giovedì 3 settembre 2015

6 Settembre 2015 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: “Effatà”, cioè: “Apriti!”» (Mc 7,31-37).
 
Dopo l'attacco diretto da parte dei farisei e degli scribi sulla questione del puro e dell’impuro, delle abluzioni del corpo e del lavarsi le mani, Gesù capisce che sta rischiando molto. Così scappa e si nasconde in territorio pagano. Non solo fugge, ma cerca proprio di non farsi più vedere da nessuno. Una decisione calcolata, la sua; una decisione che in seguito non prenderà più, ma in questo momento egli sa bene che non è ancora giunto il momento di affrontare il giudizio delle autorità civili e religiose. Egli dunque decide: questo lui vuole, e questo lui fa.
Quante volte sentiamo la gente che dice: “Voglio fare questa cosa!”. D’accordo: ma è all'altezza di poterla fare? Non basta volere, non basta desiderare una cosa; bisogna avere anche la capacità di farla, la convinzione di portarla avanti, di sostenerla. Altrimenti la nostra decisione si rivelerà un fallimento.
Quante volte per esempio noi ci diciamo: “Voglio ascoltare la voce di Dio”. Benissimo! Ma siamo in grado di ascoltare prima di tutto noi stessi? No! Siamo in grado di fermare il flusso dei pensieri che ci frullano continuamente in testa? No! Siamo in grado di emozionarci, di piangere, di sentire la voce del nostro cuore, di provare per tutti amore e misericordia? No! E allora dove vogliamo andare? Come possiamo “sentire” Dio dentro di noi con tali premesse? Prima lavoriamo sodo su queste: creiamo cioè le condizioni di base, creiamo l'ambiente idoneo perché ciò accada, e poi ci accorgeremo che tutto avverrà da sé, tutto accadrà spontaneamente.
Gli orientali dicono: “Quando il discepolo è pronto, il maestro arriva”. Le cose spirituali accadono quando è il loro momento, quando cioè ci sono le condizioni perché accadano. Non prima.
Gesù dunque decide di fuggire: e dove va? In terra pagana e ostile ovviamente, dove nessuno si sognerebbe di seguirlo. E invece no, i suoi ammiratori lo trovano anche lì. D’altronde è sempre così, ed è ovvio che sia così: dove c’è verità, guarigione, amore, spiritualità, le persone pie accorrono, la folla devota assedia quei luoghi e quelle persone. Dove non c’è nulla, invece, non ci va nessuno.
Un fatto naturale, che però nel caso di Gesù non vale: i vangeli ci dicono infatti che più la gente era lontana da Dio, più era disponibile ad accoglierlo. Più la gente era invece religiosa, più lo rifiutava.
Perché? Semplice; perché quando le persone hanno già un’idea di Dio, e poi lo incontrano, succedono due cose: o Lui coincide con la loro idea di Dio, e allora lo accolgono; altrimenti lo rifiutiamo in ogni caso. In Israele avevano le idee molto chiare su Dio: era una popolazione estremamente coinvolta nella “loro” religione: ma per la nuova religione di Gesù non c’era spazio. Per accoglierlo bisognava essere completamente “liberi” dentro.
Scoperto dunque dove si trova Gesù, la folla gli porta un uomo, pregandolo di imporgli le mani. Di questo uomo si dice che è un sordomuto. Marco utilizza due parole per dire sordomuto: Kophos che vuol dire non solo sordo ma anche ottuso, spento, senza energia, stolto, pazzo, insensibile; un uomo che non sente, non è in contatto con i suoni, con la sua energia interiore; è vuoto, spento; e Moghilalos che vuol dire non solo muto ma anche balbettante, che fa fatica a parlare. In ogni caso si tratta di un uomo con dei grossi problemi di comunicazione.
Marco ci fa subito notare un particolare: “Glielo portarono” (Mc 7,32). Cioè l’uomo non va da Lui di sua iniziativa, sono gli altri che lo portano. Questo è interessante, perché ci dice che l’uomo non ha poi tanta voglia di guarire: uno che è sordomuto, ha comunque le gambe buone, e se vuole è in grado di andare da solo da Gesù; un paralitico no, ma un sordomuto sì.
Questo ci dice che per guarire bisogna prima di tutto voler guarire, bisogna cioè “voler andare”, essere cioè disposti a fare tutto ciò che c’è da fare.
In questo caso, forse, l’uomo si è abituato alla sua malattia: tutto sommato preferisce rimanere così piuttosto che guarire. Come mai? Perché per guarire è necessario “cambiare”, voltare pagina rispetto a prima, e questo gli fa paura, non sa cosa gli comporti. Se continua a fare quello che ha sempre fatto, sa di ottenere quello che ha sempre ottenuto: ma se da sordomuto viveva in un certo modo, da guarito cosa dovrà affrontare?
Arrivato dunque davanti a Gesù, inizia il rito della sua guarigione. Gesù fa quattro cose; e tutte hanno un significato simbolico, terapeutico.
Marco è molto dettagliato nei particolari. Prima di tutto “lo porta in disparte”, lontano dalla folla: quindi, condizione essenziale per la guarigione è l’essere se stessi, non confondersi con gli altri. Nei vangeli succede continuamente che Gesù porti il malato lontano dalla folla, in disparte, nella solitudine: nella guarigione della figlia di Giairo, deve cacciare fuori di casa tutta la gente che urla e che sbraita a causa della sua morte; prende con sé solo il padre, la madre e alcuni suoi discepoli (Mc 5,40). Nel caso del paralitico, che non può arrivare da Gesù col suo lettino a causa della troppa gente assiepata, lo calano giù dall’alto nella stanza dove Lui si trovava (Mc 2,4). Il ragazzo epilettico viene guarito prima che la gente accorra da Gesù (Mc 9,25). Al cieco di Betsaida, dopo averlo guarito, ordina di “non entrare nel villaggio” (Mc 8,22). L’emoroissa, che tocca il mantello di Gesù di nascosto protetta dalla calca della gente, è costretta a venire fuori dall’anonimato, dalla folla anonima, a mettersi in gioco: “Chi mi ha toccato?” (Mc 5,30). E via dicendo.
Quando uno è immerso nella folla, non è nessuno, è uno dei tanti, è anonimo. Gesù, invece, fa sempre uscire i malati dalla folla, li individua, li fa venire avanti, li mette al centro.
Egli non vuole l’anonimato; tutti devono avere la loro identità, devono essere “qualcuno”, avere un nome; bisogna cioè essere se stessi. Per questo motivo Gesù, anche in questo caso, porta l’uomo lontano dalla folla: “Tu non sei uno dei tanti. Tu sei tu. Riprenditi la tua vita. Mostra chi sei, non vergognarti di te e del tuo volto”.
Per guarire, dobbiamo quindi “individuarci”, venir fuori dalla massa. A Lazzaro Gesù dirà: “Vieni fuori!”, “Emergi” (Gv 11,43), che letteralmente vuol dire: “Esci, vieni fuori dal tuo nulla”. Osa con il tuo pensiero, con la tua vita, con le tue scelte: sii te stesso.
Poi “gli pose le dita negli orecchi”: un gesto che indica la necessità di “ascoltarsi” (Mc 7,33).
Le persone spesso non si ascoltano perché non lo sanno fare. È fondamentale invece imparare ad ascoltare le proprie emozioni, perché solo così ci impadroniremo della nostra identità, impareremo chi siamo e cosa vogliamo. Se non lo facciamo noi, ci saranno altri che vorranno intromettersi nella nostra vita. In altre parole se non ci ascoltiamo noi e non dirigiamo noi la nostra vita, altri lo faranno per noi, e non sappiamo con quali risultati.
Dopo di ciò gli “toccò la lingua con la saliva (Mc 7,33). Un segno con il quale Gesù ci dice che dobbiamo imparare ad esprimere ciò che abbiamo dentro. Se abbiamo qualche preoccupazione che turba profondamente il nostro animo, dobbiamo esprimerla, condividerla, altrimenti ci porteremo dentro il suo peso per tutta la vita e nessuno potrà mai aiutarci.
Infine Gesù pronuncia una parola, secca, decisa e forte; impartisce un comando: “Effatà, apriti” (Mc 7,34). In quante occasioni Gesù ha detto al nostro cuore: “Apriti!”? Ogni qualvolta abbiamo paura di amare, di aprirci alla vita, trattenuti dalla paura di poter soffrire ancora, di innamorarci nuovamente dopo esperienze negative, Gesù, la Vita, ripete ogni volta al nostro cuore: “Apriti!”; alla nostra coscienza che prova vergogna per tante infedeltà, Gesù ripete: “Apriti, torna a vivere e perdonati. Io l’ho già fatto!”.
Alla nostra mente confusa e indecisa, Gesù ripete: “Apriti. Impara, conosci, scopri, accetta le novità. La mente è come il paracadute: se non è aperta non serve”.
“Aprirsi” significa accettare che le cose evolvano. Significa "vivere". Perché ciò che non evolve è morto; ciò che vive, invece, diviene, si concretizza, si realizza. Perché ogni anno è diverso dal precedente?  È normale. La vita diviene, è viva, si modifica, cambia. Apriamo la nostra mente alla vita, manteniamola sempre in movimento.Soprattutto “apriamoci” con gli altri. Alcune persone non si rendono conto di quanto sia importante la loro presenza per noi; non sanno quanto bene ci faccia anche solo vederle; non sanno quanto conforto ci arrechi il loro benevolo sorriso; non sanno quanto sia benefica la loro vicinanza; non sanno quanto saremmo più poveri senza di loro. Alcune persone non sanno tutto questo: non sanno di essere per noi un dono del cielo. Lo saprebbero, se noi ci aprissimo e glielo dicessimo. Amen.

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