mercoledì 19 agosto 2015

23 Agosto 2015 – XXI Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo [le sue parole], disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono» (Gv 6,60-69).

Se uno rimane in superficie, le parole sono soltanto parole, le cose soltanto cose. La vita solo un susseguirsi di giorni tra fatiche e gioie. Ma se entriamo dentro alla vita, ci accorgiamo che mentre scorre, lei ci educa, ci fa crescere, ci insegna ciò che è necessario imparare.
Se rimaniamo fuori, se viviamo all’esterno, la nostra vita non ha senso: non ne siamo coinvolti, siamo qui solo perché un giorno siamo nati, siamo cresciuti, e visto che c’eravamo, tanto valeva vivere. Ma se entriamo dentro, improvvisamente scopriamo che non è così: scopriamo che vivere ha uno scopo, un fine, ben preciso; è Lui, la Vita stessa, che ci vuole, abbiamo da vivere un qualcosa di speciale, abbiamo da percorrere una strada, da rispondere ad una chiamata. Ma per chi vive “fuori” queste sono tutte fantasticherie: la malattia? l’incidente? la sventura? Sono solo la sfortuna che ci è caduta addosso. Poteva cadere addosso ad altri, invece è caduta addosso a noi. Questo ovviamente se non vogliamo vedere, se vogliamo raccontarcela, se vogliamo scaricare la responsabilità delle cose sul fato, sul destino, sulle casualità della vita. Ma non è così. Tutto ciò che ci succede ha un senso profondo, molto profondo. Del resto se Dio non parla a ciascuno di noi attraverso la vita, attraverso cos’altro potrebbe parlarci?
Dunque: Giovanni nel vangelo di oggi ci propone la reazione immediatamente successiva alle parole sconvolgenti di Gesù di domenica scorsa:“Io sono il pane vivo e se uno non mangia di questo pane non avrà la vita... Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui”. In molti, quelli che si erano fermati “in superficie”, se ne erano già andati. In troppi erano infatti così sconnessi, così scollegati da loro stessi, dalla loro interiorità, dalle emozioni, dalla realtà, che mai sarebbero stati in grado di capire, di entrare dentro a tali concetti: “Mangiare la carne di un uomo? ma cosa dice costui?” Parole effettivamente astruse per chi non entra; parole di Dio per chi entra. Parole stupide e senza senso per chi è morto dentro; parole di vita eterna per chi vive. In ogni caso parole difficili.
Anche i discepoli, pur avendo capito il senso del discorso, gli dicono: “Gesù, questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?”. Cioè chi può capirlo, seguirlo, dargli retta, metterlo in pratica?
E Gesù di rimando: “È vero. Ma dovete capire che se vi limitate ad applaudirmi, a dirmi che parlo bene, il vostro seguirmi non serve a niente! L’unica cosa che conta è che dovete cambiare vita! Queste belle parole, come dite voi, non servono a nulla se rimangono solo parole; sono un niente se non diventano la vostra vita, la vostra carne, il vostro sangue”.
Parole che non hanno bisogno di chiarimenti. Ma, a questo punto, si impone una domanda seria: “Perché noi che andiamo sempre a Messa non cambiamo mai? Perché preghiamo tanto e siamo sempre gli stessi? Perché abbiamo paura di guardarci dentro? Perché non vogliamo farci aiutare? Perché accettiamo soltanto ciò che coincide con il nostro pensiero e la nostra volontà?”.
Beh, la nostra risposta è sempre la stessa, come pure le nostre inutili giustificazioni. Non servono a nulla i soliti “vorrei ma non posso”, “mi piacerebbe ma non ci riesco”, “ci provo sempre, ma è più forte di me”! Siamo sinceri e onesti con noi stessi una buona volta: guardiamo ai fatti: se in noi non cambia mai nulla, vuol dire che i nostri propositi sono solo parole, sono un fuocherello di paglia che si esaurisce all’istante. Se Gesù non diventa la nostra carne e il nostro sangue, vuol dire che le sue parole, le nostre convinzioni, non ci toccano, non ci scalfiscono, non ci sconvolgono, non ci entrano dentro.
La parola “duro”, in greco “scleros”, indica proprio che le espressioni di Gesù sono qui di una durezza particolare, di un’asprezza e di una ruvidità tremende. Gesù è una mano che ci accarezza e che ci coccola, è vero. Ma in certi giorni è anche una sberla che ci scuote e che ci butta per terra. In altri è addirittura un pugno che ci stordisce, che fa male e che lascia i lividi. Molte pagine del vangelo ce lo confermano.
Per esempio al giovane ricco che voleva seguirlo, dice: “Quello che hai fatto è buono, ma adesso va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri; soltanto dopo, vieni e seguimi” (Mt 19,16-22). Quel ragazzo di famiglia ricca si era comportato sempre bene (osservava tutti i comandamenti!), ma Gesù gli chiede molto di più! Non gli chiede qualcosa in più, gli chiede tutto. A quell’altro che gli chiedeva il permesso di seppellire il proprio padre, prima di seguirlo, dice: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti (lascia cioè che i morti stiano con i morti)” (Lc 9,59-60). Egli, la Vita, non vuole legami con la morte; vuole solo discepoli in esclusiva, solo uomini “innamorati della sua causa”, completamente ed esclusivamente dediti al regno. Anche con un altro, deciso a seguirlo, ma che gli chiede di salutare prima quelli di casa, Gesù è durissimo: “No! Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,61-62).
Molta gente va in chiesa, ed è contenta di andarci, perché poi “si sente bene”. Molte persone pregano e pregano molto. Molte persone pensano spesso a Dio ed esprimono dei pensieri religiosi molto profondi. Ma Gesù non sa che farsene di queste cose belle, se poi le “sue parole” non si trasformano concretamente in vita vissuta. Abbiamo visto che su questo è molto chiaro, addirittura duro: “Siete sempre gli stessi: perché continuate a venire qui? Se mi amaste, vi trasformereste. Se non lo fate, continuerete a vivere di “chiacchiere”, di bei paroloni su Dio; le vostre liturgie saranno sempre dei pii teatrini, senza alcuna fede”.
Gesù tocca qui un punto nevralgico: una risposta coerente, che sia all’altezza dell’impegno cristiano richiesto da Gesù, purtroppo, si è sempre nei secoli rivelata tragica: “Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui” (Gv 6,66).
Anche noi, come i discepoli superficiali, e forse più di loro, viviamo di apparenza. Dobbiamo renderci conto che la fede non è lo scuotimento delle corone del rosario, non è fare elemosine importanti, non è partecipare a tutti i gruppi di spiritualità possibili, non è un “bla, bla, bla”; “avere fede”, al contrario, comporta un cambiamento radicale del nostro carattere, del nostro modo di sentire (cuore), dei nostri pensieri (mente), del nostro progetto di vita (anima), dell’intera nostra personalità. E, una volta “cambiati”, una volta diventati autentici e coerenti annunciatori del regno, spetta a noi promuovere il cambiamento della società, dell’intero mondo che gira intorno a noi: perché noi siamo la società, noi siamo il mondo.
Ecco perché se il vangelo non diventa la nostra vita (carne e sangue) è semplicemente inutile. È solo un bel raccontino, piacevole da leggere e da ascoltare.
Dobbiamo essere decisi. Non facciamo come quei pochi discepoli rimasti vicini a Gesù, che erano scossi, tentennanti, dubbiosi: per non sentirci ripetere, senza troppi giri di parole, la stessa domanda: “Volete andarvene anche voi?” (6,67). Che in pratica sarebbe: “Amici miei, io vi amo e vi voglio bene. Ma ciò che Io ho dentro (Dio) è ben più importante di voi. Spero che condividerete il mio cammino con la mia stessa passione. Ma se non sarà così, sappiate che io continuerò per la mia strada: non posso tradire la mia missione; e sappiate anche che per farvi rimanere non addolcirò per nulla il mio invito a seguirmi. Se rimarrete sarò contento, ma voi siete liberi. Fate la vostra scelta: io ho già deciso, ora tocca a voi”.
La nostra cultura ci predica: “Meglio andare più adagio, comodamente, per stare tutti insieme”. Ma questa non è la logica di Gesù! Egli ama tutti, ma non tutti lo amano al punto di seguirlo come lui vuole, poiché Lui è esigente e radicale. Chi dipende troppo dalle cose, dal giudizio della gente, dalla paura di perdere la faccia o di rischiare, chi ha troppo da difendere (idee, soldi, stato sociale, principi religiosi) non può seguirlo.
Per seguire e amare Gesù, bisogna sapere cosa Egli dà e cosa chiede: dà vita, forza, profondità, evoluzione, cambiamento, una nuova visione della vita e soprattutto una forza e una fiducia incrollabili. Ma chiede autonomia, coraggio, motivazione, umiltà, disponibilità a cambiare e a perdere tutto per Lui (casa, onore, idee, certezze, convinzioni, appigli, difese). Ecco perché Gesù non chiede a nessuno di seguirlo, se non ne è intimamente convinto (“Se vuoi…”).
Un messaggio radicale non può mai essere seguito da una folla di persone, proprio perché è radicale. E Gesù, tra una moltitudine al suo seguito, una massa di gente, e la radicalità, non ebbe dubbi: scelse la radicalità, a costo di rimanere solo. Più una proposta è forte, radicale, e più è destinata a pochi.
“Volete andarvene anche voi?”. Gesù non ebbe mai paura di rimanere solo. Anche se circondato continuamente da tanta gente, egli era comunque solo: “Diffidava di loro” (Gv 2,24). Quando infatti, nel massimo della sua solitudine, Egli cerca un po’ di conforto dai suoi amici, li trova addirittura addormentati: “Simone dormi? Non hai avuto la forza di vegliare un’ora sola?” (Mc 14,37). E nell’ora del disastro, quando lo arrestano, tutti scappano e lo lasciano solo, agnello in mezzo ai lupi: “Abbandonatolo, fuggirono tutti” (Mc 14,50). E anche sul Golgota, al momento della sua morte, Gesù è nella solitudine più totale: non c’è nessuno con Lui. Solo alcune donne stanno ad osservare da lontano (Mc 15,40).
Nella nostra vita ci sono delle scelte che possiamo affrontare con l’aiuto e la collaborazione di altri; ma ci sono dei momenti in cui dobbiamo agire nella più assoluta solitudine. Per esempio le scelte che riguardano la nostra vita, sono solo nostre: possiamo parlarne, chiedere consiglio, ma nessuno può sostituirci, nessuno può vivere la nostra vita al posto nostro. I fantasmi, le paure, i dolori, le ferite che la riguardano, sono solo cosa nostra: gli altri hanno già le loro. Dobbiamo imparare noi a conviverci, a far loro compagnia, a conoscerle, a capirle.
In altre parole dobbiamo imparare a stare soli con noi stessi. Siamo noi gli unici, veri amici di noi stessi, nessuno potrà mai arrogarsi tale titolo. Ci sono dei momenti fondamentali in cui la solitudine ci viene imposta dal normale corso della vita: vivere e morire, per esempio, sono un passaggio che obbligatoriamente dobbiamo affrontare da soli.
Solitudine significa però anche autonomia. Possiamo stare soli con noi stessi, se non dipendiamo dagli altri, se per essere felici abbiamo bisogno degli altri. Le persone insicure sono terrorizzate dalla solitudine: non perché amano stare con gli altri, ma perché non possono stare senza gli altri, perché non sanno stare con loro stesse. Perché quando siamo soli emergono i mostri, le paure, i fantasmi che abitano dentro di noi. È allora che tutto ciò che abbiamo sepolto, che abbiamo nascosto, che non vogliamo ascoltare e vedere, pian piano emerge e ci fa paura. È allora che ci appare nitida la nostra situazione reale, e sempre allora ci accorgiamo di quanto abbiamo fatto per fuggire da Lui e da noi stessi. Il più grande dramma della vita è rinunciare alla propria missione per paura di rimanere soli, di non essere capiti, di essere giudicati. Ma questo è inevitabile: la vita che viviamo è solo nostra, con le sue gioie e i suoi dolori; noi e nessun altro deve percorrerla fino in fondo! Con chi fare questo cammino, spetta sempre e solo a noi.
Gesù infatti guardandoci in faccia può ripetere anche a noi come ai discepoli: “Io ho la mia strada. Non volete venire con me? Pazienza! Io devo andare”. E noi, con lo stesso impulso generoso di Pietro, diciamogli: “Ma, Signore, dove vuoi che andiamo? Tu sei la Vita, Tu solo hai parole di vita eterna!”. Amen.
 

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