risulta gradito a Dio perché giustifica la sua disonestà interiore nascondendosi dietro a quelle poche cose esteriori che fa. Il fariseo non è onesto con se stesso, si mente, si racconta un sacco di balle non perché ciò che dice di fare non sia vero, ma perché vede solo una parte di sé, quella esteriore, quella meno importante. Gli ripugna ammettere l’evidenza, di riconoscere cioè che anche lui, come e forse più del pubblicano, è un poveraccio, un peccatore.
Chi di noi è tanto perfetto, immacolato, da considerarsi tale anche con se stesso, di fronte allo specchio della propria coscienza? Se rispondiamo “Io”, beh, allora dobbiamo guardarci meglio, fratelli miei, dobbiamo scrutarci minuziosamente! Perché, dove li mettiamo i nostri piccoli segreti, le nostre piccole falsità, le nostre debolezze, le nostre ipocrisie? Non è forse vero che siamo attirati dal proibito, che ce ne compiacciamo, anche se poi non lo facciamo? Non è forse vero che in certi giorni Dio ci sta proprio antipatico e che arriviamo anche ad odiarlo? Non è forse vero che abbiamo desideri e impulsi cattivi, a volte anche perversi? Non è forse vero che facciamo pensieri di ogni tipo, anche i più trasgressivi e i meno nobili? Non è forse vero che in certi momenti, di fronte a certe disgrazie, ci disperiamo, e malediciamo Dio in cuor nostro, convinti di essere vittime della sua “cattiveria”, della sua “ingiustizia”? Non è forse vero che certe nostre reazioni ci fanno paura? Non è forse vero che abbiamo a volte tradito la fiducia degli altri, ferendoli volontariamente? Non è forse vero che ci piace sentirci più bravi, più intelligenti, più belli, più simpatici degli altri? Non è forse vero che spesso ci aggiustiamo le cose in modo che abbiano un tornaconto soprattutto per noi?
Ebbene: chi di noi è assolutamente immune da tutto questo, “scagli pure per primo la pietra”. E, guarda caso, c'è sempre qualcuno che la scaglia, sempre! C'è sempre qualcuno che, non vedendo le magagne che stagnano dentro il suo cuore, a causa del buio pesto che vi regna, si permette di giudicare gli altri, di credersi qualcuno, di non essere come loro. Molte persone hanno rimosso così bene qualunque imperfezione dalla loro coscienza, da sentirsi completamente “puliti”, immacolati: ecco perché pregano “a voce alta”, “in piedi”, convinti di essere ottimi cristiani; quando invece non sono che dei miseri farisei.
La preghiera non deve essere “pia”, formale, esteriore; deve essere intimamente vera, sincera, onesta: pregare è aprire tutte le stanze della nostra vita, della nostra anima; è spalancare ogni finestra e lasciare che Dio spanda la sua luce sui nostri angoli oscuri, su ciò che volutamente ignoriamo, su ciò che grida, che urla dentro di noi, ma che noi mettiamo a tacere perché ci ripugna anche solo ascoltarlo; su tutto ciò che ci fa male, che è doloroso; su tutto ciò che non vorremmo confessare ma che Lui è sempre pronto a perdonare; su tutto ciò che ci nascondiamo per paura, ma che Lui non teme; su tutto ciò che abbiamo nascosto in cantina a marcire ma che Lui vuole liberare e far rifiorire. Perché Dio non teme nulla. Noi abbiamo paura, ma Lui no! Lui ha vinto il mondo. Lui non teme nulla e ci ama in tutto il nostro squallore. Lui può andare dovunque noi ci rifiutiamo di andare: “pregare” allora significa lasciarci condurre da Lui; pregare è permettergli di entrare proprio là, dove noi ci vergogniamo, dove noi ci facciamo schifo, dove noi ci nascondiamo.
Dobbiamo convincerci di una grande verità: non siamo per niente quelli che, nel nostro orgoglio, amiamo esibire agli altri: quella è un’immagine che non ci appartiene, una maschera posticcia, creata apposta per soddisfare le nostre manie di grandezza. Non abbiamo per nulla, dentro di noi, quella luce, quel calore, quei carismi, che tanto amabilmente ostentiamo all’esterno; siamo piuttosto tormentati, angosciati dall’oscurità destabilizzante che regna dentro di noi.
Dobbiamo armarci di tanta umiltà: solo così potremo far spazio all’amore di Dio.
Un giovane onesto, giusto, virtuoso e irreprensibile, si presenta un giorno nel deserto da un santo eremita, e lo prega di accoglierlo come discepolo. L’eremita gli chiede: “Hai mai rubato?”. Il ragazzo risponde: “Assolutamente mai”. E il vecchio anacoreta: “Allora va' e ruba, e quando avrai imparato a farlo, torna da me”. Un invito a rubare? No, fratelli. Semplicemente un invito a indossare l’abito dell’umiltà, a distruggere le nostre illusioni, le nostre convinzioni di perfezione, di essere bravi, virtuosi, impeccabili. Perché noi, a ben guardare la realtà, altro non siamo che quel fariseo e quel pubblicano. Amen.
 

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