giovedì 28 luglio 2016

31 Luglio 2016 – XVIII Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità» (Lc 12,13-21).

Gesù sta parlando a migliaia di persone. Dice che chi lo seguirà sarà rinnegato dal mondo, disprezzato, portato di fronte ai tribunali, ma di non aver paura “perché anche i capelli del vostro capo sono tutti contati” (Lc 12,7.9). Gesù sta parlando di cose profonde, della natura della vita, dell’ essenza del vivere.
E cosa succede? Improvvisamente un tale se ne esce con una domanda su un suo problema privato, personale, specifico. Tanto da far pensare: “Ma questo sta veramente ascoltando Gesù o sta rimuginando sugli affari suoi?”. Certo doveva essere completamente concentrato su se stesso se, nel bel mezzo di quelle profonde parole di vita, di fronte a migliaia di persone, interrompe Gesù per porgli una questione tanto banale e privata: “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”.
È chiaro che quello che gli sta a cuore non sono certo le parole di Gesù, ma le sue proprietà, in particolare quella parte di raccolto con cui avrebbe colmato i suoi magazzini, e che suo fratello, evidentemente, non vuole cedergli. La sua unica preoccupazione è dunque trovare un modo per rientrare in possesso dei suoi beni.
Gesù è una persona importante, la sua autorità di fronte alla gente è indiscussa: in pratica il tizio sta cercando di “appropriarsi” di Gesù, di portarlo dalla sua parte, di sfruttare il peso della sua persuasione; in pratica gli mette già in bocca la risposta: “Mio fratello sta commettendo un’ingiustizia, come puoi non darmi ragione Gesù!?”.
Ma Gesù gli legge dentro: “Amico, tu vuoi giustizia non per il valore della giustizia, ma perché sei attaccato ai soldi, perché ne sei avido, perché invidi chi li ha, perché li desideri con tutto il tuo cuore. Allora non chiamarmi in causa, non usarmi per i tuoi scopi, per i tuoi interessi”.
Non gli dice: “Tu hai ragione e tuo fratello ha torto”. Ma: “Tu, tuo fratello e tutti quelli che confidano solo nelle ricchezze perderanno la vita, perderanno l’anima, perderanno la parte feconda, creativa, vera della loro vita”.
Gesù va oltre la divisione tra giusto/sbagliato e dice: “Tutti quelli che vivono così, moriranno così”. Perché se uno è preoccupato esclusivamente di accrescere il suo benessere materiale, esteriore, se uno si lascia dominare dall’ansia continua del “di più” (più di immagine, di potere, di fama, di ricchezza), ovviamente non farà altro che trascurare la sua vita interiore, l’anima, le relazioni, il regno di Dio. È inevitabile!
Quante volte sarà capitato anche a noi, in certi momenti della vita, pregando magari per nobili motivi, di chiedere a Dio di far crescere il nostro “magazzino” di potere, di successo, di ammirazione!
Ebbene: con questa parabola Gesù vuol riportarci, anche se bruscamente, alla realtà della vita.
Le sue parole sono così perentorie e drastiche da sembrare, più che un insegnamento, una maledizione: “Tu hai fatto di tutto per accumulare così tanto, ed io ti tolgo tutto”. Sembra quasi che Dio voglia farci un dispetto, che se la rida dei “ricchi”, che li prenda in giro aspettando il momento giusto per privarli di tutto: ma non è questo il messaggio della parabola.
È piuttosto l’amara constatazione di ciò che inevitabilmente accadrà a tutti quelli che sprecano la loro vita rincorrendo unicamente le ricchezze materiali, a tutti quelli che non si arricchiscono di Dio, a tutti quelli che non pensano per nulla alla loro anima, ma preferiscono proiettarsi unicamente sui loro “magazzini strapieni”, sul possedere, sul riempirsi di cose frivole e caduche; in pratica Gesù ci dice: “Fate attenzione, perché chi vive così, finirà così, senza nulla in mano, non dimenticatelo!”.
Spesso ci lamentiamo che in questa società non c’è più amore, che in questo mondo non ci si capisce più nulla, che i giovani sono intrattabili, ribelli, nevrotici, infelici; ma cosa pretendiamo di diverso? Cosa pensavamo succedesse in un mondo completamente materializzato, laicizzato, in cui nessuno più si prende cura dei valori morali, dell’anima, del mondo interiore, del soprannaturale? In un mondo in cui noi stessi, che ci professiamo cattolici osservanti, assistiamo passivamente alla deriva della nostra religione, delle nostre tradizioni, dei nostri principi; in cui pensiamo sempre a tutt’altro, in cui giriamo sistematicamente la testa altrove, concentrandoci esclusivamente nei nostri minuscoli interessi materiali?
L’uomo della parabola non ha nome come, quasi sempre, i ricchi del vangelo. Il “ricco”, nel vangelo, non ha un nome; è anonimo, perché ha perso la sua identità, la sua personalità, il suo carattere. Non ha più un nome perché si è autoescluso dal reale, ha spostato ogni suo interesse dal mondo interiore, spirituale, dell’anima, del regno di Dio dentro di lui, al mondo esteriore, al “fuori di sé”, alle ricchezze, al benessere, a tutto ciò che ancora non possiede, e che forse non potrà mai possedere, ma che comunque vuole ad ogni costo.
In questa affannosa ricerca egli ha perso l’unica cosa preziosa che aveva: se stesso, il suo tesoro, la sua vera ricchezza. Gesù dice: “A che serve guadagnare il mondo intero se poi si perde la propria anima (psiché)?”. Già, a che serve conquistare il mondo, se perdiamo la nostra libertà interiore, la nostra creatività, la nostra voglia di vivere; se perdiamo chi amiamo; se perdiamo le cose più belle della vita, come l’infanzia e la crescita dei nostri figli, l’amore di nostra moglie o di nostro marito, la forza consolante di una sincera amicizia?
È questo senso di terribile “irrealtà” che tormenta l’uomo del vangelo. Il suo rapporto spazio-tempo è completamente sfasato. Parla sempre al futuro: “Farò, demolirò, costruirò, raccoglierò”. Ignora il presente, ha perduto completamente il concetto di “limite temporale”, pensa solo in termini di “eternità”. Ma dove vive? Non sa che tutto finisce, che tutto passa, che tutto ha sì un inizio, ma anche e soprattutto una fine?
Tutto passa. Nessuno di noi è eterno. Ciò che è andato è andato per sempre e non torna mai più. Ciò che non abbiamo gustato a suo tempo, non lo potremo gustare mai più. Quante persone per prendere delle decisioni sulla loro vita aspettano la pensione, aspettano che i figli crescano e diventino grandi, aspettano di essere “liberi”, senza altre preoccupazioni: attenzione, perché molto spesso, questo rimandare, significa “mai”.
Se non gustiamo, se non assaporiamo oggi, se non siamo capaci di farlo oggi, ora, chi ci dice che potremo farlo domani?
La vita non è domani, è ora. Un celebre giornalista, stroncato all’apice della sua carriera da una grave forma tumorale, prima di morire scrisse: “Volete far ridere Dio? Parlategli dei vostri progetti futuri!”.
Se da un lato l’uomo del vangelo ignora volutamente il fattore “tempo”, dall’altro dimostra invece di essere completamente preso dal fattore “spazio”: la sua unica preoccupazione è quella di ampliarsi sempre più, ingrandirsi, costruire nuovi granai, più capienti, per poterne trarre maggiori ricchezze.
Ma farsi case sempre più grandi, avere sempre più soldi, proprietà sempre più vaste, è assolutamente irrilevante per l’anima: vuol dire che si cerca la grandiosità esteriore, per riempire il nostro vuoto, il nostro nulla interiore! Costruiamo fuori, perché dentro non abbiamo realizzato nulla; cresciamo fuori perché dentro non siamo mai nati; continuiamo ad allargarci fuori per bilanciare la nostra limitatezza interiore.
La vita per molte persone è una continua, ininterrotta frustrazione, poiché condizionano la loro felicità non sull’essere ma sull’avere; sono convinte cioè che solo ottenendo un qualcosa, saranno felici: per questo lottano, combattono, spendono tutto il loro tempo. Salvo poi constatare che proprio quelle cose tanto desiderate, una volta conquistate, perdono ogni valore, ogni attrattiva, non bastano più; non sanno più che farsene, vengono subito attratti da altre cose, secondo loro ben più grandi, più spaziose, più importanti, più appetibili.
È inutile illuderci pensando che, raggiunti i nostri traguardi (soldi, posizione sociale, ammirazione della gente), saremo finalmente felici. Saremmo dei fuori di testa, dei completamente “out”. Perché la realtà è un’altra, completamente diversa: l’unica ricchezza da conquistare, l’unico tesoro che conserverà sempre il suo valore, siamo solo noi stessi, la nostra anima. Niente e nessuno, oltre noi, potrà farci sentire importanti, se non siamo noi stessi a sentirci importanti; nulla potrà farci sentire sicuri, se non siamo noi a sentirci tali; nessun amore potrà farci sentire amabili se non siamo noi ad amarci per primi; nessun Dio potrà farci sentire vivi, se non riusciamo a vivere noi ciò che siamo”. Questa è la differenza sostanziale tra chi continua ad accumulare tesori esteriori, e chi invece raccoglie ricchezze interiori, davanti a Dio: perché il nostro unico tesoro è Lui che vive in noi, nel nostro cuore, nella nostra anima.
Questo vangelo ci interroga pertanto, e a ragion veduta, sul nostro rapporto con i soldi.
La saggezza popolare diceva una volta che i soldi “sono lo sterco del demonio”. Ma, sterco o non sterco, gran parte della gente vive purtroppo solo per i soldi.
Va detto che il denaro in sé non è né buono né cattivo: ma è il mezzo con cui noi dimostriamo di percepire la realtà: il denaro altro non è che la “materializzazione” dei nostri valori, la dimostrazione di quello in cui crediamo sul serio, con il conseguente svilimento di tutto ciò che possediamo “dentro”, in profondità.
Molte persone che da piccole non sono state amate, che hanno sofferto molto della mancanza o della scarsità d’amore, una volta cresciute pensano di poterlo comprare con il denaro. Ma nessuna somma di denaro ci garantisce l’amore oggi, né ci ripaga per la sua mancanza di ieri.
Il denaro è solo un surrogato dell’amore: essere ricchi, importanti, potenti, essere famosi, può anche convincere gli altri, quelli che ci ammirano, giammai però noi stessi; influisce sicuramente sul nostro “apparire”, sull’immagine che gli altri possono farsi di noi, ma non cambia di una virgola ciò che noi siamo realmente. Potremo avere tutti i soldi di questo mondo, ma per assicurarci la felicità, la serenità interiore, non saranno mai sufficienti, non basteranno mai, perché non è il denaro a farci felici ma l’amore vero. È solo l’amore, l’amare e il sentirsi amato, che riesce a soddisfare pienamente l’uomo.
Molte persone si gettano a capofitto nel possedere, nell’avere, nel raggiungere obiettivi economici, perché si sentono insicure dentro, avvertono distintamente il continuo riemergere del loro vuoto interiore. Sono convinte di poter coprire col denaro l’angoscia della morte, i segni ineluttabili del tempo che passa, di una vita che inesorabilmente declina. Si affidano ai soldi per non invecchiare: cure cosmetiche, lifting, gioielli, vestiti; con il denaro, con la notorietà, cercano in qualche modo di proteggersi dalla paura di venire dimenticati, di non essere più “nessuno”, di dover morire. Ma non è il denaro che toglie l’angoscia della fine, bensì una vita sensata, una vita vera, piena, morigerata, nella fiducia in Dio.
E concludo. Usiamo i soldi, ma non facciamoci mai usare dai soldi. Tutte le ricchezze che abbiamo non potranno mai restituirci la dignità interiore una volta che l’abbiamo “barattata” per la gloria, per una inottenibile immortalità.
“Rabbì, cosa pensi del denaro?”, chiese un giovane monaco al suo maestro. “Guarda dalla finestra”, disse il maestro. “Cosa vedi?”. “Vedo una donna con un bambino, una carrozza trainata da due cavalli e un contadino che va al mercato”. “Bene. Adesso guarda allo specchio: cosa vedi?”. “Beh, vedo me stesso, naturalmente”. “È vero. Ora pensa: la finestra è fatta di vetro, esattamente come lo specchio. Ma se sul vetro metti anche solo un sottilissimo strato di costoso argento, allora vedi solo te stesso!”.
Questo purtroppo è l’effetto del denaro: fa vedere solo noi stessi! Amen.




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