giovedì 10 agosto 2017

13 Agosto 2017 – XIX Domenica del Tempo Ordinario

«La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Mt 14,22-33).

Siamo sulla ridente collinetta che dolcemente scende fino alla riva del Lago di Tiberiade: qui Gesù ha appena compiuto un altro prodigio strepitoso, sfamando la grande ressa di persone che ogni giorno lo seguiva, moltiplicando i pochi pani e pesci a sua disposizione. La folla presente, spinta da un generale entusiasmo, si lascia andare ad un crescente e tumultuoso delirio di approvazione, di aperta ammirazione: e questo preoccupa Gesù; Egli teme per l'incolumità dei suoi, consapevole che ai Romani questo genere di assembramenti non sono graditi, temendo possibili insurrezioni. 
Gesù allora congeda in tutta fretta la folla, e ordina ai suoi di salire su di una barca e di prendere il largo, raggiungendo la riva opposta: anche perché, dopo le ultime esperienze esaltanti, egli ritiene che sia giunto per loro il momento di tornare alla realtà, devono cioè sperimentare su quella barca un’esperienza meno esaltante, decisamente contraria, traumatica. Lì infatti essi dovranno combattere contro i venti di burrasca, contro la violenza delle onde; e lo dovranno fare da soli, senza la presenza rassicurante di Gesù. Lì ognuno si troverà improvvisamente solo con se stesso, e in se stesso ognuno dovrà trovare la forza e le energie per imparare a lottare, a superare qualunque contrarietà.
Una chiara indicazione per tutti noi. Durante la nostra vita, infatti, capiterà a tutti prima o poi di trovarci nella solitudine più completa, di vivere momenti di smarrimento totale, in cui sarà necessario trovare da soli la soluzione ai nostri problemi.
È la “notte fonda” cui allude il vangelo: e in quella notte una tempesta improvvisa si abbatterà su di noi: non avremo più alcuna possibilità di evitarla, saremo costretti ad affrontarla, dovremo per forza entrarci dentro: e allora toccheremo con mano tutta la fragilità della nostra “barca”: saremo, come gli apostoli, in balia del vento impetuoso, delle onde vertiginose, e saremo sbattuti senza sosta da marosi violentissimi. È impossibile far finta di nulla: sono i nostri “mostri”; solo noi possiamo affrontarli; solo noi possiamo conoscere e dominare le nostre ansie, le nostre angosce, le nostre pulsioni. Dobbiamo imparare a gestirle, a indirizzarle correttamente. Non possiamo scappare sempre, non è possibile. Non c’è sempre l’amico di turno o lo psicologo pronti per noi, e non è neppure giusto che ci siano. Non possiamo sempre “scaricare” i nostri pesi sugli altri. Non possiamo sperare di risolvere tutto con pasticche, antidepressivi, tranquillanti. Arriverà il momento in cui dobbiamo misurarci con la dura realtà. È la nostra vita! Ci troveremo in quel particolare momento in cui tutto sembrerà perduto, in cui ci sentiremo persi, senza riferimenti; non sapremo più dove andare, dove sbattere la testa, tutto sembrerà crollarci addosso: non vedremo più alcuna luce, non avremo più alcuna speranza. Come Pietro sentiremo solo l’infuriare della tempesta, e la nostra fede, il nostro cristianesimo di facciata, improvvisamente crollerà, verrà meno, sprofonderà. Ci sentiremo impotenti, paralizzati, tutto sembrerà inutile, tutto irrecuperabile. E invece no. Oggi il vangelo ci fa capire qualcosa di incredibilmente consolante, di assolutamente straordinario: “amate le vostre tempeste”. Dobbiamo cioè accettare le nostre tempeste, le piccole e grandi avversità della nostra vita, guardandole in positivo: certo, le calamità, le tragedie, non sono mai simpatiche: sono dure, difficili da accettare, spesso dolorosissime; ma sono utili, necessarie, talvolta fondamentali. Perché lo scatenarsi di uragani e tempeste sulla nostra traversata, ci obbliga necessariamente a rivedere il nostro stile di navigazione, pena il subire un totale naufragio e colare a picco. Se davanti a noi il mare fosse sempre calmo, il vento sempre favorevole, noi continueremmo tranquilli a seguire in automatico una rotta sicuramente più piacevole, più “turistica”, più comoda: una rotta però che molto spesso invece ci condurci dritti al porto finale, ci fa inutilmente perdere la “bussola”, portandoci a girovagare senza meta per spiagge festaiole, con l’unico risultato di allontanarci da Dio, dalla sua amicizia, dal suo amore,
Ecco allora come una “tempesta”, un evento critico della nostra vita, possa talvolta costituire per noi la soluzione vincente, quella cioè di cercare rifugio tra le braccia del Padre. Ben venga allora quella tempesta!
Certo, all’inizio, difficilmente capiremo che in quella prova ci aspetta Dio: invece di riconoscerlo, lo scambieremo per “un fantasma”, un mostro, un demonio, una maledizione, una disfatta. E avremo paura. Ma in realtà è proprio Dio. È Lui che sta dietro a tutto, ad ogni cosa che ci riguarda; è Lui che ci spinge, se necessario, anche nei “luoghi deserti”, nel bel mezzo di qualche “tempesta”. E lo fa non perché ci vuole male ma proprio perché ci vuole bene. Perché vuole che cambiamo, che riprendiamo personalmente in mano il timone della nostra nave. Perché vuole che torniamo ad essere autentici, sinceri, convinti, innamorati; vuole cioè che torniamo ad essere quelli per cui ci ha creati: “sua somiglianza”.
È in questo senso dunque che il vangelo ci dice di amare le “tempeste”, anche le più dure. Inutile tergiversare, inutile rimandare continuamente: non c’è cosa peggiore di vivere con la paura costante di prendere in mano la propria vita, con il terrore di confrontarci con il proprio “io”. Non ci rendiamo conto che così facendo rinunciamo a dare una nostra impronta, un tocco personale, alla vita; la subiamo soltanto, ci abbandoniamo alla corrente, ci lasciamo fagocitare dagli eventi, siamo solo dei deficienti (nel senso di “deficere”, venir meno): siamo, in una parola, dei parassiti.
Ad un certo punto dobbiamo prendere il toro per le corna. Punto. Inutile piagnucolare: “è difficile; è impossibile; non ce la posso fare”, e continuare a “pregare” Dio di tirarci fuori, di fare il miracolo. Come se Dio dovesse stare a nostra disposizione con i miracoli in mano. Ma Dio non è lì per risolvere i problemi al nostro posto; è lì per darci comunque la forza di risolverli da soli. Quando siamo nell’occhio del ciclone, in piena tempesta, Lui ci dice: “Coraggio, sono io, non aver paura”. Una frase importante quel “sono io”: il verbo greco “eimì” indica sì un presente, ma anche un passato (“Io sono colui che è sempre stato”), e insieme un futuro (“Io sono colui che sarà”). In altre parole, Lui, nostro Padre, è sempre presente: lo è sempre stato, lo è e lo sarà in futuro.
È l’esperienza di Pietro: egli (come noi) non crede che “quel fantasma” sia il Signore: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. E Gesù gli dice: “Vieni”. Ed ecco il miracolo della fede: Pietro riesce a camminare sulle onde in tempesta, le domina. Se abbiamo vera fede, ciò che prima ci sembrava indomabile, catastrofico, distruttivo, improvvisamente diventa affrontabile, addomesticabile. Non è “un miracolo” che piove dall’alto: è un miracolo che nasce da noi, è il miracolo della nostra fede. Dio infatti non ci toglie le difficoltà della vita, ma ci dà la forza di affrontarle, perché Lui è con noi. E noi crediamo a questo. Ma la nostra deve essere una fede ferma, autentica, incrollabile, altrimenti ripetiamo l’errore di Pietro: nel momento stesso in cui distoglie lo sguardo da Gesù, impaurito dai pericoli che lo circondano, la sua fede viene meno, e affonda. Nel momento in cui pone l’attenzione, più che su Gesù, sulla forza del vento e del mare, egli cola a picco. È così anche nei drammi della nostra vita: se noi guardiamo al pericolo, alla prova, affondiamo; ma se guardiamo a Dio, ne usciremo sempre vincitori: “Ci sono io, non aver paura. Insieme possiamo affrontare qualunque cosa, fidati di me”.
E concludo. Ogni mattina quando ci alziamo, facciamo il segno della croce. Non facciamolo per abitudine, ma diamogli un significato sincero e profondo: “Non so cosa affronterò oggi ma so che tu Dio sei con me”. E allora sentiremo vibrare nel cuore la sua risposta che ci tranquillizzerà: “Qualunque cosa ti succeda, non aver paura, io sono al tuo fianco”. Un atto che non deve avere valore scaramantico, fatto per tener lontani eventuali problemi: ma una dimostrazione di assoluta fiducia in Lui, che sola ci fa affrontare serenamente la vita. Poiché, fintanto che Lui è al nostro fianco, i nostri passi non vacilleranno.
Del resto nella vita non abbiamo molte possibilità: o ci facciamo guidare dalla paura, dall’insicurezza, dall’ansia, oppure ci lasciamo guidare dalla fiducia, dalla fede in Dio. Con la paura non andiamo da nessuna parte: affondiamo immediatamente, perché ci fa vedere nemici dappertutto, pericoli in ogni dove, ci insinua dubbi sui fratelli, ci fa vedere solo nemici. Al contrario la fede è salvezza, è camminare sicuri, è guardare avanti con cuore saldo.
Diceva un vecchio saggio: «Bussarono alla porta. La paura andò ad aprire e fu divorata. Bussarono alla porta. La fede andò ad aprire: non c’era nessuno». “Si nobiscum Deus, quis contra nos? – Se Dio è con noi, chi potrà essere contro di noi? (Rom 8,31). Ecco, questa deve essere la nostra certezza quotidiana. Amen.



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