mercoledì 11 maggio 2016

15 Maggio 2016 – Solennità di Pentecoste

«Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,15-16.23-26).

Pentecoste è la solennità che si celebra, come dice la parola greca “cinquanta giorni” dopo Pasqua. Per gli ebrei questa festa all’inizio dell’estate, rievoca la consegna dei comandamenti sul Sinai, e segna l’inizio della raccolta del grano. Per i cristiani invece, ricorda l’effusione dello Spirito Santo: Gesù, risorto e asceso in cielo, ritorna su questa terra sotto la forma di Spirito di Dio.
Perché i cinquanta giorni: perché per gli antichi “cinquanta” era il numero della pienezza di un tempo; i cinquanta giorni della Pentecoste indicano quindi che un tempo è finito: si è concluso il tempo del Gesù terreno e delle sue apparizioni, e si apre un nuovo tempo, il tempo dell’uomo, della Chiesa e dello Spirito.
Gesù se n’è andato, lasciando i discepoli nella paura, tra mille dubbi e tanta incertezza: “Cosa accadrà ora? Cosa faremo da soli? Che fine faremo?”. Possiamo capire tutta la loro preoccupazione: stanno vivendo un momento di crisi profonda, radicale, decisiva.
Li possiamo capire perché anche noi, molte volte, ci troviamo nella loro identica situazione. Tutto sembra andare per il meglio: stiamo vivendo tranquillamente la nostra vita, abbiamo un buon lavoro, una casa accogliente, una bella famiglia, tanti amici simpatici. In famiglia siamo molto presenti, e quando possiamo, aiutiamo volentieri anche il prossimo. Passiamo insomma per delle brave persone, ammirate e rispettate.
Ma c’è qualcosa che non va: nel profondo del cuore, ci sentiamo insoddisfatti perché ci rendiamo conto di non essere esattamente come sembriamo all’esterno: dentro di noi siamo spenti, svogliati, indolenti; procediamo solo per forza d’inerzia, per abitudine: andiamo in chiesa, rispettiamo le regole cristiane, siamo generosi, ma non c’è slancio nella nostra fede, non c’è passione, non c’è partecipazione; quando parliamo di Dio, quando preghiamo, le nostre parole sono superficiali, fredde, non lasciamo trasparire né entusiasmo, né amore.
Come mai? Che ci succede? Ci sentiamo in crisi, ansiosi, abbattuti, esattamente come lo erano gli apostoli. Cosa dobbiamo fare allora in simili circostanze?
Dobbiamo scoprire dentro la nostra anima lo Spirito del Signore, dobbiamo lasciarci infiammare da Lui il nostro cuore intiepidito: in una parole dobbiamo vivere sul serio la nostra “Pentecoste”.
Per la vita degli apostoli questo giorno ha segnato un salto di qualità netto, determinante, definitivo: da un livello di superficie sono passati ad un livello di profondità, dall’esteriorità all’interiorità, dalla dipendenza all’autonomia, dalla schiavitù di se stessi alla libertà più assoluta.
Parlavano una lingua che tutti, anche se stranieri, riuscivano a capire perché avevano ristabilito il contatto con Dio, sceso in quel giorno dentro di loro. Quel Gesù con cui avevano vissuto giornate memorabili per le strade della Palestina, con cui avevano mangiato e parlato, proprio quel Gesù ora lo sentivano non più accanto a loro, all’esterno, ma dentro di loro: lo sentivano forte e chiaro, potente e presente. Mentre prima vivevano nella paura di perderlo, ora erano certi che nessuno, mai, sarebbe riuscito a toglierlo dai loro cuori. Perché ciò che è dentro di noi, lo Spirito, nessuno può sottrarcelo.
La loro fu insomma una trasformazione totale, sconvolgente, un cambiamento che rovesciò il loro modo di pensare, di esprimersi, di agire, mettendo in crisi tutte le loro vecchie certezze.
Le due immagini “rombo come di vento” e “fuoco che si divideva” che Luca evoca negli Atti (At 2,3), sottolineano questo passaggio potente, destabilizzante, ma necessario, dello Spirito di Dio. Il “vento” infatti spazza via, purifica, scompiglia, sconvolge; deve cioè essere anche per noi un uragano che si abbatte (rombo), che ci libera dalle paure e dal dipendere dagli altri. Il “fuoco” dello Spirito, deve determinare il nostro salto di calore, di passione, l’essere “presi”, toccati nella nostra unicità di soggetti (ogni lingua assume una sua forma diversa per ogni soggetto su cui scende).
Vivere la nostra “Pentecoste” significa allora affrontare quel salto qualitativo che ci porta dall’essere freddi, insipidi, all’essere infiammati di senso e di passione. Sarà un contatto con Dio che permetterà di individuarci, di trovare la nostra forma, la nostra vera fisionomia, la nostra unicità. Solo in questo modo possiamo affrontare i grandi “passaggi” della vita: senza lo Spirito, se non c’è “vento” e “fuoco”, non andiamo da nessuna parte, non possiamo fare scelte mirate e determinanti. 
Solo lo Spirito esprime dunque la verità che Dio abita dentro di noi, che Dio è presente in noi. Ma cosa significa in particolare vivere “lo Spirito”?
Se noi chiediamo alla gente cos’è lo Spirito, la maggior parte non sa cosa rispondere. 
E se non sa rispondere è perché non lo conosce, non ne ha esperienza, non lo ha mai vissuto.
Alcuni pensano che lo Spirito sia un’aggiunta alla nostra personalità, un qualcosa di accessorio, un optional di cui possiamo anche farne a meno. Ma lo Spirito non è un “di più”, è un qualcosa di essenziale, un qualcosa che fa parte del nostro essere fin dalla sua creazione. Altri pensano che lo Spirito sia l’opposto della materia, per cui “spirituale” vuol dire disincarnato, fuori del mondo; quando, ad esempio, sentono parlare di una “persona spirituale”, immaginano un monaco che vive fuori dal mondo, che passa la vita pregando, odiando tutto ciò che c’è nel mondo. Queste persone dovrebbero leggere un po’ di più il vangelo; si renderebbero conto di quanto Gesù fosse “materiale”: nel senso che mangiava, beveva, faceva festa, si divertiva, abbracciava le donne. Eppure non possiamo certo dire che Gesù non fosse “spirituale”!
Lo Spirito dunque non entra in noi un giorno qualunque della nostra vita, ma abita già in noi, è parte di noi. Lo Spirito infatti altro non è che il “modo” con cui Dio abita in noi. Essere “spirituali” pertanto non è pregare molto, frequentare la chiesa, fare elemosine, riunioni sacre, pellegrinaggi. Essere “spirituali” vuol dire “vivere facendo vivere” Colui che è la nostra parte interiore. È in sintesi un modo di vivere, uno stile di vita.
Quando Gesù proclamava le beatitudini e diceva “beati i poveri, beati quelli che piangono, beati quelli che soffrono”, era forse pazzo? Da che mondo è mondo, nessuno ha mai accettato con piacere di soffrire, di essere perseguitato, deriso o imprigionato: e sicuramente nessuno mai, sano di mente, lo accetterà in futuro! E allora, come mai Gesù considerava tanto positivamente queste cose? Perché Lui le guardava in una prospettiva diversa dalla nostra.
Tutto infatti dipende da come noi guardiamo le cose: dipende cioè se entriamo dentro, nella loro essenza, oppure se ci fermiamo solo all’esterno, all’apparenza.
Gesù fu per eccellenza l’uomo che vedeva le cose “oltre” l’esteriorità, Lui le vedeva dentro, proiettate nei fatti, in quella realtà soprannaturale che Lui chiamava “Regno di Dio”. E lo diceva sempre: “Il regno di Dio non è il paradiso, ma è qui, oggi, è quello che vedi adesso. Dipende solo dai tuoi occhi”. Gesù vedeva gli uccelli del cielo e i gigli del campo e vedeva Dio in essi, vedeva la luce, lo spirito di Dio, ed esclamava: “Che meraviglia, che libertà; chi può vestire e fare come loro?”. Gesù vedeva i fatti di cronaca e vi leggeva dentro la mano di Dio che insegnava. Vedeva i sofferenti, i poveracci, i malati, le donne peccatrici, e mentre tutti li evitavano, Lui li abbracciava, li incontrava, li baciava, li accarezzava, cogliendo nel loro sguardo un disperato bisogno d’amore. Gesù vedeva i peccatori e mentre tutti si fermavano all’apparenza: “Avete sbagliato, siete peccatori, lontani da Dio!”, Lui entrava dentro di loro. Lui sapeva cogliere la scintilla di luce, nascosta nel loro cuore, sapeva apprezzare anche quel minimo desiderio di Vita, di riscatto morale, che si nascondeva nella loro anima. Sulla croce, accanto a lui, c’era un ladrone, un peccatore incallito: e mentre tutti vedevano il malfattore, l’assassino, Lui gli disse: “Oggi sarai con me in Paradiso”. Condannato a morte, mentre noi proviamo solo rabbia verso i suoi carnefici, Lui ha visto la flebile luce che filtrava dal nulla delle loro tenebre: “Padre perdonali perché non sanno quello che fanno”. Gesù non si fermava all’aspetto esteriore, materiale; Gesù vedeva lo Spirito, vedeva la Luce che c’è dentro ogni cosa.
Questa è la grande lezione di vita che Gesù ci ha lasciato: affinché, prima di sputare sentenze e maldicenze sul prossimo, possiamo entrare in noi stessi per cogliere la Luce vera, la voce dello Spirito, del nostro Consigliere, Avvocato e Consolatore.
Oggi siamo incapaci di essere “spirituali”, non riusciamo ad affrancarci dalla nostra “materialità”. Per questo ci deve soccorrere lo Spirito di Dio, per questo dobbiamo imparare a viverlo. Il nostro vivere quotidiano è un continuo fare i conti con questa dicotomia tra “materia” e “spirito”. Anche nelle cose più comuni, più frequenti: così, per esempio, “materia” è il pane della domenica sull’altare, “spirito” è quando io vedo in quel pane Cristo stesso; “materia” è quando vedo nel prossimo solo uno che mi ostacola, che mi infastidisce, “spirito” è quando inizio a vedere in lui una persona che soffre, uno che ha un cuore e un’anima; “materia” è quando mi sveglio e di fronte al nuovo giorno, vedo solo un altro giorno di fastidioso lavoro, “spirito” è quando vedo una nuova opportunità che mi viene concessa da Dio per sperimentare la Vita; “materia” è quando ogni cosa mi fa innervosire, “spirito” è quando mi chiedo il perché, cosa devo imparare, cosa devo cambiare del mio comportamento, del mio modo di pensare; “materia” è quando guardo una donna solo per possedere il suo corpo, “spirito” è quando vedo in quella donna una creatura di Dio, con un cuore che batte e che pulsa, bisognoso magari di comprensione e di conforto; “materia” è udire il cinguettio mattutino degli uccelli, “spirito” è ascoltarlo, apprezzarlo, e trasformarlo in una preghiera che il creato innalza a Dio. Tutta la vita può essere insomma terribilmente materiale o terribilmente spirituale, piena cioè di buio o di luce; tutto può essere “materia”, tutto può essere “spirito”: trasformarlo nell’una o nell’altro dipende solo da noi, dai nostri occhi, dall’ascolto del divino che è in noi.  Amen.



Nessun commento: