giovedì 20 luglio 2017

23 Luglio 2017 – XVI Domenica del Tempo Ordinario

«Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò.» (Mt 13,24-43).

È la celebre parabola della zizzania. Gesù è costretto a spiegarla bene, non perché i discepoli non siano in grado di capirla, ma perché non vogliono capirla così com’è, non sono cioè d’accordo con quanto Gesù vuole qui insegnare con le sue parole. Si tratta, infatti, di una parabola scomoda, per certi aspetti irritante, perché prospetta una realtà difficilmente accettabile, una situazione in contrasto con la loro idea di “discepolato”.
Cerchiamo di capirne il motivo: c’è un uomo che, con fatica e sudore, ha seminato nel suo campo del buon seme. Ma il nemico, sempre pronto a colpire, durante la notte, vi semina sopra la “zizzania”: una graminacea molto simile al frumento, e quindi impossibile da distinguere finché non arriva anch’essa a maturazione: ha grani nerastri molto tossici che producono effetti allucinanti. Il riferimento alla coesistenza del bene e del male nel mondo è evidente. È naturale quindi che la prospettiva di vedere ostacolata, o addirittura vanificata, la loro missione evangelica dagli interventi velenosi del maligno, non venga presa molto bene dagli apostoli: perché accettare passivamente tale evenienza? Perché aspettare che il male metta radici e si sviluppi? Non sarebbe preferibile metterlo subito fuori causa? Certo: ma - prosegue la parabola - a voler togliere il male (la zizzania) a priori, sul nascere, si corre il grosso rischio di estirpare anche il bene, il grano, poiché le radici di entrambi sono già sul nascere strettamente intrecciate. Il messaggio è chiaro: “Dobbiamo tenere l’uno e l’altro”; dobbiamo cioè convivere con questa realtà; anche perché “Non sta a te decidere cosa è bene e cosa è male”, cosa va estirpato e cosa no; in altre parole non spetta a noi stabilire in partenza chi è buono e chi no.
In pratica, con questa parabola, Gesù intende mettere in guardia l’umanità dalla tentazione, molto diffusa anche oggi tra i seguaci delle maggiori religioni, di considerarsi gli autentici rappresentanti della volontà di Dio, i soli interpreti della sua Parola; di essere cioè a pieno titolo gli unici giusti e quindi gli unici eletti. Dio però, come rimarca Gesù, non fa di queste scelte, non ha mai discriminato i buoni dai cattivi; per Lui tutti hanno avuto ed hanno una pari dignità: quella di essere suoi figli. Punto.
Egli infatti “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti”.
Gesù, in tutta la sua vita terrena, si è sempre espresso contro la “presunzione” dei migliori, degli arroganti, di quanti cioè si ritenevano impeccabili, giusti, osservanti, e che consideravano tutti gli altri, dei peccatori, gente persa da condannare, gente sbagliata da convertire. Esempi di questo tipo sovrabbondavano: Farisei, Scribi, Maestri della Legge, erano davvero maestri nel disprezzare il prossimo. Evidentemente però, egli doveva aver notato che la stessa tentazione si stava insinuando anche tra i suoi discepoli, tra coloro cioè che, seguendolo da vicino ed ritenendosi i suoi confidenti, pensavano erroneamente di essere superiori agli altri.
Un errore, una ideologia, che purtroppo anche nella sua Chiesa, ha avuto nei secoli una grande diffusione con risultati a volte drammatici: quanti fanatici, infatti, quanti “difensori” della fede e di Dio, hanno condannato innocenti, hanno ucciso, fatto guerre per estirpare gli “eretici”, per debellare il male dal mondo? La fanatica volontà di fare il bene ad ogni costo eliminando dal mondo ogni parvenza di male, ha fomentato guerre sante, rivoluzioni, inquisizioni, epurazioni, stermini razziali, arrivando a legittimare anche le più ripugnanti crudeltà. Una religione che si ritenga strumentalmente superiore alle altre è una religione aggressiva e pericolosa; perché ogni superiorità imposta crea necessariamente inferiorità, crea pregiudizi, condanne e divisioni: di qua i buoni e di là i cattivi, da un lato gente salvata per diritto divino e dall’altro gente condannata senza appello. Ma il Dio di Cristo, ripeto, non è questo. Gesù non ci ha predicato un Dio come questo. Anzi Lui è il Padre di tutti, e ha mandato suo Figlio per tutti, per salvare tutti, ma proprio tutti.
Applicata alla nostra vita concreta, cosa ci suggerisce allora questa parabola? Che il campo su cui avviene la semina, è la nostra anima, siamo noi; e che in questo campo, nella nostra vita, crescono insieme grano e zizzania. Non possiamo vivere pensando, o sperando, di essere talmente bravi da produrre esclusivamente grano di prima scelta. Dobbiamo purtroppo fare i conti anche con la nostra zizzania, che a volte è delle peggiori. È un dato di fatto e dobbiamo accettarlo; dobbiamo cioè accettarci e amarci anche per i nostri lati oscuri, di non-luce, di non-bontà, di non-positività. È su questa dicotomia connaturale e inscindibile, che dobbiamo predisporre la nostra mietitura finale.
“Sei grano e zizzania”, ci conferma dunque Gesù. “Fai attenzione, perché se vuoi essere solo grano scelto estirpando la zizzania presente nel tuo campo, non ti rimarrà in mano niente di niente. Accettati dunque umilmente così come sei: con le tue potenzialità, con i doni che ti ho dato, con le tue risorse; ma anche con i tuoi limiti, i tuoi errori, le tue vulnerabilità”.
Non cerchiamo di strafare ad ogni costo; non cerchiamo la perfezione “in assoluto”, al di sopra delle nostre possibilità.
Cerchiamo invece di capire bene a quale grado di perfezione il Signore ci ha chiamati. È importante: perché un conto è voler essere perfetti, seguendo umilmente la nostra vocazione; un altro è mirare ad una perfezione assoluta, eroica, da “perfezionista”, che non ci appartiene: perché in questo caso otterremmo soltanto la soddisfazione del nostro “ego”, attraverso una continua e affannosa ricerca del riconoscimento e dell’ammirazione altrui. Un perfezionista di questo genere è, oltretutto, intransigente: per lui il mondo si divide unicamente in buoni e cattivi: non esistono altre possibilità. La sua vita è pertanto continuamente sotto stress, in totale ansia; spinto dalle sue vertiginose ed esclusive aspirazioni al bene, egli sarà sempre insoddisfatto di qualunque suo progresso, poiché la sua è una ricerca volta esclusivamente alla caduca bontà del finito, non a quella eterna dell’infinito, di Dio. Egli vive fuori di sé, proiettato tutto all’esterno: è uno che non ha dubbi, uno che non ascolta mai i suggerimenti della sua coscienza, che non dà alcuna importanza a quanto gli suggerisce il cuore e, soprattutto, a quanto gli ordina di fare il Dio che abita in lui.
La nostra perfezione cristiana consiste dunque nell’attuare, nel dare vita, in semplicità e umiltà, a quel progetto che Dio ha tracciato per ciascuno di noi fin dalla nascita. Un programma adeguato alle nostre possibilità, che tiene conto dei nostri difetti, delle nostre miserie, delle nostre debolezze. Del resto Gesù le cose migliori le ha ottenute proprio da persone nient’affatto perfette: da peccatori, pubblicani, prostitute, ecc. Egli non teme i nostri errori; Egli teme piuttosto la nostra insofferenza, la nostra megalomania, il nostro voler indossare abiti non nostri, decisamente fuori misura, stravolgendo in questo modo il vero senso della nostra vita.
È vero: l’uomo totalmente “perfetto” non esiste, perché tutti, chi meno e chi più, siamo esposti alle prove della vita: in alcune ne usciamo vittoriosi, in altre dimostriamo tutta la nostra debolezza. Ebbene, in questo sta la nostra perfezione: trasformare vittorie e sconfitte in atti d’amore a Dio e per i fratelli.
Dopo la morte, un uomo si presentò davanti al Signore. Con molta fierezza gli mostrò le mani: “Guarda Signore come sono pulite e pure le mie mani!”. Il Signore gli sorrise, e con un velo di tristezza gli disse: “È vero, figlio mio; ma le tue mani sono anche vuote”.
Allora non perdiamo tempo, non intestardiamoci a voler scalare a tutti i costi le alte vette di una immaginaria “perfezione”. Stiamo con i piedi per terra, accettiamo umilmente dal Signore i nostri limiti, le nostre debolezze. Concentriamoci invece sul nostro pianeggiante e più agibile campetto, coltiviamo e facciamo crescere il nostro “grano” migliore, anche se frammisto all’inevitabile zizzania. Perché questo di importante ci dice il vangelo di oggi: che possiamo tranquillamente coltivare il nostro campo e portare a maturazione dell’ottimo grano, pur se frammisto alla zizzania. In altre parole, il nostro impegno costante di dedicarci alle opere di Dio e al bene del prossimo, sarà sufficiente a farci compiere grandi passi sulla via della perfezione, anche se nella nostra vita, c’è tanta, ma tanta “zizzania”! 
Amen.



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