mercoledì 14 giugno 2017

18 Giugno 2017 – Santissimo Corpo e Sangue di Cristo

«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51-58).

La festa liturgica del “Corpus Domini” è abbastanza recente. Risale al 1264 quando il Papa Urbano IV la istituì in ricordo del miracolo capitato al sacerdote boemo Pietro di Praga, molto dubbioso sulla presenza reale del Corpo e Sangue di Cristo sotto le sembianze del pane e del vino nell’ostia consacrata; per vincere questi suoi dubbi, si recò a Roma per pregare sulla tomba dell’apostolo Pietro. Durante il viaggio di ritorno fece sosta a Bolsena per la celebrazione eucaristica: e qui, alla frazione del pane, l’ostia diventò miracolosamente carne, da cui fuoriuscì una grande quantità di sangue. Pietro, impaurito da tale fenomeno incredibile, avvolse tutto nel corporale di lino e nel fazzoletto purificatoio, posti sull’altare, che rimasero entrambi vistosamente intrisi di sangue, e fuggì in sacrestia. Durante il tragitto alcune gocce di sangue caddero anche sul marmo del pavimento e sui gradini dell’altare. Se andiamo ad Orvieto, nel famoso duomo, possiamo ancora oggi ammirare e venerare questi oggetti sacri macchiati di sangue, come pure le lastre di marmo sulle quali sono ancora visibili le tracce di sangue cadute per terra.
In questa festa del Corpus Domini, dunque, la Chiesa ci ricorda che nel pane e nel vino consacrati c’è veramente il Corpo e il Sangue di Cristo. Quando noi “mangiamo” il Pane consacrato, non mangiamo soltanto un pezzo di pane ma ci nutriamo di Lui, ci incontriamo a tu per tu con Lui.
Gesù insiste più volte sulla necessità di “mangiare la carne” e di “bere il sangue”: parole che hanno fatto inorridire la gente di allora. Non a caso i primi cristiani, tra l’altro, sono stati accusati di cannibalismo, di antropofagia, di infanticidio: del resto, il verbo “trògo”, mangiare, usato da Gesù, non lascia dubbi: vuol dire proprio masticare.
Ma il significato di questi termini è decisamente un altro: quello che a Gesù interessa è che i suoi discepoli diventino una sola cosa con Lui, siano un tutt’uno in Lui, esattamente come avviene per il pane mangiato che, una volta metabolizzato, diventa nostra carne, si trasforma in forza, vigore, azione, produttività. Allora “mangiare” per Gesù significa “unione perfetta”, una unione ideale, altamente ambita: io in te, tu in me.
Nel “mangiare” l’Eucaristia, ciascuno di noi è chiamato quindi a lasciare il suo “uomo vecchio” per diventare “Cristo”: ad abbandonare l’io, per diventare Lui; a lasciare l’“io”, la nostra identità, per diventare “corpo di Cristo” e assumere la sua identità, l’identità del “Dio in noi”.
Ovviamente non si tratta di una cosa semplice, come può essere il “mangiare”, il prendere cibo: non per nulla Giovanni introduce qui un termine molto significativo: la necessità cioè di masticare: non si tratta quindi di una semplice “ingestione”, ma una “ruminatio”, un’assimilazione, lenta, studiata, progressiva. In altre parole questo metabolismo richiede una “conversione”, un diventare “Altro”.
Ora, sappiamo dai vangeli che tra tutti quelli che hanno “incontrato” Gesù, che si sono cioè “cibati”, immedesimati in Lui, nessuno è rimasto com’era prima: la loro è stata un’esperienza radicale, sconvolgente, risolutiva. E noi? Chiediamoci seriamente: “La nostra esperienza di Dio, in cosa ha cambiato la nostra vita? Quanto, dove e come, Dio l’ha “sconvolta”? Quali paure, quali blocchi psicologici, quali “infatuazioni”, dobbiamo ancora superare per immedesimarci in Lui?”.
Se non abbiamo fatto alcuna “conversione”, vuol dire che la nostra fede non è vera, non è autentica; vuol dire che se continuiamo a rimanere “noi stessi”, se continuiamo a rimanere attaccati alle nostre idee, ai nostri atteggiamenti, non potremo mai diventare “Lui”. Almeno un minimo di buona volontà, di coerenza, di coinvolgimento, dobbiamo pur investirlo in questo; per il resto, “sufficit tibi gratia mea”, ossia “dove tu non puoi arrivare, ti verrò Io in aiuto con la mia grazia”.
Il nostro “incontro” con Gesù, che noi riviviamo in ogni Eucaristia, deve essere un incontro di “comunione”: un incontro cioè in cui Egli, offrendosi a noi in cibo, in alimento, permette alla nostra “materialità”, al nostro essere “carnali”, di mutarci in “esseri spirituali”: assumendo il suo “cibo di vita”, noi arriveremo gradualmente a “convertirci”, a vivere cioè non più della nostra vita, ma della Sua vita, la vera Vita.
Esattamente come la vita materiale, che ci è stata donata, anche questa vita “spirituale”, questa vita divina, è un dono. Un dono che ci viene dato non per “possederlo”, non per svilirlo limitandolo a nostro uso e consumo, ma per donarlo abbondantemente ad altri: vivere degnamente e generosamente questa nostra vita è infatti l’unico modo per sdebitarci con Dio per questo suo dono: in questo sta l’essenza della felicità. 
Una domanda: come mai in questo mondo c’è tanta gente infelice? Risposta: non hanno trovato un motivo valido, profondo, per cui valga la pena di vivere. Hanno la vita (un dono) ma non sanno metterla a frutto (non la spendono per gli altri), e quindi la dissipano giorno dopo giorno. Presi dall’euforia della mediocrità, dell’apparire, pensano di essere eterni. Ma sbagliano di grosso. La nostra esistenza è come una candela: una volta accesa, inesorabilmente si consuma; è come un arco: nasce, cresce, arriva all’apice, decresce, muore. E non abbiamo altre vite di riserva, altre esistenze di scorta. Dobbiamo farcene una ragione. Siamo decisamente degli illusi quando pretendiamo di fermare su di noi i segni del tempo, ricorrendo a falsi accorgimenti, a lifting di ogni genere, ad interventi “risolutori” di chirurgia estetica: gli anni vissuti sono quelli che sono, nessuno può cancellarli. Così pure siamo degli sprovveduti quando, per soffocare l’amaro del nostro fallimento spirituale, ci affanniamo a fare incetta di titoli onorifici, di fama, di gloria, di tutto il denaro e le rendite possibili; ma tutto è inutile: il tempo è inesorabile e prima o poi la fine arriva, e dovremo fare i conti finali con il nostro vissuto. Totò diceva: la morte è la grande “livella”, rende tutti uguali, ricchi e poveri, nobili e popolani. Ed è proprio così.
Ecco perché è tanto importante avere un valido progetto di vita, una missione esclusiva da compiere, una vera ragione per vivere: prepariamoci da subito sulle risposte che dovremo dare all'esame finale; guardiamoci allo specchio, scendiamo nel profondo della nostra anima, e chiediamoci: “È così che voglio vivere la mia vita? A cosa servo? Vale proprio la pena di continuare per questa strada?”. 
Già, perché spesso la gente (noi per primi) la “buttano via” questa vita, la investono in cretinate. Non ci rendiamo conto di sciupare stupidamente un dono impareggiabile, un dono di Dio che non possiamo buttare via impunemente. Se solo pensassimo a quanto sarebbe diversa la nostra vita se la innestassimo direttamente a quella di Dio! Quanto verrebbe “rivoluzionata” la nostra esistenza, se ci accostassimo con fede sincera all’Eucaristia domenicale!
Focalizziamo per un attimo proprio questa prospettiva. Tutti i vangeli nel descrivere l’istituzione dell’Eucarestia, o la moltiplicazione dei pani, si servono immancabilmente di tre parole sempre uguali: prendere, benedire, spezzare. Parole importanti, dense di significato, che possono illuminarci sul senso autentico della vita, sul nostro percorso per diventare "Corpo di Cristo".
1) Prendere: Gesù, nella moltiplicazione dei pani, prende quel poco che c’è: sono un nulla quei pochi pani e pesci di fronte ad una folla enorme da sfamare. Ma Egli prende comunque quello che è disponibile, anche se è pochissimo, anche se è senza valore, anche se è insufficiente per quel che gli serve. Ecco, anche noi dobbiamo imparare prima di tutto a prendere in mano il poco che siamo. A lavorare con il nulla che abbiamo. Noi però il più delle volte non l’accettiamo; vorremmo sempre essere “altri”, i ricchi, quelli più dotati: e per questo accampiamo scuse, rimandiamo continuamente ogni impegno, siamo gli eterni inconcludenti: Non ci rendiamo conto che Dio, al contrario, ci ama per quel poco che siamo. Preghiamolo allora ogni mattino, quando ci alziamo, e diciamo: “Sì, Signore, accetto anche oggi la vita che tu mi hai donato: accetto di essere quel che sono, con tutti i miei limiti e i miei difetti, perché sono certo che con il tuo aiuto potrò fare grandi cose!”.
2) Benedire, ringraziare. Eucarestia vuol dire proprio ringraziare, benedire, “dire bene”. E noi dobbiamo ringraziare Dio, lo dobbiamo bene-dire, perché ci considera una cosa bella, una cosa buona: fin dalla creazione del mondo, ogni cosa che nasceva dalle sue mani, era “tov”, era cosa bella, buona.
Anche noi, in quanto creature di Dio, siamo “tov”, siamo una cosa bella, una cosa buona. Per questo dobbiamo benedire, dobbiamo ringraziare Dio; dobbiamo farlo nella sincera convinzione di essere “tov”: di essere per Lui creature veramente belle e buone. Amiamolo e ringraziamolo per come ci ha fatti; è inutile cercare e invidiare negli altri ciò che noi non abbiamo; ammiriamo e apprezziamo piuttosto quel poco che abbiamo e che siamo. Perché è il punto di partenza per costruirci sopra la nostra vita.
3) Spezzare. Io sono un dono per me e per altri. Un dono è qualcosa di atteso, di cercato, di desiderato. Essere dono vuol dire che il mondo ha bisogno di noi, ci aspetta, vuole noi. Essere dono vuol dire che noi siamo importanti per questo mondo. In che modo? Amando i fratelli, “spezzando” la nostra vita per loro. “Amare” significa proprio questo: “spezzarsi” per gli altri; non nel senso di spezzarsi in due dalla fatica o di distruggersi per gli altri, ma di fare della nostra vita un dono, un pane spezzato e donato agli altri.
Se ogni volta che andiamo a messa, noi ci “prendiamo in mano”, ci “benediciamo” e ci “spezziamo”, allora ci “trasformiamo”, diventiamo cioè anche noi “divini”, dono di Dio per i fratelli. Siamo un dono, siamo un tesoro, siamo preziosi... ma spesso non ce ne rendiamo conto, non ci interessa. Pensiamoci. Amen.




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