giovedì 22 gennaio 2015

25 Gennaio 2015 – III Domenica del Tempo Ordinario

«Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,14-20).

Dopo che Giovanni fu arrestato”. Marco ci sottolinea nel vangelo di oggi che Gesù inizia la sua attività dopo che il Battista è stato carcerato, è stato messo a tacere dalle autorità. Un potere piuttosto stupido, poiché pensa di far tacere con la prigione la voce di un profeta, senza preoccuparsi che poi, ogni volta, Dio suscita subito un'altra voce ancora più forte e potente. Puntualmente infatti, dopo che Giovanni Battista è stato zittito e tutto sembrava risolto, ecco che Gesù, il Figlio di Dio, con voce ancor più autorevole e incisiva, inizia a predicare il suo “vangelo”, la sua “buona notizia”.
In che cosa consiste questa buona notizia? Che non solo Dio è buono, ma è un Dio esclusivamente buono, un Dio dal cui amore nessuno può sentirsi escluso, qualunque sia la sua condotta, la sua vita, il suo comportamento.
Lo stesso Pietro, dopo la sua tormentata conversione, giungerà alla conclusione che “nessun uomo può essere considerato impuro(At 10,38). Noi siamo abituati a sentire le religione che dividono gli uomini tra buoni e cattivi, tra puri e impuri, tra meritevoli e non. Ma il Dio di Gesù, no. Per Dio non c'è nessuna persona al mondo che possa essere esclusa dal suo amore: è questa la buona notizia che l'umanità aspettava. L'Amore di Dio è a disposizione di tutti gli uomini, è più grande di qualunque errore umano, in quanto li comprende e li perdona tutti. Scrive infatti Giovanni l’evangelista: “Qualunque cosa il nostro cuore ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore(1Gv 3,30).
Gesù dunque inizia la sua attività missionaria e dice: “Il tempo è compiuto”. Ma di quale tempo parla? Del tempo riservato all’uomo: all’epoca dei patriarchi Dio aveva infatti stipulato un patto con il suo popolo, ratificato con Mosè mediante la consegna delle sue leggi: e questo popolo, osservandole, doveva condurre un tenore di vita tale che, attraverso la loro testimonianza, gli altri popoli avrebbero dovuto riconoscere che il Dio di Israele era il più grande.
Ma ciò non si è verificato: anzi l'ingiustizia stessa veniva esercitata in nome di Dio. Un fatto intollerabile, insopportabile. Un fatto che costringerà Gesù ad esclamare: “Il tempo è compiuto”. Basta: il tempo è finito. Il tempo dell’infedeltà, dell’arroganza, dell’imbroglio, del sotterfugio è finalmente scaduto.
È necessario mettere un punto fermo. Noi stessi, per quanto ci riguarda, anche se è difficile, dobbiamo aver il coraggio di dire: “Questo mio modo di comportarmi è finito; devo chiudere questo periodo della mia vita”. Inutile illudersi, inutile insistere o attaccarsi all'impossibile. Se una cosa deve essere finita, dobbiamo finirla. Se un'esperienza non è buona o è di intralcio, è inutile pensare di continuarla. Se ci siamo fatti un'opinione falsa, dobbiamo cambiarla. Altrimenti diventiamo bugiardi, viviamo nella menzogna, nel compromesso. Se abbiamo chiuso un periodo negativo della nostra vita, è inutile ricordare e rimpiangere quei tempi. Non era vita. La vita è oggi, è ora; l’ieri è passato definitivamente. Se una porta è chiusa, non ha senso continuare a bussare. Essere uomini e donne vivi, vuol dire nascere e morire, aprire e chiudere, accendere e spegnere: quando la situazione lo richiede. Anche se sé difficile, anche se ci costa.
Perché, come annuncia Gesù: “Il regno di Dio è vicino”.
Il termine “regno”, per un ebreo, era un termine tristemente famoso, evocava un’esperienza decisamente spiacevole. Israele infatti aveva voluto caparbiamente la monarchia e il re. Tutti i profeti erano contrari, ma il popolo volle comunque essere “regno”. I profeti volevano che fosse Dio stesso a regnare (il regno di Dio) ma il popolo volle a tutti i costi un uomo, un “vero re” come le altre nazioni più forti. Inutili risultarono gli avvertimenti del profeta Samuele: “Guardate che il re prenderà i vostri figli per la guerra e li farà morire in battaglia; prenderà le vostre figlie per farle donne di corte e sue concubine; prenderà i vostri terreni e i vostri prodotti migliori; prenderà i lavoratori delle vostre terre e li farà suoi schiavi; vi caricherà di tasse e balzelli, ecc., e voi griderete contro quel re, contro quel re che voi avete voluto ad ogni costo” (Cfr. 1Sam 8,11-18). Nonostante tutto, il popolo volle il suo re. E venne il re. E fu subito un'esperienza disastrosa; la monarchia scatenò la più grande tragedia di questo popolo. I re furono uno peggio dell'altro: causarono la scissione, la divisione, l'occupazione e la deportazione.
Tutto questa delusione, tutta questa frustrazione, aveva però fatto germogliare una nuova speranza, l'attesa di un nuovo “regno” in cui Dio stesso avrebbe assunto il comando supremo e universale. Quindi quando Gesù parla annunciando l’imminente arrivo del regno di Dio, il popolo non capisce, non pensa ad un regno spirituale, dell'aldilà, come intendeva Gesù, ma pensa ad un regno materiale, nell'aldiquà, su questa terra, quello che intere generazioni stanno aspettando, quel regno in cui sarà Dio stesso a governare il suo popolo.
Finalmente il popolo sente un predicatore che annuncia l’imminenza di questo “regno” tanto atteso: “Il regno di Dio è vicino: convertitevi”. Ma perché Gesù dice “il regno è vicino” piuttosto che esclamare “il regno di Dio è già qui”? E poi, perché per entrare in questo regno Egli richiede una “conversione”? Che novità è questa? Anche perché Gesù non intende qui, con il termine “conversione”, un semplice “tornare indietro”, cioè un “tornare al Signore” dopo tanto tempo di lontananza. Qui egli parla di “metanoia”, di una “conversione” cioè che consiste in qualcosa di molto più impegnativo, in un qualcosa che comporta un “radicale cambiamento” di pensieri, di comportamenti, di vita ecc.”. Per entrare nel regno di Dio cioè dobbiamo metterci in un cambiamento totale e continuo, in un costante progresso nella perfezione, insomma, in una incessante, approfondita, “conversione”. Convertirsi infatti significa sbloccarsi, affrancarsi dalle proprie convinzioni, emanciparsi dalle proprie vedute. Non dobbiamo fossilizzarci mai sui nostri traguardi: perché non arriveremo mai a conoscere Dio completamente: Dio, la Vita, è sempre più grande, è sempre più “oltre”: per raggiungerne una pallida immagine, dobbiamo continuare a progredire, ad andare avanti, con coraggio e perseveranza. Quante volte, durante la nostra vita, in diverse situazioni, abbiamo pensato di aver finalmente trovato Dio: ma poi abbiamo scoperto che quel nostro “Dio” non era Dio; ogni volta abbiamo dovuto constatare che il “nostro” Dio coincideva con il nostro egoismo latente. Tante volte. Troppe volte. Al punto che oggi stesso non abbiamo la certezza se ciò che chiamiamo “Dio” sia veramente Dio, il Dio di Gesù, oppure un riflesso della nostra smisurata autoreferenzialità. La vita è così, piena di insidie: ecco perché dobbiamo continuamente rettificarne i parametri, dobbiamo cambiare, crescere, divenire, evolvere nella sequela, in una parola dobbiamo essere “vivi”, idonei ad entrare nel regno. Nell'acqua che scorre c'è la vita che si rinnova; nell'acqua ferma, stagnante, c’è solo la morte, la decomposizione delle cellule vitali, la putrefazione.
Il tempo è compiuto, il regno è vicino” per noi vuol dire anche: “Vivi adesso, convertiti ora, in questo momento, perché il tempo che avevi a disposizione, è finito”.
Il fattore tempo: quanto è aleatorio! Noi programmiamo la nostra vita solo sul divenire: “Quando sarò grande, quando avrò tempo, quando le cose cambieranno, quando i figli saranno grandi, quando avrò meno impegni, quando starò meglio”.
E non vogliamo capire che la vita è adesso, è ora, in questo momento, non domani. Il presente è fuggente, è fatto di istanti che dal futuro passano irrevocabilmente al passato. Non fare oggi una cosa, significa rimandarla anche domani: se non sentiamo il desiderio, la necessità oggi, come potremo sentirli domani?”. Ecco perché dobbiamo vivere adesso, dobbiamo vivere ora, qui, in questo istante. C’è un problema da risolvere? Facciamolo ora; domani sarà ancora più grande. Abbiamo una rabbia repressa, un mostro, uno scheletro da tirar fuori? Facciamolo ora, domani può essere troppo tardi. Dobbiamo fare un cambiamento radicale? Facciamolo adesso perché il tempo è solo “ora”. Domani potrebbe essere “mai”. Abbiamo da ringraziare chi ci ama, chi ci sostiene, chi ci sopporta? Facciamolo ora, perché così il nostro cuore si sentirà subito doppiamente amato. Abbiamo del pianto trattenuto? Liberiamo il nostro cuore dall'oppressione e dalla tensione: piangiamo! Dobbiamo dire un “no” o un “si” difficile? Facciamolo adesso, subito, e ci sentiremo finalmente liberi.
Sì, perché ogni volta che rimandiamo ciò che dobbiamo fare, puntualmente una voce arriva alla nostra coscienza: “Non vali niente. Non lo fai perché hai paura. Sei un incapace!”. Guai a farsi coinvolgere in questa spirale perversa del rimandare una cosa e del rimorso per non averla fatta: l’esperienza ci insegna che se oggi non facciamo nulla, sicuramente domani faremo ancora meno. Scrolliamoci di dosso l’apatia del nulla facente: fare ora, fare adesso, fare subito, significa “essere presenti al presente, significa vivere!”.
Poi Gesù, ci dice Marco nel vangelo di oggi, proseguendo nel suo cammino, sceglie i suoi discepoli, un gruppo di dodici uomini, ai quali promette: “Vi farò diventare pescatori di uomini”.
Cosa vuol dire esattamente Gesù? Per gli ebrei il mare era il caos, l'abisso, l'orrore del mondo, il male. Per cui diventare “pescatori” significava diventare persone che “pescavano” che “tiravano fuori dal loro ambiente”, persone cioè che liberavano la gente dal potere del male, dal potere di satana, dalle malattie, dai demoni, dalle infermità del corpo, della mente e dell'anima. In che modo? Facendo esattamente quello che faceva Gesù. Cose semplici: soprattutto dispensare amore, tenerezza, accoglienza, emozioni forti, passione, libertà, fiducia: un metodo elementare, di sicuro effetto in quanto basato esclusivamente sull’amore; un metodo che poi, se ne renderanno conto, funzionerà alla perfezione: perché i lebbrosi, i morti, i ciechi, gli esclusi, i peccatori, i bloccati, guariranno sul serio, sia fuori che dentro. Erano morti, sprofondati nel mare dell’abisso, della malattia, della disperazione e loro li hanno incredibilmente pescati alla vita, li hanno salvati: e questa è decisamente la buona notizia (=vangelo) che sono chiamati a diffondere nel mondo!
Gesù non fu un politico, non fu un medico, né uno psicologo: fu solo un guaritore. Di corpi e di anime. E guarì sul serio! E quello che fece Lui lo fecero anche gli apostoli; e dopo di loro, tanti altri uomini pieni di fiducia e di amore.
Oggi purtroppo noi che siamo Chiesa abbiamo dimenticato questa missione: siamo diventati cerebrali, freddi, non sappiamo più guarire. Ma una Chiesa che non “guarisce”, che non salva gli uomini per questa vita, come può pensare di poterli salvarli per l'altra? Ecco perché dobbiamo tornare al metodo di Gesù, al metodo dell'amore. Gesù guardava le persone e le amava col cuore, con l'anima: il suo era un amore che raggiungeva i malati ed essi guarivano. Egli fu il più grande terapeuta: la sua unica terapia era l'amore. Un amore concreto: fatto di accoglienza, di ascolto, di empatia, di emozioni, di pianto, di gioia, di fiducia nell'altro. Oggi l’uomo ha bisogno soprattutto di tornare a sentire, di percepire questo amore di Dio, questo amore che risana l’anima, che trasforma il cuore. Noi per primi abbiamo bisogno di questo. La Chiesa ha bisogno di questo. Perché il suo è l’amore che guarisce. È l’amore che salva. Amen.
 

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