venerdì 14 marzo 2014

16 Marzo 2014 – II Domenica di Quaresima

«Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro» (Mt 17,1-9)
Pietro e gli altri discepoli non hanno ancora capito chi sia realmente Gesù. Essi continuano a vedere in lui il Messia forte e potente, il Messia giunto finalmente a sollevare le sorti del loro popolo, schiavizzato dalle grandi potenze dell’epoca; un uomo che - ancora non sanno come, ma sicuramente con grande impiego della forza – li affrancherà dall’oppressione romana in atto, riportando finalmente giustizia ed equità in quel loro paese martoriato. Questo essi vedono in Gesù: ma questo non è Gesù. Eppure Egli ha cercato in tutti i modi di spiegare loro la vera natura della sua missione: anche soltanto pochi giorni prima era stato molto chiaro in proposito: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”: parole che lasciano ben poco spazio a visioni fantapolitiche. Ma niente e nessuno poteva scuotere le convinzioni profondamente radicate in questi ruvidi lavoratori: serviva una “catechesi” forte, immediata, di sicuro impatto emotivo. Per questo egli “prende con sé” Pietro, Giacomo e Giovanni. Perché loro? Perché erano i più “agguerriti”, quelli più vicini e attenti. Pietro era il portavoce del gruppo, un tipo sanguigno che prima agiva e poi pensava: uno che vedeva in Gesù il Messia politico di cui era accanito sostenitore; i due fratelli Giacomo e Giovanni, erano due tipi molto ambiziosi, convinti anch’essi del suo ruolo politico; erano soprannominati entrambi “Boanèrghes”, “figli del tuono”, per il loro carattere impulsivo, “fumino” e spesso collerico. Un trio decisamente di punta, emergente e trascinatore.
L’esperienza a cui Gesù vuole renderli partecipi, è una di quelle importanti, che deve durare nel tempo, che deve essere documentata seriamente: per questo servono dei testimoni attendibili, gente che si sappia imporre, gente persuasiva, con carattere.
Con essi dunque Gesù sale su “un alto monte”. E qui, mentre sono lontani dagli altri, “in disparte”, egli si “trasfigura”; le sue sembianze di uomo, si trasformano in sembianze divine: si riprende cioè le sue sembianze vere, quelle che gli appartengono, quelle della sua natura divina, rivelandosi per quello che Lui realmente è: il Dio amore e vittima sacrificale che, nella sua “kenosis”, nello “svuotamento” cioè della sua divinità, ha accettato di assumere la nostra natura umana per riscattare e riportare al Padre l’intera umanità mediante il sacrificio della croce.
È un evento difficile da capire e da descrivere nella sua realtà: i tre evangelisti che ne parlano riflettono infatti l’inadeguatezza delle loro parole: il volto di Gesù brilla “come il sole”, le sue vesti diventano candide “come la luce, sfolgoranti, splendenti, bianchissime”. Sicuramente si rifanno ai testi delle Scritture che parlano di Dio come creatore della luce, sorgente di luce eterna, avvolto in un mantello di luce (cfr. Sal 104,2).
In questa esplosione di luce, con gli occhi abbacinati da tanto splendore, improvvisamente essi scorgono Mosè ed Elia, intenti a conversare con Gesù. Si tratta di due personaggi biblici fondamentali per la storia di Israele: Mosè che rappresenta la Legge, Elia che rappresenta i profeti: non si rivolgono ai discepoli, ma dialogano direttamente con il Cristo. Mosè ed Elia, la Legge e i Profeti, non hanno più niente da dire al popolo, se non attraverso Gesù. Perché è con Gesù che viene abolita l'antica alleanza; per cui tutto ciò che Dio deve dire, da questo momento lo dirà attraverso di Lui.
«Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». È Pietro che parla: è preso dall’entusiasmo e dall’eccezionalità del momento: vorrebbe che quella esperienza non finisse mai: l’idea delle “capanne” gli viene naturale, è una prassi che lui conosce molto bene, poiché ogni anno, nella festa delle capanne, ci si accampava in capanne per sette giorni, facendo memoria della miracolosa liberazione dall’Egitto, guidata appunto da Mosè. Ed è proprio Mosè che Pietro, nella sua proposta, colloca al centro, non Gesù; la sua grande aspettativa era infatti che Gesù, il nuovo Mosè, avrebbe seguito le orme dell’antico, liberando con la forza il popolo dalla schiavitù dei Romani e dall'ingiustizia religiosa dei farisei.
Ma Mosè ed Elia ignorano i tre; dialogano direttamente con Gesù; e come se non bastasse, una voce tuona dall’alto: “Questo è il figlio mio… ascoltatelo!”.
I tre, già in preda ad una fortissima emozione, “caddero a terra” e furono presi da “grande timore”. Cadere a terra è segno di totale disfatta: a questo punto infatti essi si sentono sconfitti, delusi; i loro sogni di restaurazione, le loro pretese e aspettative politiche, si infrangono contro questa nuova realtà. “Abbiamo creduto che tu fossi qualcuno che non sei”: si rendono conto di essersi sbagliati: improvvisamente diventano consapevoli di trovarsi di fronte ad una autentica manifestazione divina, e il timore li assale; hanno il terrore di morire, perché ricordano la Scrittura che dice “Chi vede Dio faccia a faccia, muore”. Ma Gesù è lì accanto, li tocca, li rassicura, li rialza. Fa cioè lo stesso gesto (toccare e rialzare), dice le stesse parole che usa nelle guarigioni (“non abbiate paura”). E i tre immediatamente guariscono: guariscono dalla falsa visione che avevano su di Lui.
Adesso lo vedono per quello che è veramente: infatti, riavutisi dallo spavento, vedono soltanto Gesù. Non c'è più né Mosè, né Elia: Gesù è solo; Gesù è soltanto Gesù. Pietro, Giacomo e Giovanni non proiettano più su Gesù le loro speranze e le loro aspettative; si sono finalmente spogliati delle loro idee, delle loro previsioni su di lui.
Questo del “proiettare” sugli altri le nostre convinzioni, del “costruire” sugli altri il verificarsi dei nostri sogni, è un fenomeno molto comune: in pratica mettiamo addosso agli altri dei vestiti, delle maschere, dei ruoli, che non sono loro, per cui li vediamo non per quello che sono ma per quello che decidiamo che siano.
La “proiezione” vede solo quello che vuol vedere. Quando poi scopriamo che l'altro non è così, rimaniamo delusi: “Non sei come pensavo!”. Non lo è, e non lo è mai stato: eravamo noi che vedevamo in lui uno che non c'era. Per questo motivo la proiezione ci impedisce di amare l’altro: perché non è lui che noi amiamo, ma la corrispondenza della sua immagine alla nostra idea.
Noi abbiamo ben chiara nella nostra testa l’idea di capo, di amico, di prete: quando capitano delle new entry, noi proiettiamo sul nuovo arrivato questa nostra idea: e poiché difficilmente questi corrisponde al nostro standard, al cliché da noi vagheggiato, ne rimaniamo delusi. E allora diciamo: “Non ci piaci!”. E lo rifiutiamo.
Quante unioni, quante vocazioni, quanti matrimoni nascono e muoiono così! Lei sposa lui perché lo vede forte, vede in lui il suo paladino, colui che le garantisce sicurezza e forza. Ma questo è il “tipo” di cui lei ha bisogno, non l’uomo che lei ha scelto. Quando infatti, poco dopo, lui si rivela per uno che non parla, uno che più che forte è violento, uno che non sa essere affettivo, lei si lamenta: “Non sei più quello di una volta; non sei quello che ho sposato; non eri così prima di sposarci!”. E invece no; lui è sempre stato così; è che lei vedeva un altro; vedeva quello che aveva bisogno di vedere, quello che le “serviva” di vedere.
D’altro canto, nella stessa lettura del vangelo noi siamo portati a “proiettare”: l’immagine cioè che noi abbiamo di Dio spesso non è quella reale, ma quella che noi, in quel momento, gli attribuiamo. Dio infatti, non è il burbero, forte, severo “padrone” del mondo: non è l’intransigente giudice che gode nel punirci appena ci allontaniamo un attimo dai suoi precetti. Lui non è così, non incute assolutamente il terrore; non abbiamo alcun motivo per temerlo, ma innumerevoli per amarlo; eppure per tanti secoli abbiamo proiettato su di lui le nostre immagini di padre/padrone colte dalla vita sociale e dalla mentalità di allora. Così ne è nato un Dio da temere, un Dio che pretende sacrifici continui, ubbidienza ferrea dai suoi sudditi, un Dio che si arrabbia e che inesorabilmente ci punisce (ci manda all'inferno) se non facciamo come dice lui.
Ma Dio non è venuto a rinnovare la società esistente; Dio è venuto ad annunciare la novità del suo regno, che è un'altra cosa: seguire Dio, diventare cristiani, nel primo caso corrisponderebbe semplicemente al farsi battezzare e frequentare la Chiesa; aderire al regno di Dio significa invece vivere la libertà, la verità, l’amore che stanno al centro del nostro cuore: farne il nostro stile di vita. È un'altra cosa.
Il vangelo dice che Gesù “fu trasfigurato” davanti a loro e che il suo volto “brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”. Cos'avranno visto i tre accompagnatori? Cosa significa vedere Gesù “trasfigurato”? Come si possono “vedere” queste cose? Ebbene: la “trasfigurazione” è vedere appunto cose che non possiamo in alcun modo vedere con gli occhi fisici; significa vedere cose che si possono percepire soltanto con il cuore. E siccome molti non hanno gli occhi del cuore, non potranno mai avere queste “estasi”. “Trasfigurazione” significa rivelare nei tratti esteriori del nostro volto la gioia, la beatitudine incontenibile, prorompente, di quando ci sentiamo rapiti in cielo, di quando cioè il nostro cuore è stracolmo di felicità perché si sente al centro dell’amicizia con Dio, percepisce la sua presenza in lui, si sente abitato, invaso, inondato dal suo amore.
Siamo mai stati veramente innamorati? Se abbiamo perso la testa, se abbiamo fatto cose pazze per qualcuno, se ci è capitato, almeno una volta, di vedere il mondo come un paradiso celestiale, perché qualcuno ci ha dichiarato il suo amore, allora, forse, riusciremo a capire questo brano del vangelo.
Se non ci siamo mai innamorati, se non ci siamo mai lasciati andare, se non conosciamo cosa voglia dire abbandonarsi completamente alle emozioni del cuore, agli slanci dell'anima, non potremo mai conoscere il messaggio di Cristo: perché lui su questa terra fu così: un innamorato, un passionale, un fuoco che divampava, che bruciava, che incendiava chiunque lo incontrasse.
Dio è Amore, dice l'evangelista Giovanni. Cioè: solo chi sa aprirsi e vivere l'amore può capire Dio. Tutti quelli che non sanno spalancare il loro cuore all’amore, potranno sì avere un’idea di Dio, ma non lo potranno mai “sentire”; tutti quelli che sono freddi, che vivono nell’isolamento del proprio io, incapaci di commuoversi, di esaltarsi, non potranno mai percepire la grandezza del suo cuore, la quantità del suo amore; tutti quelli che non sanno abbandonarsi ai sentimenti, continueranno a cercarlo invano.
Ci succede mai di commuoverci davanti alla dolcezza del volto di una donna, di un bimbo, alla serenità di un silenzioso tramonto in montagna? Ci sentiamo mai così pieni di gioia, da commuoverci, da sussultare, da non poter più trattenere la gioia delle lacrime?
Ebbene, quando vinciamo delle battaglie, quando facciamo delle conquiste o superiamo delle paure, delle prove, delle barriere che sembravano insormontabili; quando ci succedono cose impensabili ma meravigliose, quando nell’anima si aprono improvvisamente spiragli inattesi, quando guariamo dalle gravi malattie dell'anima e del fisico, non possiamo non commuoverci fino alle lacrime; non possiamo non piangere di felicità, di gioia; non possiamo rimanere indifferenti di fronte alla forza, alla bellezza, all'intensità della vita che ci invade il cuore.
Una volta pensavo che commuoversi significasse essere deboli. Ma oggi so che provare emozioni forti,vuol dire essere vivi, vuol dire “sentire” ciò che viviamo, facendone partecipi anche gli altri; vuol dire lasciarsi prendere, lasciarsi coinvolgere da ciò che succede, significa non essere gelidi come il ghiaccio o impenetrabili come il marmo. Perché questi sono i nostri momenti di “trasfigurazione”; sono i momenti in cui percepiamo con assoluta chiarezza che vale la pena di vivere; sono i momenti in cui ci sentiamo riconoscenti a Dio per essere in questo mondo, per aver avuto il grande dono di esistere. Sono i momenti che ci danno l'energia, la fiducia, la forza, il coraggio, di andare sempre avanti, affrontando se necessario le cadute, le croci, le crocifissioni di ogni giorno; sì, perché senza questi sprazzi di gioia, di felicità, di infinito, senza questi “momenti di Dio”, non riusciremmo mai a trovare la forza per rialzarci e continuare il cammino.
E concludo: se vogliamo “trasfigurarci”, dobbiamo permettere alla felicità di entrarci dentro; dobbiamo lasciare che la vita irrompi in noi, dobbiamo lasciare che la vita viva in noi, che sussulti, che si sviluppi, che l’amore nasca, si espanda, si irrobustisca.
Perché è quando ci innamoriamo che noi facciamo esperienza di “trasfigurazione”. Vediamo cioè nell'altra persona, cose che soltanto noi riusciamo a vedere. Quando nel buio di una situazione facciamo entrare la luce, quando da smarriti che eravamo, ci ritroviamo, noi facciamo esperienza di trasfigurazione. Quando scopriamo che la nostra vita, così piccola e insignificante rispetto al mondo e ai sei miliardi di uomini che lo abitano, ha un suo senso e uno scopo ben preciso, noi facciamo esperienza di trasfigurazione. Quando riusciamo a vedere, a scorgere, a percepire la bellezza, la forza, la sensibilità, la ricchezza d’animo di una persona, anche se da fuori non si vede, questa è trasfigurazione.
Trasfigurazione è vedere le persone per quello che realmente sono; è vedere la loro vera faccia, il loro vero volto, la loro figura integra, come è stata creata da Dio: non deformata dai giorni, dalle paure, dal dolore, dalle ansie e dalle angosce della vita.
Se ci capita di piangere di gioia, di sentirci così felici da toccare il cielo; se ci capita di essere così pieni d’amore, così ricchi da sentirci rapiti in cielo, così immensi da sentirci caldi come il sole o profondi come il mare, beh questa è trasfigurazione.
Il mondo ci dirà che siamo matti: non ci capirà mai; ma mentre lui continuerà ad essere infelice, noi saremo davvero tanto, tanto felici. Amen.

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