giovedì 24 settembre 2015

27 Settembre 2015 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

«Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo, e venga gettato nel mare» (Mc 9,42).

 Il vangelo di oggi ci mette di fronte ad un vero e proprio “peccato” della prima comunità cristiana: la presunzione cioè di possedere in esclusiva la verità, la perfezione e tutte le facoltà soprannaturali; in pratica: “Gesù è nostro!... noi abbiamo la vera sapienza... solo noi possiamo”. Una forma di devianza che conferma come i discepoli ragionassero sempre con la stessa bacata mentalità: la stessa di quando, domenica scorsa, litigavano tra loro su chi doveva essere il più grande, in quel nuovo regno di Gesù che essi si ostinavano a vedere solo come soluzione politica.
Il peccato più grande di questo gruppo era dunque la convinzione di avere il monopolio esclusivo su Gesù e i suoi insegnamenti, come se fossero i padroni della persona stessa di Gesù. Ma Gesù non è di nessuno; è di tutti. Non è di nessuno perché Lui è un uomo libero.
Fino a pochi anni fa si diceva: “Extra ecclesiam nulla salus”: fuori dalla chiesa non c’è salvezza. Cioè: solo noi abbiamo Dio e la salvezza. Ma il vangelo di oggi non dice affatto così. Dice: “Chi fa il bene, di dovunque sia, viene da Dio”. Una falsa certezza, quella di allora, che ha contribuito a innescare un fenomeno intramontabile, un fenomeno peraltro negativo sia ieri che oggi: quello della invidiosa competizione.
I discepoli vedono dunque uno che scaccia i demoni, dimostrando di essere molto più bravo di loro, e pensano: “Come è possibile che uno qualunque, un uomo della strada, riesca a fare quello che noi, i seguaci più stretti di Gesù, e quindi gli unici abilitati, non riusciamo ancora a fare? Vuol forse dimostrare a tutti che noi non valiamo nulla?”. Una constatazione che li mette in serio imbarazzo, li fa sentire in uno stato di netta inferiorità: non li sfiora neppure il pensiero che, se non riescono a farlo, dipende soltanto da loro, in quanto non sono liberi. Nessuno infatti può scacciare i demoni degli altri, se prima non sa scacciare i suoi. Nessuno può guarire un altro se prima non è capace di farlo con se stesso. Non si può dare agli altri ciò che non si ha. Non si può fare agli altri ciò che non si è in grado di fare a se stessi. Come possiamo amare, se non sappiamo amare noi stessi, non sappiamo difenderci, non sappiamo avere cura di noi, stimarci, volerci bene, valorizzarci, migliorarci, accettarci insomma per quello che siamo? Come possiamo insegnare “Dio” agli altri, se noi stessi non lo conosciamo? Se non lo sperimentiamo, se non ci lasciamo trasformare da Lui, se non lo seguiamo? Come possiamo perdonare gli altri se nel nostro cuore non conosciamo cos’è il perdono?
Tutte considerazioni che i discepoli non fanno: per cui decidono su due piedi di annullare il loro senso di inferiorità, eliminando colui che ne è stato la causa scatenante; si lasciano cioè trascinare in quella che è la forma più insana della competizione, quella più negativa, che consiste nella eliminazione dell’avversario: “Visto che tu, a differenza di noi, sei così bravo, riesci in tutto, sei brillante, hai successo, ecc., noi troviamo subito una buona scusa per metterti a tacere: ti giudichiamo, ti mettiamo in cattiva luce, ti mettiamo tutti contro; in pratica ti distruggiamo moralmente e fisicamente”.
Nonostante tutto, però, la competizione è in sé una cosa buona, positiva, perché risponde al bisogno naturale di affermarsi, di arrivare primi, di essere i vincitori; è il desiderio innato di trovare il nostro spazio, il nostro posto, la nostra realizzazione; è il desiderio buono che tutti abbiamo. Solo che è più facile, più comodo, più sbrigativo, distruggere semplicemente gli altri.
Poi il testo riporta quella frase terribile, che tutti ricordiamo: “Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo, e venga gettato nel mare” (Mc 9,42).
Cerchiamo di approfondirne un po’ il senso. Il termine “piccoli” usato oggi da Marco, è stato spesso inteso come “bambini”. Ma non è così: il termine micron, “piccolo”, era il termine dispregiativo con cui i rabbini definivano le persone che vivevano al di fuori della legge, o quelle che non riuscivano a praticarla per intero. Erano in sostanza delle persone di scarto.
Di fronte ad un Gesù che parla e attua la misericordia, il perdono, la tenerezza, l’accoglienza per tutti, è naturale che questi lontani, questi emarginati, queste nullità, in una parola questi “micron”, si sentano attratti da Lui, si avvicinino a Lui e al suo seguito, pensando di trovare qui un clima diverso da quello in cui trascinavano la loro triste esistenza. Purtroppo però una delusione attendeva quei “piccoli”: anche qui, tra i discepoli di Gesù, prevalevano identiche gravi scorrettezze: rivalità, invidia, gelosia, rancore, competizione, arroganza, ambizione di occupare i posti più prestigiosi (Mc 9,34). Inizialmente affascinati dall’amore di Gesù e dalla sua misericordiosa accoglienza, una volta a contatto con siffatta comunità di seguaci, rimangono talmente scandalizzati, traumatizzati, delusi, da decidere di allontanarsi definitivamente da Lui e dal suo Vangelo: ebbene, per Gesù, il comportamento traumatizzante dei suoi è a dir poco vergognoso: è ripugnante e scandaloso infatti che nella Sua comunità, nella Sua “Chiesa”, prolifichino ambizioni, grettezze, meschinità, risentimenti, odio. È impensabile, ma ci sono! In tal caso, Egli dice, urge un taglio netto, deciso, a qualunque altezza…
Unica soluzione cioè, per quelli che ne sono causa, è di farla finita una volta per tutte. In altre parole la soluzione migliore per loro è quella di buttarsi a mare, legandosi al collo una “macina da asino”.
Ma per suicidarsi in mare, non bastava “legarsi al collo” una semplice pietra? Perché specificare proprio “una macina d’asino?” (Mc 9,42). Perché a quel tempo, alla portata di tutti, c’erano due arnesi in pietra, esattamente due “macine” che servivano a triturare il grano: la prima, non troppo pesante, era azionata a mano dalle donne: mettevano cioè il grano dentro al foro e la giravano per frantumarlo. La seconda, invece, era la classica macina da frantoio, pesantissima, inamovibile, al punto che per farla girare era necessario l’intervento di un animale da soma. Quindi: non una zavorra qualunque al collo, ma data la gravità della situazione, la scelta obbligata era per quella che avrebbe garantito una fine assolutamente certa. Inoltre perché “gettarsi in mare”? (Mc 9,42). Non bastava buttarsi giù da un qualunque precipizio? Gettarsi in mare legati ad una “macina d’asino” era per gli ebrei la fine peggiore che potesse loro capitare, in quanto il corpo bloccato dall’enorme peso non sarebbe mai più riemerso e non avrebbe potuto avere la prevista sepoltura in terra di Israele, unica condizione per essere poi ammessi alla resurrezione finale.
In altre parole, Gesù vuol farci capire che con persone di questo genere, così arroganti, invidiose, gelose, competitive, Egli non vuole avere nulla a che fare. Gesù nella sua bontà non rifiuta nessuno, accoglie tutti, anche quelli che sono immaturi, pieni di paura o che proiettano i loro disagi interni sulle relazioni con gli altri. Ma non tollera che una comunità che si professa “cristiana”, che dice di vivere nel Suo nome e del Suo vangelo, si produca in simili atteggiamenti. Egli non sopporta chi distorce il suo messaggio e la sua immagine di Dio. Chi dice di annunciare Dio, e cerca invece di assicurarsi benessere materiale, ricchezza, gloria, notorietà, agiatezza, non solo non annuncia Dio, ma provoca grave scandalo; si comporta cioè in maniera intollerabile per Gesù. Per cui Egli ordina in maniera categorica: “Se la tua mano... il tuo occhio... il tuo piede, sono motivo di scandalo, tagliali” (Mc 9,42-48). Non a caso Egli cita questi tre componenti del corpo umano: infatti nominando la mano, Egli intende tutte le azioni, le opere; con l’occhio, i suoi criteri di giudizio, il suo discernimento; con il piede, il suo cammino, la sua condotta, il suo comportamento. In una parola l’intera entità umana è interessata: per cui se qualunque azione, qualunque pensiero, qualunque comportamento fossero motivo di scandalo, devono essere tagliati e gettati nella Geenna.
La Geenna (c’è tuttora a Gerusalemme) è il luogo dove venivano scaricate tutte le immondizie di Gerusalemme per essere bruciate. Era in pratica l’immondezzaio di Gerusalemme.
Allora, qual è il grande pericolo? Il grande pericolo è che se viviamo in un certo modo, finiamo col vivere nella Geenna, saremo morti dentro; vivremo da schifo; vivremo senza vita. Ecco perché dobbiamo tagliare via per tempo tutto ciò che ci potrebbe portare a  vivere in questo stato.
Queste del vangelo di oggi sono ovviamente delle immagini limite, che non vanno prese alla lettera. In pratica ci fanno capire che se noi, la nostra attività (mano), i nostri modi di pensare (occhio), i nostri comportamenti (piede), offrono scandalo (lo “skandalon” era la pietruzza dentro al sandalo che impediva di camminare), dobbiamo “tagliarli”: non si tratta cioè di tagliare letteralmente una parte del corpo, ma di eliminare definitivamente l’elemento che ci impedisce di crescere, di essere vivi, di fare il nostro cammino sulla strada del Signore.
Abbiamo visto che il motivo scatenante di queste parole è l’ambizione dei discepoli (Mc 9,34). In pratica quindi Gesù dice loro: “Dovete eliminare, estirpare, rimuovere, “tagliare”una volta per tutte la vostra ambizione. Altrimenti morirete dentro, morirete nell’anima. Perché l’ambizione è la radice dei mali, uccide il cuore, avvelena il sangue, annienta qualunque relazione. E queste stesse parole Gesù oggi rivolge anche a noi. Amen.

 

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