giovedì 11 dicembre 2014

14 Dicembre 2014 – III Domenica di Avvento – Anno B

«Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui». (Gv 1,6-8.19-28)
Siamo alla terza domenica di avvento, la domenica “Gaudete”: rallegriamoci, perché il Natale, la venuta di Gesù nei nostri cuori, è vicino.
Il vangelo ci ripropone anche oggi la figura del Battista. Ma questa volta è l’evangelista Giovanni che ce ne parla: non è, come negli altri vangeli, l’asceta o il profeta duro che annuncia la distruzione se gli uomini non si convertono. Qui è il testimone. Il Battista in Giovanni è semplicemente una indicazione, uno strumento che dice: “Non guardate me, guardate più in là, guardate oltre me, guardate ciò che sta dentro me”. Non dice chi verrà o come verrà. Dice solo “Preparate la via... verrà uno che non conoscete... io di fronte a lui sono niente”.
Ebbene: questa è l’essenza dell’avvento. Il Battista sente che qualcosa deve avvenire, attende, aspetta. Sente che sta arrivando qualcosa, ma non sa cosa.
Attendere vuol dire aspettarsi qualcosa di nuovo, di diverso, di insolito. Ma dobbiamo rimanere sorpresi, perché se conosciamo già tutto, se tutto è già scritto, che Natale è? Che avvento è? Prepararsi vuol dire: “Acconsentiamo che ci succeda qualcosa di cui non possiamo disporre, che non possiamo controllare, che non possiamo gestire. Permettiamo che la vita ci faccia delle sorprese”.
Noi invece siamo portati a controllare tutto. Noi pianifichiamo tutto. Vogliamo gestire tutto, o per lo meno ci proviamo. Ma Dio è l’ingestibile, perché Dio è il sempre nuovo, è il più grande, è l’oltre, il più in là. Se Dio non ci sorprende, non è Dio. Se Dio non ci spiazza, non è Dio. Se Dio non ci schiaffeggia svegliandoci dal nostro torpore e rendendoci consapevoli di certe cose, non è Dio.
Nel vangelo c’è una grande domanda rivolta al Battista: “Chi sei tu?”. E Giovanni inizia col dire chi effettivamente non è. “Non sono Elia, né Cristo, né un profeta”.
È importante rifiutare tutti i ruoli che gli altri ci appiccicano addosso, tutte le etichette che ci mettono; è importante dire agli altri: “No, non sono come voi pensate”.
Ma noi in realtà chi siamo? Siamo uomini, è vero; siamo buoni, ok. Ma è troppo poco. Ci sono milioni di uomini buoni. Siamo dei papà, delle mamme: sì, va bene, ma anche di papà e di mamme ce ne sono milioni. Siamo un marito, una moglie, bravi cristiani, lavoratori; siamo dipendenti, professionisti, artigiani, commercianti. Sì è tutto vero, ma è sempre troppo poco. Perché questo è il ruolo che abbiamo, è il vestito che indossiamo; ma dentro di noi chi siamo?
Il ruolo è un vestito. È buono per andare a lavorare, per andare a scuola, a teatro, al cinema, alle feste. Ma poi quando siamo soli con noi stessi, quando andiamo a letto, quando vogliamo stare in libertà, quando ci va di fare qualcosa al di fuori del nostro ruolo, il vestito ce lo togliamo, perché rappresenta il nostro contenitore, il nostro esteriore, una parte della nostra vita, quella a contatto con gli altri.
Purtroppo molti di noi si sono vestiti di un ruolo e vivono sempre e solo quello. Certo, recitare sempre il solito ruolo ci rassicura: lo conosciamo, ci viene bene, è facile, ma ci limita inevitabilmente la vita, ci fa vivere a metà.
Ci sono dei ruoli, inoltre, che non vanno sempre bene. Ad esempio c’è il simpaticone: essere simpatici va bene, ma nella vita non si può scherzare sempre. C’è l’altruista: essere generosi, dare sempre, va bene, ma a volte dobbiamo ricaricarci, dobbiamo ricevere anche noi. C’è il critico: essere critici va bene, ma non possiamo aver sempre da ridire su tutto, essere perennemente il “bastian contrario”. C’è il “capo” che continua a fare il capo dappertutto, a casa, con gli amici, con la moglie con i figli, è sempre autoritario con tutti. C’è il professore, che fa il professore, il saputello dappertutto, si sente superiore agli altri: ma così diventa pesante, insopportabile. E poi c’è chi fa il perfetto, quello che non sbaglia mai; c’è il timido; c’è quello che è convinto di avere tutto in pugno, ecc.
Se lo viviamo così, il ruolo ci ingabbia, ne diventiamo schiavi e, invece di aiutarci a vivere, ci imprigiona. Purtroppo in molte persone è venuta a mancare la “persona” ed è rimasto solo il ruolo. Se togliessimo il vestito, il ruolo, sotto il vestito non troveremmo nulla, il vuoto assoluto.
Per cui la grande domanda che dobbiamo porci è: “Al di là di tutti i ruoli, i vestiti, chi siamo noi? Chi siamo noi dentro, in profondità, nell’intimo della nostra anima?” Questa è la grande domanda. In altre parole: “Cos’è, che ci rende unici, irripetibili, diversi, da tutti gli altri? Cos’è che ci rende insostituibili?” Perché se non lo troviamo vuol dire che noi, o un altro, è la stessa cosa; vuol dire che non siamo importanti, che di gente come noi ce n’è in abbondanza; vuol dire che siamo uno dei tanti, un doppione, una fotocopia: come se la vita facesse fotocopie! Ma se siamo uguali, identici in tutto agli altri, che senso profondo può avere la nostra vita?
La prima cosa da fare, pertanto, è fare pulizia, liberarci da ciò che non siamo. La grande scelta, come per il Battista, è non accettare di essere gli altri: “No, non sono questo! Io sono io; io sono diverso; io sono Giovanni il Battista, non sono Elia, né il Cristo né un Profeta”.
Riconoscere ciò che non siamo, anche se la gente lo vorrebbe, toglierci le maschere, le definizioni, le aspettative che gli altri ci hanno incollato addosso, è sempre molto faticoso e doloroso. Ma solo se iniziamo a spogliarci di ciò che non è nostro, solo se ci scrolliamo il ruolo di dosso, piano piano emergerà chi siamo veramente. E ne varrà la pena!
Giovanni Battista ha trovato il motivo per cui vivere, per cui è stato creato, ciò che dà senso alla sua vita. Lui deve dire a tutti: “State attenti, preparate la via al Signore, non dormite, non sonnecchiate, il Signore vi passa vicino, non lasciatevelo scappare. Dio c’è, ma se avete gli occhi chiusi non lo vedrete”. Egli è voce di qualcun altro, è strumento, mezzo. Questo è il primo compito di ogni uomo: dar voce all’infinito, a Dio, all’oltre, alla forza che lo abita, ma che non gli appartiene. “Dai voce a ciò che hai dentro!”.
Lui dà, presta la voce, ma le parole sono di un altro: testimonia la luce, illumina, ma non è la Luce; è come la luna che riflette, ma non è da lei che viene la luce; la luce viene dal sole.
L’uomo è chiamato a testimoniare il di più che si porta dentro. Questo è il primo servizio che dobbiamo a Dio. Essere strumenti vuol dire proprio questo: permettere che Dio scelga, utilizzi noi per suonare la sua musica, la sua sinfonia. Non siamo noi che suoniamo. È Lui che suona in noi: non siamo noi la musica, non ci appartiene. Siamo solo gli strumenti. Noi siamo l’onda, Lui è il mare. Noi siamo i raggi, Lui è il sole.
Questa è la grande chiamata di ciascuno di noi. Noi viviamo, ma la vita non è nostra. Noi siamo padri, madri, ma la paternità o la maternità non è nostra. Non la possediamo. Noi siamo veri, ma la verità non viene da noi. Noi diventiamo liberi, ma non siamo la libertà. Noi danziamo, ma non siamo la danza. Noi facciamo esperienza di Dio, lo sentiamo, ma non siamo Dio. Noi abbiamo un’anima, ma non siamo l’Anima. Noi viviamo e operiamo, ma non siamo il soggetto. Il soggetto è sempre e solo Dio. Il grande male dell’uomo è sentirsi proprietario delle cose e delle persone. Le sente sue, ma non lo sono. Siamo gli amministratori delle cose, non i proprietari.
Nel vangelo c’è infine una frase forte: “In mezzo a voi c’è uno che non conoscete”. Meglio: “uno che voi non volete conoscere”. I Giudei, i farisei hanno scelto deliberatamente, coscientemente, di non conoscere Gesù, Colui che viene. È chiaro, allora, che qualunque cosa Lui farà o dirà non potrà in nessun modo cambiare la loro decisione. Chi non vuol credere non crederà.
Giovanni Battista urla, scuote, grida, strattona: ma non serve. Se noi abbiamo deciso dentro di noi che non ci interessa, niente ci può convertire. Se abbiamo deciso dentro di noi che Natale è il 25 dicembre, il pranzo e la messa (una volta all’anno ci può stare!), niente può cambiare. Se abbiamo deciso che Dio è un corollario della nostra vita, un apparato periferico, nessuna predica ci può scalfire. Se abbiamo deciso che non vogliamo metterci in gioco, la vita non avrà più niente da insegnarci.
C’è ancora chi rimane stupito delle chiese piene la notte o il giorno di Natale. Non facciamoci illusioni: molte persone ci saranno anche, ma dentro di loro, nel segreto del loro cuore continueranno a dire: “Non ci interessi, non sappiamo che farcene di te”.
Ebbene, ascoltiamo la “Voce”, spianiamo una buona volta quella strada che dal nostro cuore porta al cuore di Dio. Prepariamo in noi la venuta della “Parola” che è Cristo, perché dia senso alla nostra “voce”. Perché solo in Cristo, Parola eterna di Dio, possiamo trovare il nostro vero senso, il significato autentico della nostra vita. Amen.
 

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