giovedì 23 ottobre 2014

26 Ottobre 2014 – XXX Domenica del Tempo Ordinario

«Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?» (Mt 22,34-40).
Dopo le ripetute brutte figure, i farisei per mettere alla prova Gesù questa volta scelgono una persona competente, il meglio del meglio: un dottore della legge. Da notare che il verbo “metterlo alla prova” è lo stesso peirazo usato per descrivere le tentazioni di satana: possiamo constatare infatti come nel vangelo le istituzioni religiose, i sacerdoti del tempio, gli scribi, i farisei, sempre pronti a tentare, a mettere alla prova Gesù, siano paragonati al diavolo. È quanto meno sintomatico: una prerogativa di allora che riemerge anche oggi?
Cosa gli chiede dunque il dottore, l’esperto?: “Maestro, qual è il più grande comandamento della legge?”
Già da come si pone, fa capire il suo reale proposito: l’appellativo di “maestro” con cui si rivolge a Gesù, non è un’espressione reverenziale, ma un titolo chiaramente provocatorio: non solo non ha alcuna intenzione di approfondire le sue conoscenze (lui non ha nulla da imparare, sa già tutto!) ma cerca piuttosto un pretesto per metterlo in difficoltà davanti al suo pubblico: vuole cioè cogliere in fallo Gesù per offrire alle autorità l’opportunità di condannarlo: e quale argomento è più indicato se non quello di indagare su cosa Gesù pensi dei comandamenti e della legge? La verità peraltro non gli interessa; e non è neppure curioso di conoscere il pensiero di Gesù; ma vuole sfruttare l’occasione per avere finalmente un riscontro su di una questione fondamentale che inquieta seriamente le autorità religiose: Gesù infatti nella sua predicazione non solo prende le distanze dai comandamenti della legge ma arriva pure a trasgredirli. Egli in pratica definisce “vecchi, sorpassati, incompleti” proprio quei comandamenti sempre validi, che tutti sono tenuti ad osservare. Quindi la risposta di Gesù serviva soltanto per verificare la sua ortodossia, e per acquisire un motivo ufficiale per denunciarlo.
Ma Gesù sa perfettamente a cosa le autorità mirano per mezzo del suo interlocutore: “Il più grande comandamento? Ma è ovvio, è il sabato!”. Il comandamento più grande è senza ombra di dubbio l’osservanza del “sabato”, quel comandamento che Dio stesso ha rispettato, consacrandolo col riposo dopo le fatiche della creazione. L’osservanza del sabato equivaleva per gli ebrei all’adempimento di tutta la legge, e la sua disobbedienza era punita con la morte (Es 31,14).
Tutto dunque è chiaro; ma è altrettanto chiaro che Gesù, nel suo peregrinare, di questo comandamento non ne tiene alcun conto, non gli interessa: se deve fare qualcosa di importante, come per esempio guarire un ammalato, lui lo fa’ tranquillamente, perché per lui l’amore è la cosa più importante della legge. Per cui se Gesù avesse dato la risposta che tutti si aspettavano, “il sabato”, il dottore della legge gli avrebbe immediatamente contestato il suo comportamento: “È giusto, maestro: ma perché tu non lo rispetti?”. Se invece avesse risposto diversamente, avrebbe fatto la figura dell’ignorante, di uno che non conosce la legge, e questo sarebbe stato altrettanto deleterio.
Il dottore esprime il suo quesito, basandosi su quanto previsto dalla Scrittura; lui è un esperto e la conosce bene: Gesù però gli risponde a tono, citando anche lui la Scrittura, dimostrando di conoscerla altrettanto bene, e gli fa capire che il testo non va interpretato in base ad una singola citazione letterale, ma da una lettura d’insieme, globale.
Gesù infatti risponde citando un altro comandamento – altrettanto “grande” ma sicuramente il “primo” e più importante – riferendosi cioè a quella “preghiera” che gli ebrei recitano due volte al giorno, al loro “Credo” ufficiale (Dt 6,4-9): “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutto il tuo essere e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti”. E fin qui va tutto bene: il dottore non può che essere d’accordo. “Amare Dio”, in fin dei conti, non è difficile, è un fatto interiore che non si può misurare dall’esterno, e che quindi nessuno può conoscere né giudicare: le autorità sono salve!
Ma il problema nasce subito dopo con quel che segue: “E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18)”. Anche questo è scritto nella Bibbia. Quindi, a rigor di logica, Gesù non dice nulla di nuovo. Ma in realtà, per come vanno le cose, sì: Gesù, infatti, condiziona l’amore per Dio all’amore per il prossimo: lega indissolubilmente i due amori. In altre parole dice: “Amare Dio senza amare veramente le persone, non serve a nulla, non è un vero amore per Dio. Pertanto, quello che voi ripetete ogni giorno (visto che lo dite), mettetelo anche voi in pratica, come faccio io!”.
Che dire? È chiaro che a questo punto il dottore si trova spiazzato: non ha parole, non immaginava che il discorso prendesse una simile piega, è sorpreso, ammutolisce: “Nessuno era in grado di rispondergli nulla; e nessuno da quel giorno in poi, osò interrogarlo” (Mt 22,46). Una bella lezione: del resto Gesù non cita chissà quale teoria, ma risponde attenendosi scrupolosamente a quanto già stabiliva la legge ebraica. E poiché si rivolge ad un ebreo, oltretutto ottimo conoscitore delle Scritture, il succo è questo: “La legge ce l’avete e la conoscete: mettetela in pratica!”
Ma per Gesù non è tutto qui: egli non si ferma all’amate “gli altri come amate voi stessi” (vecchia legge) ma va ben oltre: “amate gli altri come io vi ho amati” (nuova legge)! (Gv 13,34). La portata della legge dell’amore è molto più vasta e impegnativa; il “novum” introdotto da Cristo è addirittura rivoluzionario. Per tre motivi: prima di tutto per il nuovo concetto di “prossimo”: per un ebreo il prossimo era un altro ebreo o al massimo uno che abitava in Palestina; quelli fuori, i non ebrei, non erano considerati “prossimo”: ebbene, Gesù estende questo riconoscimento a tutta l’umanità; un altro concetto decisamente innovativo sta nell’amare il prossimo “come te stesso”: fermandoci a queste sole parole, il nostro amore non sarebbe stato perfetto: per logica infatti se io mi fossi amato poco, avrei amato poco anche gli altri; se io non mi fossi amato, non avrei amato neppure il prossimo; se non avessi ricevuto amore, non avrei potuto a mia volta darne a nessuno. Gesù stravolge questo aspetto riduttivo; in pratica dice: ama il prossimo tuo “non” come tu ami te stesso, ma come Dio ama te, “come Io vi ho amati”. Apre cioè una nuova e straordinaria prospettiva: il modo con cui dobbiamo amare il prossimo passa da quello riduttivo, il “nostro”, a quello di Dio, universale, straordinario, senza limiti. In questo modo l’amore diventa ovviamente tutta un’altra cosa! La maggior parte di noi infatti non si ama correttamente, e se amassimo il prossimo come amiamo noi stessi, finiremmo col non amare nessuno!
Infine, l’ultima novità: se la vecchia legge ebraica stabiliva che l’amore per Dio doveva coinvolgere l’uomo nella sua totalità (con il cuore, l’anima e la mente), nei confronti del prossimo ciò non era previsto; la condizione era soltanto di amarlo “come se stessi”. Cosa vuol dire? Che se per un ebreo l’amore per Dio era totale, coinvolgente, esclusivo, e quindi il primo dei doveri, quello per il prossimo veniva in second’ordine, veniva dopo, valeva meno. Gesù al contrario – cosa assolutamente rivoluzionaria - pone l’amore per Dio e per il prossimo esattamente sullo stesso piano, sono cioè entrambi esclusivi. Per Gesù amare l’uomo equivale amare Dio, e amare Dio equivale amare l’uomo. Conseguentemente l’amore per Dio non lo si misura da quanto uno è pio o religioso, da quante preghiere dice: ma da quanto amore nutre per i suoi fratelli. Per Gesù il vero credente non è colui che esegue alla lettera le prescrizioni religiose, ma colui che vive realmente l’amore, colui che compie ogni sua azione elargendo amore.

Il testo di questo vangelo ci offre inoltre altre considerazioni su cui meditare.
1. Prima di tutto cosa vuol dire la parola “amore”? Letteralmente è “dare la vita”, “togliere la morte a qualcuno” (dal latino “a” privativo e “mors”, morte). Quindi “amare” significa rendere vivo, vitale colui che amiamo. Gesù vedeva intorno a lui persone che soffrivano, che erano morti o ciechi, li guariva, li rimetteva in contatto con la vita, con la vista. E lo faceva (altro insegnamento fondamentale) non per avere un “ritorno”, una ricompensa, un beneficio: neppure in termini di fama, perché chiedeva sempre che non divulgassero la cosa, di non parlarne con nessuno; non lo faceva neppure per convertire: non diceva: “Ti guarisco ma tu devi credere in Dio; tu devi venire in chiesa; tu devi obbedirmi; tu mi devi...”. Lui vedeva semplicemente uno che soffriva, e il suo “amore” lo liberava dalla sofferenza, dal disagio.
L’amore di Gesù deve essere anche il nostro: chi ama rende vivo l’altro. Chi ama vuole il meglio per l’altro, anche se ciò gli costa fatica e sacrificio; perché talvolta ciò che è meglio per l’altro non è detto che coincida con quello che noi vorremmo fare.
2. Altra considerazione: in passato noi cristiani abbiamo spesso tradotto “Ama il prossimo tuo come te stessocon “Ama il prossimo tuo contro te stesso”, oppure” ama il prossimo tuo al posto di te stesso”. Nulla di più sbagliato. In questo modo amare se stessi, “amarsi”, era peccato, significava essere egoisti, narcisisti: bisognava soltanto spendersi per gli altri, sacrificarsi per gli altri: questa era la sola via per la santificazione. Per chi voleva intraprendere un cammino cristiano più impegnativo, gli veniva continuamente ricordata la frase: “Se uno non rinnega se stesso e non prende la sua croce...”: la nostra vita “doveva” essere pertanto impostata solo sul sacrificio, sulla penitenza, sulla totale dedizione per gli altri; solo se eravamo infelici e pieni di sventure, Dio ci avrebbe accettati. Ma questo è un’altra cosa.
Ama il prossimo tuo come te stesso” più che un comandamento, più che un invito, rappresenta una realtà, un modo di vivere, un dato di fatto: noi cioè amiamo gli altri se e come amiamo noi stessi. Il vangelo è chiarissimo in proposito: “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi” (Lc 6,37-38).
In altre parole: noi amiamo gli altri allo stesso modo con cui amiamo noi stessi; non possiamo dare più di quello che abbiamo: se ci giudichiamo, giudichiamo anche gli altri: se siamo severi con noi stessi, saremo severi anche con gli altri; se pretendiamo da noi stessi, pretenderemo anche dagli altri. “Ama il prossimo tuo come te stesso” definisce dunque una semplice verità. È un’equazione: l’amore per gli altri è proporzionale all’amore per noi stessi e viceversa: ti amo come mi amo; mi amo come ti amo.
3. Da qui un’altra considerazione: dobbiamo amare noi stessi. “Amarci” è volere il nostro bene, cioè renderci vivi; significa lottare per ciò che è bene per noi, fare in modo che la nostra persona sia retta, rispettabile e rispettata. Se gli altri ci evitano, ci ignorano, ci escludono, perché continuare ad arrabbiarci con gli altri? “Amarci” vuol dire cambiare il nostro carattere e la nostra persona: in questo modo diventeremo anche noi amabili, accettabili, ricercati. Abbiamo una paura che ci blocca: paura di provare, di sbagliare, di parlare, di giudicare, di fare una scelta, ecc.? “Amarci” è affrontarla perché noi meritiamo di vivere senza paura, in tutta la nostra pienezza, in tutte le nostre possibilità, al meglio e al massimo. Se nessuno ci considera, se nessuno nel nostro ambiente ci rivolge la parola, invece di inveire contro mondo che è cattivo, che ce l’ha con noi, lavoriamo su noi stessi: “amarci” è diventare più presentabili, è avere un carattere meno irascibile, più estroverso; “amarci” è essere più aperti con gli altri, più elastici, meno saccenti, meno giudicanti e pretenziosi; “amarci” significa insomma diventare migliori. Non si è mai visto nessuno che si ami veramente, che non sia amato a sua volta da un sacco di gente. Quindi non pretendiamo dagli altri ciò che noi non sappiamo o non vogliamo fare per noi stessi: perché è autentico parassitismo.
4. Infine dobbiamo “amare in pienezza”. Il vangelo parla di amare “con tutto il cuore, l’anima e la mente”. Altrove aggiunge “con tutte le forze (Lc 10,27). L’amore cioè implica ogni parte di noi, della nostra personalità, deve essere a tutti i livelli, altrimenti non è vero amore: amare infatti con mente e forze, senza cuore, è volontarismo, è azione, amore freddo, senza passione, manca il sentimento. Amare con mente e cuore, senza le forze, è sentimentalismo, non c’è azione. Amare cuore e forze, senza mente, diventa istintivo, irrazionale, non c’è il pensiero, non c’è consapevolezza e lucidità. L’amore pertanto è pieno, completo, perfetto, solo quando è dato con l’intera nostra persona, con tutto di noi: mente, cuore e forze. Solo amando il prossimo in questo modo, lo ameremo come Gesù ci ha insegnato, come Lui stesso ci ha amati: senza condizioni, senza pensare a ricompense, senza pretendere meriti. Amen.
 

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