giovedì 18 agosto 2016

21 Agosto 2016 – XXI Domenica del Tempo Ordinario

«Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici! Ma egli vi risponderà: Non so di dove siete». (Lc 13,22-30).

Nel vangelo di oggi un tale pone a Gesù una questione apparentemente innocua, ma al contrario di grande valenza, che è stata, e continuerà ad esserlo, motivo di dotte disquisizioni teologiche da parte dei maggiori pensatori di ogni tempo: “Cosa ci sarà nell’aldilà dopo la morte? Ci sarà una sopravvivenza in condizione di salvezza, di premio, di beatitudine? Se sì, io ne farò parte?”.
Inutile negarlo: tutti abbiamo paura di perderci, di finire nel nulla; tutti abbiamo paura del niente, del vuoto, del buio, della morte, della sofferenza. Il fatto stesso di aver cercato a lungo una risposta rassicurante a tale interrogativo, la dice lunga sulle insicurezze, sulle inquietudini, sulle preoccupazioni esistenziali dell’animo umano.
A quel tale Gesù risponde alludendo ad una simbolica “porta”, molto “stretta”, attraverso cui si può passare solo con grande “sforzo”; porta che peraltro tutti devono “affrettarsi” di oltrepassare per entrare nella casa del padrone, prima che egli la chiuda e sia troppo tardi.
Il verbo “sforzarsi”, in greco, è “agonizo” e significa lottare, gareggiare, combattere. “Agon” era il luogo della lotta, dei combattimenti, delle gare. “Agonia” è l’ultima estrema terribile lotta che ognuno deve affrontare uscendo da questa vita.
“Sforzarsi”, allora, vuol dire “combattere”, “lottare”, “difendere” ad ogni costo i propri ideali. Una porta stretta indica chiaramente delle difficoltà da superare: e cosa dobbiamo fare di fronte alle difficoltà, ai problemi, alle questioni, alle strade senza apparente via d’uscita? Dobbiamo appunto lottare, impegnare tutte le nostre forze, perseverare, non arrendersi mai, non mollare la presa al primo fallimento. “Perseverare” vuol dire insistere con ostinazione su di una cosa, aspettare pazientemente il risultato dei nostri tentativi senza mai demordere, senza mai abbandonare i nostri propositi. Dobbiamo essere costanti, fermi, saldi di fronte ad ogni contrarietà: e per questo ci vuole disciplina, serietà, applicazione: è quanto richiede la “porta stretta” del Vangelo.
Nella vita raggiungere tutto ciò che conta, che ha valore, che è molto importante, implica da parte nostra una lotta. Non è pensabile cioè di poterlo ottenere magicamente, in un istante, al primo tentativo; ma dobbiamo perseverare, dobbiamo metterci tutte le forze, tutta l’attenzione, tutto l’amore, dobbiamo provare e riprovare; anche se non riusciamo in una, due, cento volte, non dobbiamo comunque rinunciare a lottare.
Purtroppo, la società moderna avalla un’immagine distorta della realtà: lo slogan è “Tutto e subito”: con il telefono in un attimo comunichiamo con l’Australia; con il microonde in un attimo riscaldiamo i cibi; con la televisione in un attimo vediamo in tempo reale ciò che succede nel mondo. E così ci siamo convinti che tutto possa essere raggiunto in un istante. Ma non è così.
Per combattere le nostre paure, le nostre reazioni, eccessive e incontrollate, quando qualcuno ci fa delle osservazioni; per evitare di offenderci, ammutolendo immediatamente, quando qualcuno ci rimprovera; per rimediare alla nostra eccessiva timidezza e insicurezza, ai nostri attacchi di panico, per sconfiggere le nostre manie, pensare di poterlo fare “tutto e subito”, è assolutamente fuorviante. Dobbiamo al contrario lavorare a lungo, sforzarci: dobbiamo lottare, desiderare di capire, di conoscere; dobbiamo entrare dentro il problema, sviscerarlo, scavare dentro di noi, cercare: è una vera e propria battaglia! Fare altrimenti significa disinteressarsi dell’obiettivo, dimostrare che non ci teniamo; se molliamo al primo tentativo, vuol dire che la cosa non ci interessa, che ci va bene così come siamo.
Perché la nostra fede sia forte, convinta, profonda, ben radicata come una quercia, dobbiamo lottare. Così, se andiamo a messa solo quando ci fa comodo, o quando non abbiamo null’altro da fare, dimostriamo la superficialità della nostra fede, su cui potremo costruire ben poco: la nostra fede vissuta, richiede invece che lottiamo contro la nostra svogliatezza, contro l’afa e il solleone delle domeniche estive, o contro il gelo, le nevicate, le piogge di quelle invernali; che lottiamo contro la comitiva di amici che di domenica ci vuole al mare o in montagna; che lottiamo contro il marito o la moglie che non vuole saperne, contro i figli che brontolano e che ci chiamano “bigotti”, contro i sorrisetti compassionevoli di tanta gente.
È una lotta, è vero: ma chi ha mai detto che il percorso della fede sia facile?
È così anche nelle piccole cose di ogni giorno; in “un attimo”, senza fatica, non possiamo ottenere proprio nulla: se, per esempio, vogliamo smettere di fumare, se vogliamo smettere di essere negativi, di essere sempre pessimisti, sistematicamente disfattisti, su tutto e con tutti, dobbiamo lottare, dobbiamo impegnarci con tutte le forze per ovviare a queste nostre deficienze. E dobbiamo farlo perché vogliamo essere liberi, perché vogliamo essere noi gli unici padroni della nostra vita.
Così di fronte alla paura di parlare in pubblico, di non essere all’altezza, di venire derisi, di far ridere gli altri; di fronte al nostro complesso di inferiorità, al timore di non essere interessanti, di essere brutti, di non risultare graditi, dobbiamo lottare, dobbiamo provare e riprovare, non dobbiamo cedere di fronte al primo insuccesso; soprattutto non dobbiamo dare ascolto a quella vocina interna che ci dice “Sei così, non puoi farci niente”. No, sforziamoci, proviamoci ancora e poi ancora! Lo vogliamo o non lo vogliamo?
Poi nel vangelo c’è quella frase tremenda: “Non ti conosco!”.
È come andare dal proprio padre, dalla propria madre, dalle persone che ci hanno messo al mondo, che ci hanno cresciuto con tanto amore e sentirsi dire: “Non ti conosco, non so chi sei”. È terribile! Eppure questa frase ha un senso profondo: non è Dio che ci condanna, che ci rifiuta: Egli ci ha creati, ciascuno con una sua esclusiva, inimitabile, identità personale. Ma se noi, strada facendo, ci mascheriamo, se le sovrapponiamo tutta una serie di maschere: quella dell’orgoglio, del potere, dell’arroganza; quella del superuomo che calpesta i deboli, i miseri, i poveri; quella di chi usa violenza a tutti, convinto di potersi permettere qualsiasi sopruso. Se insomma preferiamo deformare le nostre sembianze originali, semplici ed aggraziate, indossando maschere che ci deturpano, è naturale che Dio, quando ci presenteremo a Lui, ci dica: “Non ti conosco. Non ho mai creato un tipo come te; chi sei? Non posso farti entrare in casa mia perché non ti ricordo come mio amico: fatti prima riconoscere!”. E se di fronte alle nostre proteste: “Ma come fai a non conoscermi! Sono stato presidente di società internazionali, rinomato professore universitario, celebre inventore di robotica; sono stato un grande industriale, un professionista molto famoso, ricco, importante, ammirato e osannato da tutti; sono stato un papà decisamente in gamba, una mamma tutta casa e famiglia; un prete zelante, un pio frate, una suora virtuosa…”, Lui insisterà nel dire “Non ti conosco”, allora finalmente capiremo tutta la tragicità della sua risposta: e tutta la nostra tracotanza, la nostra presunzione crollerà, perché in quell’istante ci apparirà chiaro come tutto ciò che abbiamo costruito e conquistato, tutti i riconoscimenti di questo mondo, le nostre medaglie, i nostri titoli, non servano assolutamente a nulla, non siano in grado di salvarci, non ci assicurino per niente l’apertura di quella “porta” tanto importante.
“Chi sei?”. Solo se risponderemo presentandoci con il nostro nome di battesimo: “Sono Mario, Marco, Giovanna, Antonietta…”, la porta si aprirà: perché Dio non ha creato dei bravi padri, degli scienziati, dei politici, dei solerti funzionari, dei religiosi impegnati. Dio ha creato delle “persone”: e Dio riconosce solo ciò che ha creato. Se Lui non ci riconoscerà, vuol dire che noi, e solo noi, abbiamo deciso di presentarci “diversi” da come Lui ci ha creati.
A questo punto tutte le nostre giustificazioni non serviranno: “Ma Signore noi siamo battezzati; siamo andati in chiesa tutte le domeniche; non abbiamo fatto nulla di male; non ti abbiamo mai rifiutato; siamo stati cristiani fin da piccoli, come lo erano nostra madre, nostro padre, nostro nonno…”. “Non vi conosco: allontanatevi da me voi tutti operatori di ingiustizia”. Che tradotto per noi significa: “non è la vostra fede di facciata, la vostra fede superficiale, vissuta solo per essere ammirati, per esibizione, che vi garantisce l’ingresso nel Regno”. Cioè, non facciamoci illusioni, perché non sono le nostre frequenti preghiere, le nostre elemosine, non è perché ci comportiamo come tutti gli altri, che saremo ritenuti giusti.
In cielo queste cose non hanno valore. È sulla terra che il prestigio del nome, la notorietà, l’alto ceto sociale, aprono tutte le porte; è sulla terra che grazie alla fama otteniamo favori: qualche referenza giusta, il nome del tal dei tali, e le porte magicamente si aprono. Ma in cielo tutte le nostre medaglie onorifiche non serviranno perché Dio, che ci ha creati nudi, ci accoglierà soltanto se saremo tali: nudi non tanto fisicamente, ma nudi perché spogliati di tutto ciò che in vita abbiamo esibito come “meriti personali”.
Inutile a quel punto recriminare o appellarci alla misericordia divina: perché fino a quando pretenderemo di entrare così travestiti, Dio continuerà a ignorarci, a lasciarci fuori. E allora finalmente capiremo la sua scala di valori, ben diversa dalla nostra: vedremo cioè entrare come elette proprio quelle persone che noi qui sulla terra, arrogantemente, ritenevamo delle nullità; quelle invece che noi ammiravamo per la loro importanza, per il loro prestigio, per la loro liberalità, per la loro religiosità, avranno l’ingresso vietato e rimarranno bloccate fuori.
Gesù qui ovviamente non vuole seminare paura, non vuole incutere alcun terrore: ci offre semplicemente un’anticipazione di ciò che ci accadrà se continuiamo a vivere di testa nostra, lontani da Dio.
Tutta la nostra esistenza è infatti contrassegnata dalla legge di “causa-effetto”: vale a dire che alla fine raccoglieremo solo quello che abbiamo seminato; la vita è come un boomerang, tutto ciò che facciamo, ci ritorna indietro. In altre parole tutto ciò che di bene o di male noi compiamo in questa vita, produce delle conseguenze, degli effetti su di noi e sugli altri, utili o dannosi per l’altra vita. Ecco perché dobbiamo essere sempre vigili, attenti, responsabili.
La porta d’ingresso è stretta: se pensiamo di passare nonostante la nostra tracotante obesità, dovuta alle progressive stratificazioni di infedeltà, di menefreghismo, di falsità, ci sbagliamo di grosso: perché ovviamente saremo impossibilitati a superare la strettoia, e la porta ci verrà chiusa in faccia.
Possiamo tranquillamente continuare a vivere come meglio ci piace, stare lontani da noi stessi, dalla nostra coscienza, dal non porci mai certe domande più intime e profonde; possiamo continuare spensieratamente a non andare a messa, a non frequentare la parrocchia, a ignorare ogni iniziativa di spiritualità, di ascolto e di meditazione della Parola di Dio: ma poi non lamentiamoci se in casa nostra non c’è armonia, non c’è amore, non c’è serenità, se soffriamo perché vittime dell’egoismo altrui. Non è la vita che provoca disgusto, che è invivibile, ma è come noi la viviamo: del resto ognuno raccoglie ciò che semina, e un giorno, vicino o lontano che sia, non potremo certamente ignorare il problema della famosa “porta”.
Da qui la necessità di esercitarci nelle difficoltà, di abituarci durante questo cammino terreno, a passare e a ripassare attraverso quelle strettoie, quei “varchi” difficili, duri, stretti, che la vita inevitabilmente ci riserva. Così, per esempio, quando tra marito e moglie non c’è più armonia, e ogni occasione è buona per inveire e offendersi reciprocamente, dobbiamo affrontare umilmente la situazione dalle radici, riconoscere i propri errori e correre ai ripari: e questo ci costa, è la nostra “porta stretta”. Quando nostro figlio a scuola è una peste, iperattivo, incontenibile, aggressivo, oppure quando è sempre buio, cupo, arrabbiato, non ha amici, è chiaro che sta vivendo un disagio: una situazione che noi genitori difficilmente riconosciamo, in quanto mette in discussione la nostra validità di educatori; ma dobbiamo trovare una soluzione, dobbiamo anche questa volta affrontare la nostra “porta stretta. Insomma, quando viviamo con un problema da risolvere, quando abbiamo paura di affrontare la realtà, quando siamo tormentati dal rimorso per aver commesso un qualcosa che ci vergogniamo di confessare, quando qualcosa di “pesante” ostacola la nostra serenità, sono tutte situazioni che vanno affrontate e risolte, anche se ovviamente non ci piace: ma dobbiamo prendere in mano i nostri “serpenti”, dobbiamo passare necessariamente per di lì, sono altrettante “porte strette” che dobbiamo imparare a superare. Altrimenti verrà giorno in cui non saremo in grado di oltrepassare la famosa “porta stretta” del Vangelo, quella più importante, quella che ci assicurerà l’ingresso nel Regno. Amen.



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