venerdì 10 marzo 2017

12 Marzo 2017 – II Domenica di Quaresima

«Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17,1-9).

Pietro e gli altri che furono tra i primi a seguire Gesù non avevano ancora capito bene chi egli fosse. Nonostante avessero passato molto tempo insieme, continuavano a proiettare su di lui le loro personali aspettative: lo vedevano cioè come il Messia energico, potente, l’unto di Dio, che avrebbe sistemato con la forza e le armi la tragica situazione politica del paese occupato dai Romani, riportandovi giustizia, pace, benessere. Questo era ciò che loro pensavano, ma non quello che Gesù era in realtà. Era necessario quindi che la loro idea subisse in modo spettacolare un cambiamento radicale e definitivo.
Gesù dunque prende Pietro, Giacomo e Giovanni, e li porta sulla cima di un monte. Perché proprio loro? Perché sono nel gruppo gli elementi più “in vista”: sceglie Pietro, uomo di riferimento, uno “solido”, tutto d’un pezzo, personaggio già destinato ad essere il futuro “leader”; sceglie poi Giacomo e Giovanni, i due fratelli soprannominati i “boanèrghes”, gli ambiziosi “figli del tuono”, proprio per la loro voglia di emergere, di primeggiare, al punto da candidarsi più tardi ad occupare i primi posti nel nuovo Regno di Gesù. Un trio insomma che costituiva lo “zoccolo duro” del gruppo, convinto com’era del carattere esclusivamente politico della missione di Gesù. Erano pertanto le persone che più di ogni altra necessitavano di uno straordinario e spettacolare “scossone”.
Se domenica scorsa era stato satana a condurre Gesù nel deserto, adesso è Gesù che conduce i suoi “satana” in cima al monte. E cosa succede lassù?
Improvvisamente “vedono” apparire Mosè ed Elia, i due personaggi chiave della storia di Israele, oltretutto mai morti ma rapiti in cielo: entrambi avevano incontrato Dio “faccia a faccia” sullo stesso monte Sinai (detto anche Horeb): Mosè, il promotore della Legge, della Torah, grande condottiero del popolo, l’artefice della liberazione degli ebrei dalla schiavitù dell’Egitto; Elia, grande profeta e severo restauratore della Legge, al punto da imporne a tutti l’osservanza con uno zelo che rasentava la violenza! Quindi due “icone” della Scrittura, due “veterani” del rapporto personale con Dio.
Pietro come al solito reagisce per primo e dice a Gesù: “Signore, che bello per noi stare qui: se vuoi facciamo tre tende, una per te, una per Mosè ed una per Elia” (17,4). È chiaro che è molto colpito dalla situazione: ne è estasiato, felice, sente dentro di se esplodere gioia, meraviglia, stupore e nello stesso tempo grande timore. Ma perché pensare subito a delle “tende”, come a voler prolungare nel tempo quella “festa”? Per capirlo dobbiamo rifarci alla “festa della mietitura” o delle Capanne, che Pietro conosceva molto bene: una festa importantissima, celebrata da tutto il popolo con grande sfarzo e solennità, dimorando per sette giorni in tende o capanne, a ricordo della marcia nel deserto fatta dal popolo, condotto proprio dal quel grande Mosè che aveva organizzato la fuga dalla schiavitù egiziana. Un Mosè che per Pietro meritava il massimo rispetto, al punto da riservargli la tenda più importante, quella centrale: era lui infatti l’esempio che Gesù avrebbe dovuto seguire, realizzando un’impresa analoga: liberare il popolo dalla schiavitù dei Romani e porre fine all’ingiustizia religiosa dei farisei.
A questo punto però Matteo molto acutamente fa notare che né Mosè, né Elia rivolgono una parola ai discepoli; non se li filano proprio, parlano solo ed esclusivamente con Gesù. Come mai? Perché questa è la novità: l’evangelista fa capire in pratica che Mosè ed Elia, ossia la Legge e i Profeti, non hanno più nulla da dire direttamente agli uomini, se non attraverso Gesù. In altre parole il Vangelo di Gesù abolisce la Legge mosaica e l’antico Profetismo; tutto ciò che Dio deve dire, da questo momento in poi, lo dirà soltanto attraverso la persona di Gesù, suo “figlio prediletto, nel quale si è compiaciuto” (17,5).
Per questo, dopo il primo momento di gioiosa meraviglia, i tre si rendono conto che quanto succede davanti a loro è “altro” rispetto alle loro supposizioni: vengono presi dall’ansia, dalla paura, e “cadono a terra”. Capiscono di essere coinvolti in una solenne manifestazione di Dio, e ricordando il detto della Scrittura: “Chi vede Dio faccia a faccia, muore” (Es 33,20), vengono assaliti dal terrore della morte. Cadere a terra, è segno di disfatta (1Sam 17,49); non capiscono il vero significato di tutto questo, ma intuiscono che la realtà è un’altra, che i loro sogni di restaurazione politica non possono trovare in Gesù alcun sostegno: le loro sono soltanto delle false illusioni, improponibili e irrealizzabili. La missione di Gesù ha un altro scopo: non sanno ancora esattamente quale, ma tanto basta per capire che il loro progetto è completamente fuori tema. E si perdono di fronte all’ignoto.
Gesù però si avvicina a loro, li “tocca” e li “rialza”: compie cioè gli stessi gesti (toccare e rialzare), pronuncia le stesse parole(“non abbiate paura”), esattamente come usa fare nelle guarigioni. E della loro guarigione si tratta: i tre infatti si “risvegliano” guariti dai falsi programmi che avevano costruito su di Lui.
Adesso lo vedono per quello che veramente egli è; scomparsi improvvisamente Mosè ed Elia, rimasto “solo”, Gesù è soltanto Gesù: tutti i loro “film” precedenti sono scaduti, privi di fondamento. Ora finalmente sono liberi di ricominciare.
È una grande conquista l’essere liberi da condizionamenti ideologici: dobbiamo riconoscere infatti che i “convincimenti”, le idee fisse, sono sempre e comunque fuorvianti. Quando ci “piantiamo” su un’idea, diventiamo illogici, vediamo solo ciò che vogliamo vedere noi: facciamo indossare agli altri delle maschere, dei ruoli, che non corrispondono alla loro autentica natura: per cui li vediamo non come sono nella realtà, ma come noi ce li immaginiamo.
Un fenomeno che ci succede spesso anche quando leggiamo il Vangelo: cioè non “vediamo”, “non capiamo”, ciò che effettivamente il testo dice, ma vediamo e capiamo soltanto ciò che “immaginiamo” esso dica; in pratica vediamo e capiamo ciò che fa comodo a noi.
Così, per esempio, per tanti secoli abbiamo attribuito a Dio l’immagine distorta di un Dio terribile, forte, vendicativo, un Dio più da temere che da amare, un Dio esigente, che gradisce soprattutto il sacrificio, la penitenza, l’obbedienza assoluta ai suoi precetti; un Dio che si arrabbia, che puntualmente ci punisce se non facciamo come dice Lui. In realtà il Vangelo insegna tutt’altra cosa: nel suo Vangelo, infatti, Gesù ha chiaramente rivelato un Dio che è Padre amoroso, misericordioso; ci ha svelato che il Regno di Dio è libertà, è verità posto al centro del nostro cuore e della nostra vita.
Così pure in tantissimi anni non abbiamo mai voluto vedere in Gesù un “guaritore” misericordioso, un innamorato dei deboli, dei sofferenti: abbiamo sempre preferito ignorare questa sua predisposizione all’amore, interpretando i suoi miracoli solo come manifestazione della sua divina potenza, piuttosto che della sua paterna bontà, del suo amore, della sua misericordia, della sua umanità più piena.
Sempre per questo motivo abbiamo volutamente sorvolato sulla cordialità dei rapporti umani che Egli intratteneva con gli uomini, le donne e i bambini; abbiamo fatto finta di non vedere la sua libertà, la sua generosità, la sua “passione” nelle relazioni sia maschili che femminili; abbiamo bypassato i suoi sentimenti umani, fino a pensare che a causa della sua perfezione divina Egli ne fosse totalmente sprovvisto: per questo in Lui non abbiamo voluto vedere (bastava leggere!) l’uomo che ha pianto, che si è disperato, che si è angosciato, che ha avuto paura, che ha sopportato pazientemente rifiuti, incomprensioni, derisioni, oltraggi, percosse e via dicendo.
Anche noi come i tre del Tabor, dobbiamo allora fare il grande “passaggio”, dobbiamo fare il nostro “trasfigurante” reinserimento nella vita, per vedere le cose, le persone e Dio stesso per quello che sono, nella loro realtà e genuinità, e non attraverso il filtro deformante dei nostri personali condizionamenti ideologici.
Questa è stata in pratica la loro esperienza trasformante: hanno cioè “girato pagina”, hanno “perduto” il Dio della Legge e dei Profeti, il Dio dell’Antico Testamento, il Dio che intere generazioni prima di loro avevano conosciuto e con cui loro stessi erano cresciuti, ed hanno “trovato” il “nuovo”, il vero, l’autentico volto di Dio nel volto di Gesù.
Ecco, il vangelo ci dice proprio questo: Gesù “fu trasfigurato davanti a loro e il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce”. Quello che ora essi vedono è il volto di un Gesù inedito per loro, di un Gesù nuovo, completamente diverso da ogni loro precedente immaginazione. Le squame dei pregiudizi, degli egoismi, delle superstizioni, della politica, sono cadute definitivamente dai loro occhi.
E allora chiediamoci: possiamo vivere anche noi una “trasfigurazione” simile? In tal caso, quali cambiamenti, cosa dobbiamo aspettarci in concreto di vedere?
Beh, prima di tutto va chiarito che la “trasfigurazione” non è un fenomeno che possiamo vedere con gli occhi fisici, ma lo possiamo percepire solo con gli occhi del cuore, della fede. Un’esperienza, ovviamente, che sarà possibile solo a quanti dispongono di questi occhi, a quanti cioè avranno la sensibilità di sentir nascere e crescere dentro il loro cuore i semi di questa “trasformazione”, con la gioia prorompente che l’accompagna, e di “viverla”.
“Dio è amore”, dice l’evangelista Giovanni. E solo chi sa aprirsi all’Amore può capire Dio, può immedesimarsi nella trasfigurazione di Gesù. Tutti quelli che non sanno spalancare il proprio cuore, non potranno mai sentire quanto Lui sia Amore e continueranno a cercare invano.
Ma a noi, nel nostro piccolo, come e quando può capitare una “trasfigurazione”? Non è un qualcosa riservata ai santi, alle persone votate unicamente a Dio che vivono “eroicamente” la loro fede?
Nossignori: tutti nella vita possono vivere attimi “speciali” di trasfigurazione”, percepire, sentire, sperimentare la bontà, la bellezza di Dio-Amore. Così, per esempio, quando ci succede di commuoverci davanti alla serenità di un volto sofferente, quando usciamo vincitori dalle nostre lotte interiori, ottenendo delle piccole conquiste spirituali; quando vinciamo le nostre paure, affrontando difficoltà che prima ci sembravano insuperabili; quando ci capitano momenti meravigliosi, assolutamente impensabili; quando nelle sofferenze si aprono nuovi spiragli di vita; quando ci innamoriamo di una persona speciale; quando nel buio del dolore per la morte di una persona cara entra la luce della rassegnazione; quando da perduti che pensavamo di essere, ci siamo ritrovati; quando scopriamo che la nostra vita, così piccola e insignificante rispetto al mondo, ha un senso e uno scopo particolarissimo; quando percepiamo la bellezza di una persona, la sua forza, la sua sensibilità, la ricchezza della sua anima; quando ci commuoviamo di fronte alle prime conquiste di un bimbo, alle sue “uscite”, ai suoi occhi luminosi che ci cercano; quando siamo rapiti dalla bellezza struggente di un tramonto, dalla luminosità prorompente del sole che si alza dal mare, dalla maestosità regale delle vette che si fondono col cielo, dalla leggiadria di un fiore, dal rinnovarsi perpetuo della natura e delle stagioni. Quando, in una parola, la nostra anima si fonde in Dio e i nostri occhi riacquistano l’innocenza dell’amore, ecco: è allora che noi viviamo i nostri momenti di “trasfigurazione”. È allora infatti che, commossi, possiamo avvertire tutta la forza, la bellezza, l’intensità della vita che ci scuote l’anima. Sono quelle esperienze personali nelle quali non possiamo rimanere impassibili, non piangere dalla felicità, dalla gioia, dalla commozione.
Una volta pensavo che commuoversi, piangere, fosse una dimostrazione di debolezza. Oggi so che vuol dire essere vivi, “sentire” ciò che viviamo, “sentire” ciò che gli altri vivono; che vuol dire lasciarsi toccare, lasciarsi colpire, lasciarsi investire da ciò che succede: non essere freddi come il ghiaccio o impenetrabili come il marmo.
Il mondo che non crede, ci dirà che siamo matti a voler insistere sulla fede: e nella sua incredulità, nella sua superficialità, continuerà ad essere infelice. Noi invece, “trasfigurati” dall’amore di Dio, saremo felici, davvero tanto, tanto felici.
Elias, 37 anni, era un uomo impegnato nella liberazione dei ragazzi dalla prigionia delle Favelas, in Brasile. Un giorno gli squadroni della morte andarono a casa sua e lo uccisero. Sua madre quando lo vide sanguinante gli disse: “Figlio mio, te l’avevo detto di non occuparti di quella gentaglia!”. “Mamma, sono stato al mondo 37 anni: ho vissuto questi 37 anni con Dio. Sono felice di ciò che ho fatto. Lasciami andare!”. E così morì. Sul suo diario aveva scritto: “Quando incontri Dio non puoi più essere lo stesso, non puoi più far finta di non vedere, non puoi più tirarti indietro. Lui ti fa vivere davvero”. Amen.



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