giovedì 3 novembre 2016

6 Novembre 2016 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario

«Si avvicinarono a Gesù alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo”…» (Lc 20,27-38).

La pagina del vangelo di oggi per noi, per la nostra mentalità, è difficile da capire, anacronistica, molto lontana dalla nostra cultura e dal nostro linguaggio. Vediamo di che si tratta.
C’è ancora una discussione tra Gesù e le autorità religiose: questa volta sono i Sadducei che la provocano, gente colta, che rappresenta quella parte dell’aristocrazia sacerdotale razionalista, che non crede nella risurrezione dei morti. Essi dunque si avvicinano a Gesù non per chiedere un suo parere, ma con lo scopo evidente di metterlo in difficoltà, di commiserarlo, di prenderlo in giro; come al solito però sarà sempre Gesù ad avere la meglio, mettendoli in ridicolo per la loro saccente presunzione e per la loro ottusità.
Il caso che propongono a Gesù è decisamente artificioso, ridicolo, grottesco. Partono da una prescrizione della Torah che dice: “Se una vedova è senza figli maschi, può essere sposata dal cognato per avere una discendenza” (Dt 25, 5), per prospettare una situazione decisamente impossibile, assurda, e arrivare a delle conclusioni altrettanto impossibili e assurde. Tant’è che Gesù neppure risponde alla loro provocazione: coglie al volo, però, il riferimento alla “risurrezione” dei morti, per cercare di spiegare, anche se in termini di non immediata comprensione, quello che succederà dopo la morte, nella vita futura.
Ho detto volutamente “di non immediata comprensione”, perché alcune espressioni già in passato sono state oggetto di una errata e superficiale interpretazione. Ad esempio, quando Gesù dice che: “Quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della resurrezione dai morti, non prendono moglie né marito”; oppure: “Perché sono uguali agli angeli”: qualcuno ha interpretato queste parole come un velato disprezzo della sessualità, o che nell’aldilà saremo tutti asessuati. Ciò che invece Gesù vuol qui far capire, è che in cielo, nell’altro mondo, ci sarà un altro modo di stare insieme, un modo non più vincolato dalle leggi del matrimonio e della nascita terrena, che saranno ormai superate; ma tutti saranno uniti indissolubilmente da un solo Amore, che assorbirà tutti e tutto nella sua Unicità: una prospettiva la cui modalità e fattibilità concreta noi non potremo mai capire; al massimo potremo immaginarla, ma con difficoltà e solo con la fede.
Gesù dunque superando la banale questione dei Sadducei, ne approfitta per parlare del mistero della risurrezione e della vita futura, dando in proposito due risposte.
La prima di ordine formale: non è possibile servirsi dei nostri attuali criteri razionali per parlare e spiegare l’aldilà. Tutto quello che diciamo sono solo ipotesi, balbettii, allusioni, immagini, parabole. I Sadducei utilizzano invece immagini terrene, limitate e inappropriate, per parlare dell’altro mondo. In genere, ogni religione quando affronta il problema della destinazione finale dell’uomo dopo la morte, parla di luoghi incantevoli, di latte e miele, di pascoli erbosi, di luce splendente, di giardini fioriti, quando va bene; se va male, al contrario, di fuoco, di tenebre, di tormenti, di angosciose sofferenze. Ma sono solo supposizioni: è come se un bambino, ancora nel grembo della madre, volesse descrivere il cielo, il mare, un fiore, la fisionomia delle persone: ma come potrebbe descrivere il volto del papà o della mamma? Impossibile, non può.
Succede la stessa cosa anche a noi quando pensiamo l’aldilà. Abbiamo solo dei presentimenti, delle intuizioni, dei segnali, che possiamo cogliere dall’osservazione della natura, che possiamo trarre dai nostri sentimenti, dalla nostra fantasia: l’alternarsi delle stagioni con fiori e piante che muoiono e rinascono; il seme piantato che “muore” per rinascere, crescere, e dare frutto; il sentimento dell’amore vero che ci estasia, che ci fa toccare il cielo, che ci unisce in maniera indissolubile; sono tutte semplici “trasposizioni” logiche che, quando oggi “balbettiamo” di aldilà, ci offrono un’idea, vaga e imprecisa, di cosa potrebbe significare “risurrezione, rapporto con Dio, paradiso, vita beata”: ma sappiamo per fede che la vita in Dio, l’Amore eterno, sarà un’esperienza completamente diversa, sarà un’altra cosa, indescrivibile, talmente sublime da farci cadere in deliquio.
Di concreto non possiamo dire nulla, non possiamo descrivere nulla, non abbiamo alcuna certezza. Anche se noi credenti una certezza ce l’abbiamo, da sempre; una certezza su cui non possiamo assolutamente dubitare: di essere cioè figli di Dio. E questo dovrebbe bastarci. Perché se arriviamo a capire sul serio che siamo figli dell’Altissimo, non avremo più alcun motivo per preoccuparci di alcunché. Siamo figli della risurrezione: la morte futura non può farci paura. Viviamo allora serenamente, con fede, con fiducia, questa verità sacrosanta.
La seconda risposta è di ordine concettuale: c’è un aldilà e Gesù lo fonda sul rapporto di amicizia che l’uomo, durante la sua vita terrena ha stabilito con Lui. Dice: “Dio non è un Dio dei morti, ma dei vivi” e poi ancora: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. I Patriarchi che Gesù qui ricorda, sono state persone che nella loro vita hanno amato e servito Dio: sono state creature amiche di Dio, “vive”, fedeli a Lui. Con queste persone, e con tutta la loro discendenza, con tutta l’umanità grazie a loro, Dio ha stabilito un legame indissolubile di amicizia, di amore, di speranza. E poiché Dio è fedele, noi dobbiamo credere a questa promessa, è sulla certezza di questa Sua fedeltà che dobbiamo poggiare la nostra fede nella “risurrezione”. Chi si appoggia a Lui è come un ramo su una pianta: anche se non porta frutto, anche se la linfa non scorre più in esso, anche muore, non può separarsi, non può staccarsi di sua iniziativa da quel tronco che l’ha originato. Fidiamoci. Come un amico si appoggia ad un altro amico, la sposa allo sposo, un bimbo alla mamma, così noi dobbiamo appoggiarci a Dio. Perché Dio è colui che non abbandona le sue creature.
Ogni giorno sperimentiamo questa Sua fedeltà: anche se sbagliamo, anche se ci allontaniamo un po’ da Lui, anche se in certi giorni non accettiamo ciò che ci propone, anche se a volte gli siamo infedeli e lo tradiamo (che poi non facciamo nient’altro che tradire noi stessi), Lui rimane con noi, Lui è sempre presente. Lui è roccia (in ebraico hesed=amore fedele): Lui è granito; Lui è la mano che non si stanca di sorreggerci, che non se ne va, che ci tiene forte.
Non sappiamo con esattezza cosa voglia dire “Risorto”: sappiamo però che Lui è Vita, è Amicizia, è Amore, è Colui che non ci abbandona mai, qualunque cosa succeda: e questo ci deve bastare. Dobbiamo solo affidarci a Lui, consapevoli che con Lui non cadremo nel buio, nel vuoto. Se la nostra vita poggia su di Lui, durerà per sempre, perché Dio è eterno e offre ai suoi figli solo amicizia eterna.
Se noi in questo cammino terreno abbiamo riconosciuto Dio, l’abbiamo fatto diventare centro della nostra vita, se lo abbiamo amato,nonostante le nostre fragilità, non abbiamo alcun motivo di temere: il nostro incontro con Lui, alla fine del nostro percorso, sarà l’incontro tra due che si amano.
Ma se Dio è rimasto estraneo, sconosciuto, se lo abbiamo relegato tra le cose inutili, se nella nostra esistenza lo abbiamo ignorato, contrastato, oltraggiato, vilipeso, allora sì che dovremo avere paura!
Ecco perché la morte, con quello che lo aspetta nell’aldilà, costituiscono per l’uomo l’incognita più tragica e angosciante. Ma ciò non deve meravigliarci: risponde al suo bisogno naturale di voler sapere, di avere il controllo su tutto, di essere sempre lui a gestire qualunque situazione. Gesù al contrario oggi ci chiede di abbandonare queste fantasie, questa innata presunzione; ci chiede semplicemente di aver fiducia; ci chiede di fidarci di Lui. “Perché?”, chiediamo. Perche “Ti amo”, risponde Lui: “Osserva attentamente la tua vita, e vedrai quanto ti ho amato e quanto continuo ad amarti. E se ti amo così intensamente, come potrei abbandonarti? Fidati di me!”.
Giusto: solo che la fiducia, quella sincera, quella totale, esige confidenza, adesione, amore. Soprattutto amore: perché è soprattutto l’amore che ci spinge, che determina il nostro fidarci, il nostro andare avanti con sicurezza: e questo, credetemi, non perché già conosciamo dove andremo, cosa faremo, come saremo; ma solo perché conosciamo bene, perché ci fidiamo ciecamente di Colui che ci guida.
Una sera di tanti anni fa, alcuni amici mi hanno bendato e mi hanno detto di fidarmi e di lasciarmi condurre. Non era il mio compleanno, non c’erano motivi particolari per questa sceneggiata. Non mi fidavo molto; anzi, poiché non capivo il senso della cosa, avevo paura di qualche brutta sorpresa, facevo un sacco di domande, tenevo le mani avanti ed ero attento ad ogni rumore. Non avevo la più pallida idea di come sarebbe finita. Quando mi tolsero la benda, meraviglia: c’era una grande tavola imbandita con tutti i miei amici più cari seduti intorno. Volevano solo festeggiare con me i decenni trascorsi insieme in grande e sincera amicizia. È stato emozionante.
Ebbene, questo rappresenta un po’ quella che è la nostra vita attuale; quello che succederà a noi quando andremo di là: avremo tanta paura nell’andare, ma poi una visione incantevole ci apparirà. Sarà una festa decisamente diversa da come la possiamo immaginare ora: inutile pensarci; inutile cercare di farci delle idee a modo nostro; inutile voler sapere ad ogni costo i particolari. Sarà un tripudio d’amore. Punto!
Noi siamo come i bambini: sono traumatizzati dal dover nascere, non sanno che quel passaggio così difficile è la loro unica salvezza, è l’inizio di una vita stupenda, una meravigliosa avventura tra le braccia accoglienti, calde, protettive e amorevoli della madre.
Allora anche a noi tutto sarà chiaro, tutto sarà compiuto, tutto il dopo sarà in pienezza.
La nostra vita è un seme che già contiene l’albero eterno dell’Amore. Nessuno di noi, dalla nostra attuale prospettiva, può dire come realmente sarà: ci deve bastare l’idea che sarà totale fecondità, frutti dolcissimi, sviluppo armonioso, amore senza fine.
Tante persone sono convinte che il risultato finale, l’inferno o il paradiso, sia solo una questione di fortuna, un po’ come giocare al lotto: sperano soltanto che vada bene, perché può capitare questo o quello. Nossignori. L’inferno o il paradiso non capitano a caso: ce li costruiamo noi. L’inferno o il paradiso ce li scegliamo noi; la scelta è solo nelle nostre mani: quando andremo di là, Dio non farà nient’altro che confermare quella nostra scelta.
Scegliamo la vita, allora, amici! Scegliamo il paradiso! Scegliamo l’amore! Amen.


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