mercoledì 25 giugno 2014

29 Giugno 2014 – Ss. Pietro e Paolo

«…Ma voi, chi dite che io sia? Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,13-19).
Oggi la chiesa celebra la festa dei santi Pietro e Paolo, che furono le colonne portanti della prima chiesa. La loro forza fu quell’incontro personale con Gesù, fatto da Pietro sulle strade della Galilea e da Paolo sulla via di Damasco: lo videro di persona, lo incontrarono, furono due innamorati di Dio.
Per incontrare Dio, per essere anche noi innamorati di Lui, dobbiamo cercarlo, averne bisogno, ritenere prioritario il suo incontro. Ritenere di non poter stare senza di Lui perché Lui è la Vita, perché Lui è Tutto.
Il motivo principale per cui non troviamo Dio è che non lo desideriamo ardentemente. Le nostre vite sono piene di troppe cose “altre”, sono affollate da tanti altri pensieri e, non nascondiamocelo, tutto sommato stiamo bene anche senza Dio.
Diciamocelo: per molte persone, nella quotidianità dell’esistenza, che Dio ci sia o che non ci sia, non è poi così importante, non cambia poi molto, non ha molto peso. Diventa importante solo quando ci troviamo in situazioni limite: quando stiamo crollando o siamo ammalati, quando stiamo soffrendo, quando muore qualcuno a noi vicino, quando siamo vuoti o depressi. Ma prima? Dov’era, prima, Dio per noi?
Il vangelo ci dice che a Pietro e agli altri discepoli Gesù, ad un certo punto della sua vita, pose una domanda centrale: “Chi sono io per voi?”. Bella domanda: anche noi oggi possiamo chiederci tante cose su Gesù: “Cosa dice il catechismo su di Lui?; cosa dicono gli esperti e i preti su di Lui?; cosa se ne dice in giro?”. Possiamo giustificare la nostra “ignoranza” dicendo che non abbiamo studiato, che non siamo esperti, che non ne sappiamo molto. Ma sono solo giustificazioni, perché Gesù con quella domanda, in pratica vuol dirci: “Tu, personalmente, in che misura vuoi lasciarti coinvolgere da me?”. È una domanda che non esige tanto una risposta teologica, da catechismo, giusta e corretta: esige semplicemente una nostra scelta di vita.
Vuole che ci lasciamo coinvolgere totalmente, contagiare nel più profondo del cuore: “Tu sei il Figlio di Dio, quello Vivente”. Cioè: “Tu sei colui che dà vita, che dà senso, significato, pienezza, unità alla mia vita. Senza di te nulla ha senso. Tu sei ciò che mi rende vivo. Senza di te sono morto”.
Quando infatti chi ci ama ci chiede: “Chi sono io per te?”, è chiaro che non intende chiederci se conosciamo i suoi dati anagrafici; ma ci chiede se lo amiamo, se siamo felici di stare con lui, se siamo disponibili a fare con lui la strada della nostra vita”.
Gesù non chiede a nessuno se conosce il catechismo a memoria; ma soltanto: “Con la tua vita, sei pronto a stare con me? Ti va di seguirmi? Ti va di mettere tutto il tuo mondo in gioco insieme a me?”.
Pietro, Paolo, e tutti gli apostoli, con il loro comportamento, con la loro vita, hanno praticamente risposto alla domanda di Gesù più o meno in questo modo: “Beh, caro Gesù, in effetti noi non ti conosciamo a fondo, non sappiamo bene neppure chi tu sia. Però una cosa sappiamo molto bene: che prima eravamo morti, mentre adesso viviamo. Prima vivevamo trascinando stancamente i nostri giorni, mentre ora ci sentiamo pieni di vita, vibranti, entusiasti, intensi. Prima eravamo pieni di paure, adesso con te siamo disposti ad affrontare qualunque cosa. Prima temevamo il giudizio della gente, adesso con te niente e nessuno ci fa più paura. Pertanto, secondo noi, tu vieni proprio da Dio, perché solo Dio può fare queste meraviglie. Noi vogliamo vivere con te, perché solo con te abbiamo sperimentato la vera vita”.
Questa risposta non è frutto di ragionamenti, di sofismi, di elucubrazioni mentali, dell’aver studiato molto o dell’aver fatto molto incontri. Questa risposta è il frutto di persone che hanno fatto una scelta seria, ponderata, definitiva; di persone che quotidianamente, con i fatti, continuano a mettere generosamente in gioco la loro vita.
Le grandi scelte non sono mai logiche: sono illogiche, sono contro la logica e il ragionamento umano: si pongono su di un altro piano, sul piano del cuore, della passione, dell’amore, dell’intensità.
Quando Dio ci chiama, il cuore dice “Sì”, e si slancia con tutto l’entusiasmo che ha dentro di sé. Mentre invece la mente: “Calma, fai attenzione! E se ti sbagli? E se poi non ce la fai? Chi ti assicura che questa sia la scelta giusta, ecc.?”. In genere, prima di una decisione importante, la nostra testa è portata a calcolare le eventuali possibilità di errore, i vari rischi che una tale scelta comporta. Ma il cuore non ragiona così: se si sente attratto, il cuore decide di andare. Poi, con calma, studierà anche la strada da percorrere. E la trova sempre! Il nostro raziocinio si preoccupa sempre di trovare l’obiettivo, la meta, perché pianificare e sapere dove andare ci infonde sicurezza. Ma il cuore non segue la strada del raziocinio; basta un impulso, una spinta, uno slancio, perché decida immediatamente che quella è la sua strada: “Per di qua”. E lui va: a tutto il resto ci si penserà dopo.
Pietro ad un certo punto si rende conto che in quell’uomo, chiamato Gesù, c’è veramente qualcosa di grande, di immenso, di divino. Non si tratta più dunque di pensarci, di valutare, di ragionare, di fare un bilancio guadagni/perdite: si tratta di fidarsi, di seguire l’intuizione e la vibrazione del cuore e di seguirlo. Non fu una scelta logica quella dei discepoli di seguire Gesù. Tant’è che dal punto di vista della gente, essi erano dei pazzi scatenati. Del resto pensiamo solo un attimo: seguivano uno che era convinto di essere lui stesso Dio, visto che si proclamava figlio di Dio! Noi oggi, gente come quella, la interneremmo tutta in cliniche specializzate! Hanno abbandonato su due piedi casa, lavoro e famiglia per andare dietro ad un esaltato, con idee rivoluzionarie, che si era messo contro tutti quelli di buon senso. E perché ci andarono? Perché avevano capito che Lui era il Vivente. Perché sentivano che con Lui vivevano, con Lui avevano scoperto cos’era la passione vera. Pietro e Paolo si buttarono, e non furono mai più li stessi. Mai più. Quella fu la svolta determinante della loro vita. Puntarono tutto su di Lui, e basta!
Questo è fondamentale anche per noi: ad un certo punto, dobbiamo prendere una decisione; dobbiamo cioè decidere cosa dobbiamo fare della nostra vita, se seguire il cuore o la mente. Se seguire cioè i nostri ideali, lottare per essi, pronti a pagare qualunque prezzo per tale scelta, oppure seguire la ragione, il “buon senso”, la strada larga e rassicurante dei più. Ad un certo punto dobbiamo avere il coraggio di salpare con decisione verso il mare aperto, anche di fronte alla possibilità di naufragare; altrimenti continueremo a stare sempre fermi, ancorati in porto.
Dio è un incontro-scontro, è un’esperienza che ci avvolge, ci travolge, ci stravolge. Non siamo più noi. Dopo l’incontro con Lui nessuno potrà mai più essere se stesso. Simone divenne Pietro, Saulo divenne Paolo.
Penso sia per questo che molti temono incontri personali e profondi con Dio. È più facile “dare qualcosa” a Dio: una preghierina, un’offerta, un gesto, una buona azione. Ma “darsi” (cioè donargli tutta la vita) è un’altra cosa; seguirlo fedelmente, poi, è ancor più impegnativo!
Gesù dice: “Beato te, Simone, perché il Padre mio, che sta nei cieli, te l’ha rivelato”.
La fede di Pietro non è il frutto di uno studio approfondito, sistematico, analitico. Queste risposte non si danno perché si è intelligenti, perché si è esperti in teologia; si danno perché si è entrati col cuore dentro al “mistero”. L’amore infatti ha ragionamenti, risposte, modi di vedere e di considerare la vita, che non appartengono ad una mente razionale: non li conosce, non li può avere. La fede di Pietro è frutto dell’amore: “Io ti amo; tu mi fai vivere; tu sei l’aria che respiro; sono innamorato di te”. La sua è una fede sicura, una roccia; è per questo che Gesù può fondare su di lui la sua chiesa. Eppure, nonostante ciò, Pietro tradirà più volte il Signore. Durante la passione, ad esempio, lo tradirà tre volte e infine lo abbandonerà. Perché allora Pietro è considerato “roccia”? Perché, al di là della sua debolezza umana, lui “sapeva”, aveva cioè sperimentato personalmente e profondamente chi era il Signore. Gesù ha sentito tutta la sua sincerità, tutta la sua passione, l’intensità, il ritmo impetuoso del suo cuore innamorato. L’entusiasmo, l’irruenza, talvolta può farci anche cadere; ma ci fa anche immediatamente rialzare da qualunque caduta; ci fa guardare nuovamente in avanti, ci fa ripartire con decisione, con la stessa passione di prima. La tiepidezza invece, pur rimanendo nella “fedeltà”, nel “lecito”, fuori da ogni sussulto, è un male molto pericoloso, perché spegne ogni slancio, rende indifferenti, si limita al “minimo” previsto dalla legge, dimenticando il “massimo” dell’amore.
L’assuefazione, la famigliarità, il camminare lenti e prudenti, l’essere calcolatori, è il nostro peggior nemico. Perché nel corso degli anni siamo portati a trasformare la nostra fede in una pratica religiosa amorfa, asettica, senza sussulti, noiosamente ripetitiva: confessarsi tot volte all’anno, fare la comunione perché tutti gli altri la fanno, scegliere solo cosa fare o non fare per essere considerati dei cristiani “passabili”, ecc. Sarebbe come pensare “Fare un figlio? ma per carità! È un impegno gravosissimo, ti fa perdere la serenità, la pace, il sonno, non hai più la tua vita di prima”. È vero, è così! ma ci si dimentica che fare un figlio è anche e soprattutto gioia, estasi, commozione, sorrisi, realizzazione, completezza, ecc. La vera felicità è nemica del facile, dell’ozio, dell’indifferenza.
Il nostro andare in chiesa, deve quindi rispondere ad un nostro bisogno interiore, al bisogno di ridare forza e vigore alla nostra vita, alla necessità di riprendere “fiato”, di ritrovare pace e serenità; è il bisogno di incontrare e di fermarsi a salutare un Amico importante, di ringraziarlo per i suoi favori; dobbiamo andarci perché lì ci sentiamo a casa, ci stiamo veramente bene, respiriamo la “nostra” aria, incontriamo i nostri fratelli, i nostri “compagni” di viaggio e di avventura.
Vivere la nostra fede è un’esperienza che ci riempie la vita, ci rende liberi, ci fa uomini e donne veri fino in fondo; perché la fede è fiducia in se stessi, nella Vita e negli altri. La fede ci porta ad aprirci, a superare i nostri limiti; ci fa andare là dove abbiamo paura di andare, affrontare ciò che abbiamo paura di affrontare. La fede è vibrazione, intensità; è la sensazione di essere nelle grandi mani di Dio, al centro dell’universo, dove nulla ci può spaventare, dove tutto acquista un senso.
Dio ci ha creati per qualcosa di veramente grande! Diventiamo consapevoli della potenza che c’è in noi e della missione che Dio ci ha affidato. Chi ha incontrato Dio veramente, anche solo per una volta, l’ha incontrato per sempre. Dio non si può dimenticare. È continuamente al nostro fianco, ci guida, ci sorregge, ci consola: sbagliamo? c’è Lui! Ci perdiamo? c’è Lui! Siamo un fallimento? c’è Lui! Moriamo? c’è Lui! Chi ha trovato la Vita, sa che non esiste la “morte”: sa che esistono i “passaggi”, le separazioni, gli “arrivederci” ma non “la fine di tutto”. Il mistero della Vita è semplice per chi ha incontrato Dio; mentre è complesso e tragico per chi ne è fuori. Dio in questo mondo è talmente “visibile”, “evidente”, per quelli che gli credono, quanto “oscuro”, “irriconoscibile”, per coloro che non l’hanno mai incontrato, per coloro che non hanno fede in Lui, per chi non vuole cercarlo. Dio è “tutto” per chi si lascia riempire; “niente” per chi ne ha paura.
Solo dopo aver incontrato Dio, capiremo a fondo la vita, le persone, noi stessi; solo allora troveremo il senso autentico di ogni cosa e tutto ci sembrerà chiaro. Incontrare Dio sarà allora come aprire una porta o una finestra in una camera buia, e vedere finalmente il sole, la luce, la natura, il calore: in una parola tutto ciò che prima non avevamo mai visto né provato. Amen.

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