venerdì 13 gennaio 2017

15 Gennaio 2017 – II Domenica del Tempo Ordinario

“Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29-34).

Il vangelo di oggi ci ripropone la figura di Giovanni Battista: soltanto che mentre nel racconto degli altri evangelisti ci viene descritto come colui che battezza Gesù, nel vangelo di Giovanni egli appare come un osservatore estraneo, uno che, convinto da certi “segni”, offre una importante “testimonianza” a favore di Gesù e della sua missione divina. Qui la “discussione” tra il Battista e Gesù sull’opportunità del battesimo di quest’ultimo, scompare del tutto. Le distanze tra i due vengono azzerate; il Battista, di fronte alla rivelazione dello Spirito di Dio che scende sul Figlio in forma di colomba, capisce e rende pubblica testimonianza su Gesù, rivelando chi egli sia realmente. E dice: “E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio”. Egli ha visto personalmente, è un testimone oculare diretto, egli ha tutti i titoli per poter testimoniare la verità.
Noi invece parliamo troppo spesso per sentito dire. Parliamo senza avere elementi per poterlo fare con cognizione di causa. Soprattutto quando discutiamo di Dio. Cosa ne sappiamo noi di Dio? Cosa abbiamo concretamente “visto” di Lui? Lo abbiamo forse sperimentato nella nostra vita, nel nostro intimo? No? E allora come possiamo parlare con tanta presunzione se non lo abbiamo visto, non lo abbiamo sentito, non abbiamo capito nulla di lui? Se Dio non ci ha resi diversi, nuovi, più profondi, più liberi, più veri, se non ci ha “guariti” dentro, se non ha toccato il nostro cuore, come possiamo affermare di conoscerlo?
Oggi tutti parlano di Dio, scrivono di Dio, discutono di Dio; ma lo fanno tutti in maniera superficiale, parlano a vanvera, ripetono meccanicamente il sentito dire da sedicenti esperti, da studiosi dai nomi altisonanti, sempre pronti ad esibirsi in nuove stravaganti teorie, ma che di incontrarlo personalmente non vogliono neppure sentirne parlare!
Finiamo così troppo spesso col ridurre Dio ad una semplice dottrina, a dei catechismi da imparare, a dei dogmi da credere, a delle regole da osservare. Ma Dio non è questo: Dio è Amore; è un “incontro” privato, intimo; un incontro con l’anima, col cuore; è vita condivisa, è amore donato, è gioia trasmessa.
Solo se lo abbiamo “incontrato” così, solo se cerchiamo in tutti i modi di incontrarlo per questa via, possiamo affermare seriamente che Egli esiste: altrimenti no!
Allora la domanda: “Tu conosci Dio? Credi in Dio?” è una domanda mal posta; la domanda corretta è: “Hai incontrato Dio? Cos’ha fatto lui per te? Come ti ha dimostrato il suo Amore? Cos’hai fatto tu per Lui? Come hai percepito la sua presenza in te? Come è nato in te il bisogno di parlargli, di conoscerlo, di affidarti a lui?”. Perché solo se abbiamo esperienze dirette, un rapporto personale con Lui, possiamo anche noi come il Battista rendergli testimonianza: dobbiamo prima “vederlo”, “provarlo”, “toccarlo”. Solo allora potremo anche averne una pallida idea: ma solo allora ci renderemo anche conto di non saperne mai abbastanza.
“Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!”, grida dunque il Battista alle folle presenti. È la sua testimonianza nei confronti di Gesù; una testimonianza che costituisce il centro del vangelo di oggi, sulla quale vale la pena soffermarci, anche perché sono parole che noi conosciamo bene, poiché le ripetiamo durante la santa Messa, probabilmente senza comprenderne il più ampio e profondo significato.
Ebbene: cosa voleva dire Giovanni in concreto, paragonando Gesù ad un “agnello”?
C’è da dire prima di tutto che gli ebrei erano un popolo nomade, allevatori di bestiame, e quindi esperti conoscitori di agnelli, pecore e capre. Conoscevano bene la Scrittura, in particolare quei passi che parlavano di agnelli offerti in sacrificio. Conoscevano l’agnello che ogni anno a Pasqua essi immolavano per ricordare l’uscita del loro popolo dall’Egitto. Conoscevano il capro espiatorio: quel capro che nel giorno dell’Espiazione (Yom Kippur) veniva caricato simbolicamente di tutte le colpe del popolo e mandato a morire nel deserto.
Ma soprattutto conoscevano il famoso, emblematico episodio di Abramo.
A cento anni Dio gli aveva finalmente concesso il figlio da sua moglie Sara, un figlio atteso per tutta la vita, un figlio che per lui costituiva la cosa in assoluto più cara, più preziosa al mondo. Non dimentichiamo che per un ebreo la discendenza, l’avere un figlio, era la cosa più importante; voleva dire: “anche se un giorno morirò, io continuerò a vivere per sempre in te, nei tuoi figli, nei figli dei tuoi figli…”.
Ebbene, cosa è successo ad Abramo? Un giorno, improvvisamente, Dio gli chiede di offrire questo suo figlio in olocausto. Possiamo capire la disperazione, l’angoscia, il dolore mortale che egli dovette affrontare. Solo dopo aver “provato” la sua fede, la sua sottomissione, la sua totale obbedienza, Dio lo risparmia, chiedendogli di immolare, al posto del figlio, un agnello.
Gli ebrei sapevano quindi molto bene a cosa volesse alludere Giovanni parlando dell’agnello: una vita dolce e mansueta che costituiva la vittima sacrificale più gradita a Dio. Gesù, dice dunque Giovanni, è l’agnello sacrificale, è la vittima che sarà offerta a Dio a riscatto dei peccati del mondo.
Inoltre: il monte in cui avvenne il sacrificio di Abramo si chiamava “Moria”: quasi ad indicare che in Abramo c’era qualcosa che doveva morire. In che senso?
Nel senso che in ogni passaggio di vita siamo costretti a far morire qualcosa. Vivere, crescere, evolvere, diventare discepoli del Signore, vuol dire far morire sempre qualcosa di noi stessi.
Abramo amava troppo quel suo figlio: proprio per questo deve sacrificarlo, perché quel “suo” figlio non è suo, ma del Signore; deve cioè smettere di possederlo, di considerarlo sua proprietà esclusiva, perché quel figlio appartiene solo a Dio. Dura da accettare, ma è la volontà di Dio!
Quante volte, di fronte alle contrarietà della vita, anche noi come Abramo esclamiamo: “Questo non è giusto! Tu Dio mi chiedi troppo! Mi perseguiti, mi stai facendo troppo male!”.
E se questa fosse l’ultima “chiamata” di Dio? Se dovessimo passare proprio di là? Non diciamo allora: “Ma che vita è questa? È uno schifo! Insopportabile, bastarda!”. Diciamo piuttosto: “Signore cosa vuoi dirmi con questa tua lezione di vita? Cosa devo imparare da essa? In cosa devo cambiare, in cosa devo migliorare? È molto faticoso per me, ma eccomi, sia fatta la tua volontà!”.
L’agnello, allora, anche per noi rappresenta il sacrificio; è cioè il dolore che dobbiamo pagare; sono le sofferenze che dobbiamo sopportare per crescere, per evolvere, per diventare spirituali, puri: non a caso la radice ebraica della parola “Abramo” significa proprio “purezza, innocenza.
Nella nostra vita abbiamo sempre paura di fare delle scelte controcorrente? L’agnello è il prezzo della nostra libertà. Abbiamo timore di dire di no agli altri per non offenderli? L’agnello è il prezzo della nostra autonomia. Vogliamo sempre pianificare e decidere tutto? L’agnello è il prezzo della nostra fede.
Nel mondo dello Spirito, ciò che è più grande (l’amore) richiede sempre il prezzo più grande (l’agnello del sacrificio). Ma ciò che richiede il prezzo più grande dona anche la felicità e la pace più grandi.
Ma forse Giovanni, chiamando Gesù l’Agnello di Dio, voleva dire anche un’altra cosa.
Infatti, la parola “taljah”, in ebraico, oltre che agnello vuol dire anche “servo”.
Molto probabilmente allora il Battista, quando parlava di Gesù, intendeva non tanto l’agnello, ma il “servo” di Dio. E qui si sarebbe ampiamente riferito ai “Canti del Servo di Jahweh”, quei quattro meravigliosi canti contenuti nel Deutero Isaia.
Col tempo però i cristiani preferirono leggere nella parola “taljah” il solo significato di “agnello”: d’altronde non era forse vero che la sentenza di morte di Gesù era stata pronunciata il 14 di Nisan, verso mezzogiorno, proprio nell’ora in cui si sgozzavano gli agnelli? Esattamente come è successo con Gesù, che è quindi il nuovo, ultimo e definitivo Agnello, Colui che toglie il peccato dal mondo.
Quando durante l’Eucaristia ripetiamo “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo…”, noi vogliamo sicuramente dire: “Dio è morto a causa dei nostri peccati; Dio si è sacrificato per noi”. E ci sentiamo profondamente colpevoli. Ma l’espressione “Agnello di Dio” vuol dire anche e soprattutto un’altra cosa: “Dio è buono come un agnello; Dio non ci farebbe mai del male; Dio è bontà, tenerezza, misericordia”. Dio non è vendicativo, non è geloso, non è violento: Dio non potrà mai volere il nostro male.
In questo senso, noi uomini moderni, per definire la grande bontà, la mansuetudine, la pazienza di Dio, più che ricorrere all’immagine dell’agnello, molto comune nella cultura ebraica, potremmo più plasticamente servirci del termine “abbraccio”. Sì, Dio è un “abbraccio”!
Un abbraccio in cui ci sentiamo assolutamente accolti, accettati, avvolti di bontà, riconosciuti, stimati, amati. Un abbraccio non può far mai paura, a nessuno. Dio è così. Per nessun motivo al mondo lo dobbiamo temere. Lui non ci tradisce, non ci volta le spalle, sta sempre dalla nostra parte, non ci abbandona mai. Il suo è il gesto di uno che ci corre incontro per amarci, per guarirci, per darci tutto ciò che ha; il suo è un abbraccio che offre felicità, che vuole per noi una vita entusiasmante.
Allora andare a fare la Comunione è come andare dalla persona amata: è una gioia, un’attesa ansiosa, un’aspettativa carica di desiderio. Andare a fare la Comunione è come correre tra le braccia della mamma: è lì che sentiamo quanto siamo importanti, quanto valiamo, quanto siamo belli. Andare a fare la comunione è come stare tra le braccia del papà: è lì che ci sentiamo al sicuro.
Dio si è mostrato al mondo come Bambino perché voleva che non avessimo paura di Lui. Se voleva che lo temessimo si sarebbe mostrato forte, potente, gigantesco. Ma che può farci un bambino? Che può farci un agnellino? Che può farci una madre perdutamente innamorata del proprio figlio? Se qualche volta ci mette alle strette, ci da una tirata d’orecchie, è solo perché ci vuole bene, perché vuole che diventiamo grandi, adulti e soprattutto felici. Nel silenzio dell’anima possiamo ascoltare tante sue parole che non hanno voce.
Una storiella racconta che dei feroci banditi, scesi da una montagna altissima, entrarono in un villaggio, lo misero a ferro e fuoco, saccheggiarono tutti i beni, e per assicurarsi la fuga, rapirono un bambino, portandolo con sé nel loro impervio rifugio. Gli uomini migliori del villaggio, per ben due volte provarono in tutti i modi a scalare le alte vette della montagna, ma tornarono vinti dalle difficoltà, dal freddo, dal ghiaccio, dalle tormente di neve. Visti i loro tentativi infruttuosi, la madre del bimbo, disperata, contro il parere di tutti, partì da sola; dopo alcuni giorni, lacera, ferita e stremata, tornò portando in braccio il suo bambino. Increduli, quanti avevano partecipato alle precedenti spedizioni le chiesero: “Ma come hai fatto? Noi in gruppo e ben equipaggiati non ci siamo riusciti, e tu da sola, sì? E lei: “Non era vostro figlio!”.
La potenza di una madre! Ebbene, Dio è come quella madre. Amen.


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