venerdì 3 marzo 2017

5 Marzo 2017 – I Domenica di Quaresima

«Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane» (Mt 4,1-11). 

La liturgia propone ogni anno, nella prima domenica di quaresima, il vangelo sulle tentazioni di Gesù. Cerchiamo allora di capire esattamente in cosa consistono queste “tentazioni”, come mai siano riportate da Matteo con così tanti particolari. C’è da dire, prima di tutto, che l’episodio delle tentazioni non è un fatto storico inteso come lo pensiamo noi: che cioè Gesù sia stato “fisicamente” per quaranta giorni nel deserto e che lì si sia scontrato materialmente con il diavolo. No: il racconto di Matteo non è un evento “storico”, ma una riflessione “haggadica”; una riflessione personale, cioè, con cui l’evangelista, volendo sottolineare la particolare importanza dell’insegnamento di Gesù, lo ha fatto imitando lo stile dell’Haggadah, ossia il metodo abituale con cui i rabbini commentavano i vari passi della Bibbia, arricchendoli con racconti, aneddoti ed esortazioni morali per renderne più comprensibile il messaggio: un metodo quindi, quello di Matteo, con cui esprime in immagini non tanto un fatto storico, ma una dimensione, una possibilità, un qualcosa di importante che Gesù ha vissuto durante la sua vita terrena: nel nostro caso, appunto, le lusinghe di satana, per indurlo ad usare il suo potere, le sue conoscenze, la sua posizione di Figlio di Dio, per scopi diversi da quelli che costituivano le linee guida della sua missione.
In un unico episodio e con delle immagini molto plastiche, Matteo dunque concentra in questo racconto quello che è successo durante l’intera vita di Gesù: le tentazioni cioè di seguire la strada del godimento, del possesso, della potenza, e non quella della Croce, l’unica che Egli doveva percorrere.
Leggiamone allora i particolari: “Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto”.
Siamo subito dopo il Battesimo nel Giordano: si erano appena “aperti i cieli”, e lo Spirito di Dio era sceso su di Lui; è l’investitura ufficiale di Gesù da parte di Dio: lo Spirito del Padre, lo Spirito dell’Amore, lo riconosce pubblicamente davanti al popolo: “Questi è il Figlio mio prediletto nel quale mi sono compiaciuto”. Parole di consacrazione, attraverso le quali Gesù percepisce che il Padre è al suo fianco: una presenza di accoglienza, di sostegno, di predilezione, di amore incondizionato.
Ebbene: quello stesso Spirito subito dopo lo spinge, lo manda, lo “conduce” nel deserto: il verbo greco anècze (fu portato), usato al passivo, indica chiaramente che è lo Spirito che vuole questo; è lo stesso Dio di prima che lo manda laggiù, per vivere un’esperienza difficile e traumatica.
Questo ci aiuta a capire come la nostra idea di Dio sia falsata. Per noi, infatti, se una cosa è bella, buona, e soprattutto se non ci fa soffrire, vuol dire che viene da Dio; se al contrario è dura, ostica, dolorosa, difficile, allora non può venire che dal demonio, dal male.
Ma qui non è così: è Dio stesso, il suo Spirito, il Padre amoroso che “spinge” Gesù nel deserto per confrontarsi col maligno. Questo ci dice che tutto quanto ci capita, qualunque cosa, buona o cattiva, che ci riservi la vita, viene sempre da Dio, è Lui che la permette. Non chiediamoci più allora se una certa situazione dipenda dal diavolo o da Dio: chiediamoci piuttosto quale sia la prova, quale la difficoltà, il passaggio, che dobbiamo affrontare e superare nella nostra crescita. Satana infatti non è il male in sé, ma un ostacolo, uno sbarramento che ci complica il cammino verso il bene, un passaggio obbligato che ciascuno di noi deve compiere per evolvere, per liberare le sue energie, le potenzialità che sono dentro di noi. Per cui l’unica competenza del demonio, la sua unica funzione, peraltro a noi indispensabile per raggiungere la maturità, è quella di farci crescere. Non imputiamo quindi a lui l’onere delle nostre colpe, delle nostre deficienze: è molto comodo scaricare su di lui la responsabilità dei nostri errori, del nostro egoismo! Non attribuiamo al diavolo un ruolo decisionale che non gli appartiene: “È colpa sua, è lui che l’ha voluto, che posso farci io?”. Che possiamo farci? A chi spetta, se non a noi, decidere cosa fare? Solo noi siamo gli unici preposti alla soluzione dei nostri problemi. Nessun altro.
Dio, al massimo, può riservarci ogni tanto lo stesso trattamento riservato al Figlio: quando cioè è venuto il momento per noi di dimostrargli la serietà delle nostre convinzioni, la nostra sincerità di figli, una prova del nostro amore, ci spinge nel “deserto”, a fare i conti con le tentazioni del maligno; vuole cioè che anche noi, come Gesù, ci confrontiamo con i nostri demoni, li combattiamo faccia a faccia e li vinciamo. La parola “tentare” (in greco peirazo) equivale infatti a “mettere alla prova, verificare, fare un test”.
Un po’ come succede ai nostri ragazzi a scuola con la “verifica”, con l’esame: i professori vogliono sapere se hanno studiato, se sono preparati ad affrontare il corso della vita. La tentazione è la stessa cosa. La tentazione non è Dio che vuol “farci cadere in errore, farci sbagliare, che ci seduce per provare se siamo forti”. No, Dio non è così cattivo: Dio vuole che siamo noi stessi a renderci conto se siamo sinceri, convinti delle nostre promesse, leali con Lui: che siamo noi stessi a controllare il grado di autenticità della nostra fede. La tentazione è quindi un dono, non un male: infatti ogni volta che ne usciamo vincitori, oltre all’intima soddisfazione di scoprire in noi quella forza che prima pensavamo di non avere, riceviamo una carica di ottimismo, uno stimolo reale a dimostrare sempre più intensamente il nostro amore a Dio .
Ecco perché è necessario entrare nel “deserto”, ecco perché dobbiamo essere tentati, ecco perché dobbiamo affrontare i nostri demoni. Con coraggio, senza temere che la nostra onorabilità venga meno, sia imbrattata, oltraggiata: nessuno potrà mai farlo se non noi stessi, perché l’ultima parola, quella decisiva, è solo ed esclusivamente nostra.
Convinciamoci che ogni ingresso nell’ombra, nella zona buia della tentazione, anche se all’inizio può farci paura, ha sempre il pregio di portare con sé un dono di luce, un prova di maturazione, un’esperienza diretta del nostro amore da offrire a Dio.
I regali più belli non ce li fanno gli altri, ce li facciamo noi andandoli a cercare coraggiosamente nel nostro deserto, nelle nostre zone d’ombra: i tesori più preziosi sono nascosti “dentro” di noi e per ottenerli vanno cercati; le nostre migliori possibilità sono come le perle preziose, nascoste nel “fondo” del mare, rinchiuse “dentro” le loro ostriche: solo portandole alla luce, possono sprigionare la loro bellezza, ed irradiare ovunque il loro fascino.
La pienezza, la perfezione, non è data dal possedere tante cose, ma dal “tirar fuori” quei doni, quelle ricchezze che sono dentro di noi, e che moriranno con noi, se non avremo il coraggio di andarle a prendere.
Quello che ci attende è dunque un cammino importante, un passaggio obbligato nel profondo della nostra anima, per riappropriarci delle nostre “terre promesse”, per rilanciare i nostri propositi di conversione trascurati, inascoltati, abbandonati. Dobbiamo certo misurarci con i nostri demoni; ma è necessario per rispondere coraggiosamente alle grandi domande della nostra esistenza, quelle domande rimaste disattese, accantonate, ignorate fino ad oggi:  “Cosa voglio dalla mia vita? Cosa sono disposto a rischiare? Come voglio vivere? Quali sono le paure che mi frenano? Quali sono le bugie che mi racconto? Fino a che punto sono disposto ad ascoltare la Voce che ho dentro?”. Domande alle quali possiamo dare una sincera risposta soltanto nella solitudine dell’anima, nel nudo confronto con noi stessi; perché possiamo raccontare delle belle storie a tutti, possiamo illudere chiunque, mai noi stessi!
“Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti…”. Cosa dobbiamo fare dunque nei nostri “quaranta” giorni, nel nostro deserto quaresimale? Dobbiamo digiunare! Dobbiamo cioè vietarci l’assunzione di tutti quei “cibi” dannosi, malefici, che degradano e avviliscono l’anima, saziando esclusivamente il nostro delirio di onnipotenza.
Sono tre le tentazioni che satana propone a Gesù: non sono inviti espliciti a fare delle cose peccaminose, ma delle seduzioni molto fini, intriganti. Si tratta di tentazioni molto attuali anche per noi, perché ogni uomo le conosce bene, le accetta volentieri, le usa abbondantemente.
La prima: “Dì che questi sassi diventino pane”. È la tentazione “del pane”, del benessere personale, dell’assicurarsi la prosperità materiale anche a scapito degli altri.
Il diavolo sa che Gesù è Figlio di Dio: a lui non interessa mettere in dubbio questa sua figliolanza divina, ma di suggerirgli i vantaggi che da essa egli potrebbe ricavare. “Usa le tue eccellenti capacità, il tuo prestigio popolare, ad esclusivo vantaggio della tua persona”. In altre parole Satana invita Gesù a spogliarsi della sua divinità, ad abbandonare la sua missione d’amore, per vivere in modo umano, egoistico, usando le sue potenzialità solo per risolvere le esigenze materiali, i suoi problemi quotidiani, per agevolare la sua “carriera”. È la tentazione di fare a meno di Dio, come era già stato per Adamo. Ma per Gesù l’unico cibo valido è quello di fare sempre e comunque la volontà del Padre. Egli, se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto trasformare in pane tutti i sassi di questo mondo: ma non lo ha fatto. Per Lui agire egoisticamente a proprio tornaconto, disinteressandosi del prossimo, è una scelta destabilizzante, diabolica: diventa invece un miracolo autentico quando i doni di Dio vengono messi a servizio esclusivo dei fratelli bisognosi.
La seconda: “Gettati giù dal pinnacolo del tempio e gli angeli ti sorreggeranno”. Il tentatore in pratica non fa altro che dire a Gesù: “Fai quello che la gente si aspetta da te. Non sei il Messia? Comportati e mostrati comunque come tale. Tutti si aspettano che tu venga in modo prodigioso? Accontentali! E visto che ci sei e che puoi (sei figlio di Dio!), lanciati e fatti sostenere dai tuoi angeli, così tutti sapranno che tu sei il Messia”. Tra le varie cose che la gente si aspettava dal Messia, c’era anche una sua spettacolare manifestazione nel tempio di Gerusalemme: ora, il suo “pinnacolo” era il punto più alto, più in vista: se Gesù avesse fatto qualcosa di spettacolare da quell’altezza, tutti lo avrebbero potuto ammirare. Un fenomeno un po’ da baraccone, ma questo era il Messia che allora la gente si aspettava: se però Gesù fosse diventato un simile Messia, non sarebbe mai stato il Figlio di Dio che noi conosciamo. In pratica è la tentazione della “religione”: una tentazione umana molto forte anche oggi è quella di usare Dio e le parole del Vangelo per i propri fini, per un proprio tornaconto, che con Dio non c’entra proprio nulla! La storia è piena di questo falso uso delle Scritture e delle tradizioni religiose. In nome di Dio si sono fatte e si fanno guerre fratricide, si continua a commettere ingiustizie enormi. Con il risultato di far allontanare dalla fede intere generazioni.
Qui vuol dire che se riusciremo ad accontentare tutti, a costo di qualunque compromesso, avremo sicuramente l’approvazione generale, ma perderemo noi stessi. Così, facciamo pure leggi contro la morale naturale, leggi che certa gente pretende a tutti i costi: sicuramente otterremo voti e tanto consenso umano, ma tradiremo Dio e la nostra coscienza, rendendola sorda e inefficace. Cerchiamo pure, con la nostra abilità untuosa, l’approvazione dei capi, dei potenti, delle persone che contano: non avremo più problemi dall’alto, ma avremo perso completamente la nostra libertà. Cercare infatti ad ogni costo l’approvazione, il consenso degli altri, per Gesù è una scelta diabolica, perché significa rinunciare alla propria missione, tradire il proprio “mandato”, diventando dei “traditori”, piuttosto che “servitori” dei fratelli.
Infine la terza tentazione: il diavolo alza ancora il prezzo; non c’è riuscito con la fame e con la religione, per cui a questo punto tira in ballo la seduzione più forte: la ricchezza.
“Ti darò tutto questo se prostrandoti mi adorerai”. Una ricchezza smisurata a prezzo della rinuncia alla nostra intelligenza, alla nostra dignità; a prezzo di una viscerale sottomissione alle leggi nefaste del male: “fai quello che ti dicono”. E questa volta il diavolo porta Gesù su di un monte altissimo. Perché? Perché la vetta del monte anticamente era considerata la residenza degli dei: per cui salire lassù in alto, significava entrare in una condizione superiore, divina. Essere come Dio, allargare il possesso su tutto e su tutti, è sempre stata la massima aspirazione dell’uomo. In cambio, però, il diavolo chiede una cosetta non proprio insignificante: abbassarsi a fare sempre quello che vuole lui.
Una cosa, tutto sommato, ci riesce abbastanza facile: se tutti fanno così, se tutti si comportano in un certo modo, perché non ci adeguiamo anche noi? È più semplice che non creare problemi per remare contro, per voler distinguersi dalla massa! Se tutti dicono di essere cattolici, di vivere da buoni cristiani, ma all’atto pratico trascurano completamente i valori del vangelo, chi siamo noi per ribellarci a questo andazzo? Facciamo anche noi altrettanto! Del resto non dipende da noi, non è colpa nostra, è il mondo che va così, è la convivenza sociale che impone questa scelta; non possiamo farci nulla!
Oggi siamo schiavi dei budgets economici, degli obiettivi da raggiungere, dei mercati e della concorrenza: le lobbies finanziarie impongono al mondo di seguire una certa direzione di loro gradimento? Tutto il popolo bue deve adeguarsi. Ma se tutti i governanti preferiscono defilarsi, se tutti i media prezzolati continuano a magnificare tali iniziative, se tutte le popolazioni sottostanno passivamente a simili imposizioni, dove andremo a finire?
La mentalità dominante nella società contemporanea è che purtroppo il denaro può tutto; che la “bustarella” è il motore che muove ogni decisione umana. Non la cultura, non la religione, ma è il denaro che stabilisce i criteri guida di una società: non i valori morali, ma la potenza del denaro condiziona la vita globale. Tutto ha un “suo prezzo”: basta solo trovare quello giusto per far cambiare indistintamente opinioni, leggi, scelte di vita. È la cosiddetta “etica del quanto”; ci sono persone che sembrano rifiutare certi accorgimenti, sembrano resistere a certi livelli di corruzione: ma di fronte al rialzo del prezzo finiscono per modificare anch’essi il loro costume, perdere la loro moralità, la loro integrità, la loro coerenza.
Ebbene: quale è a questo punto il nostro prezzo? Siamo davvero convinti che nulla può portarci fuori strada, che nulla può farci rinnegare le nostre scelte di valore, i principi guida della nostra coscienza? La fede che professiamo ci rende immuni dal cedere alle tentazioni dell’affermazione egoistica, del potere assoluto, della ricchezza smisurata?
Beh, perlomeno è consolante sapere che anche Gesù è passato per questa strada stretta, e che anche lui è stato messo alla prova del “fregarsene degli altri” quando aveva fame, dell’affermare il proprio prestigio, dell’essere immune dal “prezzo giusto”.
Lui è rimasto fedele in tutto. Affidiamoci allora a Lui in queste nostre prove con le quali purtroppo la nostra vita deve fare continuamente i conti. Come Gesù ha sconfitto il suo tentatore, così anche noi, con il suo aiuto, faremo sicuramente altrettanto. Amen.



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