venerdì 29 settembre 2017

1 Ottobre 2017 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario

In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli» (Mt 21,28-32).

La tensione e la conflittualità tra Gesù e i capi del popolo (scribi, farisei, anziani, sommi sacerdoti), in quest’ultima parte del vangelo di Matteo, è altissima. Gesù, scagliandosi contro il loro perbenismo e la loro ipocrisia, dice cose tremende, inaccettabili per della gente che faceva parte del sinedrio, che si considerava pura, religiosa, pia, esemplare, e quindi intoccabile.
Tacere, ignorare, soprassedere, non rientra nello stile di Gesù: quello che non va, che non è lecito, deve essere rimosso: solo così si può ricominciare su basi corrette.
È dunque questo il contesto che offre lo spunto alla parabola di oggi.
Un racconto semplice, ma ricco come al solito di insegnamenti: c’è un padre con due figli ai quali impartisce lo stesso ordine: “Va’ a lavorare nella vigna”. Il primo, gli dice subito “Sì”, ma non ci va. È un figlio ossequioso, educato, e con molto fair play: risponde subito al padre affermativamente (mai contraddirlo!), ma poi, come se nulla fosse, fa di testa sua e non ci va.
Il secondo, invece, in maniera maleducata e insolente gli risponde: “No!”; ma poi, ripensandoci, si pente, cambia idea (metamelétheis) e obbedisce.
È chiaro che nessuno dei due ha voglia di andare a lavorare. Ma mentre il primo, da figlio educato, attento alla “forma”, risponde in maniera contraria a quanto realmente pensa in cuor suo (il suo “sì” esteriore equivale ad un “no” interiore), il secondo invece, incurante dei sentimenti del padre, è coerente con se stesso, e gli dice senza tanti preamboli quello che di getto gli esce fuori: “nossignore!”; ma subito dopo si rende conto di aver sbagliato, capisce che il suo dovere è di ubbidire al padre, quindi torna sulla sua decisione, e il suo “no” diventa un “sì”.
“Chi dunque ha compiuto la volontà del padre?”, chiede Gesù. E tutti dicono: “L’ultimo”.
E non può che essere così. Se invece giudichiamo i due comportamenti fermandoci in superficie, al solo comportamento esteriore, alle belle parole, alla gentilezza, il primo merita sicuramente una valutazione più che positiva, contrariamente al secondo che, grazie ai suoi modi sgarbati, maleducati, altezzosi, può ottenere solo una netta disapprovazione. Ed è proprio in tale prospettiva che appare subito evidente quello che Gesù vuol dirci con questa parabola: non sono le buone intenzioni, i modi aggraziati, le belle parole, le apparenze esteriori che contano: quello che conta è il risultato, sono i fatti, è quello che si fa nella vita reale di ogni giorno. Il riferimento al modo di fare dei sommi sacerdoti, degli anziani del popolo, degli scribi e dei farisei, che vendevano tutti soltanto fumo, apparenza, esteriorità, senza alcun riscontro interiore, è forte e chiaro.
Di loro infatti aggiunge:“I peccatori pubblici (pubblicani) e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”. Inaudito, sbalorditivo, per quel tempo, riferirsi agli operatori del sacro in questi termini: sarebbe come se oggi Gesù dicesse ai cardinali, ai vescovi o ai preti: “Le prostitute sono meglio di voi!” (anche se in alcuni casi direbbe la verità!).
Ma Gesù non ce l’ha a priori con i religiosi, con i consacrati, con gli addetti al sacro. Semplicemente non fa sconti a nessuno. Ma perché proprio le prostitute passeranno loro avanti? Non poteva dire gli assassini, i ladri, i delinquenti ecc.? Semplicemente perché qualche giorno prima era rimasto molto colpito nel constatare il sincero pentimento di una di loro. Lo spunto infatti gli viene suggerito dall’episodio, riportato da Luca (Lc 7,36-50), in cui “una di quelle”, una prostituta, lo va a trovare. È chiaro che con la sua vita, con la sua condotta di pubblica peccatrice, lei dimostra di non tenere in alcun conto gli insegnamenti e la persona di Gesù. Il suo è un “no” evidente. Eppure nel comportamento riservatogli in quell’occasione, Egli legge nel suo cuore un chiarissimo, inconfondibile “sì”, un’apertura a Dio, un pentimento sincero, una ferma decisione di redimersi: sappiamo che Gesù stava mangiando a casa di Simone, un fariseo, uno dei puri per definizione; quando improvvisamente questa donna, apertamente impura, entra e si butta ai piedi di Gesù: li lava con le lacrime e li asciuga con i suoi capelli. Certo, per chi guarda le apparenze, i suoi sono gesti molto accattivanti, sensuali, quasi lascivi: ma la donna usa queste sue arti del mestiere per dimostrare qualcosa di più autentico, di più profondo, il suo pentimento, il suo amore. Quello che esteriormente appariva sacrilego, un invito provocante a peccare, grazie alla sua trasformazione interiore, al suo sincero ravvedimento, diventa fede e riconoscenza per Gesù. E poiché Egli non guarda all’apparenza esteriore, poiché guarda “dentro”, guarda il cuore, le dirà: “La tua fede (=ciò che hai fatto) ti ha salvato”.
Per i puri, gli impeccabili, i religiosi del tempio, la fede era ciò che l’uomo “fa” per Dio: per Gesù, invece, la fede è ciò che Dio “fa” per l’uomo. Così, Gesù non vede una prostituta; vede una donna, che ha bisogno d’amore, di accettazione e di perdono. E lui glielo dà. Gesù vede una donna che ama come può, ma ama; una donna che ha un cuore che batte, che è viva. E questo gli basta.
Nei farisei e nei religiosi di allora Egli vede invece molto risentimento, falsità, comportamenti malvagi. Preferisce i pubblicani e le prostitute: non perché approvi ciò che fanno, ma perché questa è gente che faticosamente, umilmente, con tanta buona volontà, prova a redimersi. È gente che si butta ai suoi piedi, che piange, che si dispera; gente che non teme di mostrarsi per quello che è, che non si vergogna, che non nasconde dietro una bella facciata le proprie miserie, i propri disagi, le proprie ferite. Gente che si accorge di aver sbagliato, gente che cambia vita. Gente dal cuore grande, che arriva a fare follie: perché chi ama sul serio, chi è veramente innamorato, arriva a fare anche l’impossibile.
Sono i gesti dell’amore: folli per chi ha il cuore duro, rigido, insensibile, ma normali gesti di carità, di misericordia, di vita, per chi dice “sì” a Dio.
Un’ultima cosa: abbiamo mai fatto caso come ogni qualvolta Gesù va in chiesa (in sinagoga) nasca sempre un problema? Anzi, che dopo quel giorno in cui, pieno di rabbia, ha buttato tutto all’aria, non ci sia più andato? Perché? Perché il grande pericolo di ogni chiesa, in ogni tempo, ieri come oggi, è quello di trasmettere solo prediche, belle parole, regole e comportamenti esteriori, tralasciando la cosa più importante: quella di trasmettere, di far sperimentare, di far vivere, di far “sentire” Dio nei cuori di ciascuno. Le parole di una predica, di un’omelia, ancorché perfetta, si fermano all’esterno: ma all’esterno non c’è vita. Rimangono vuote, sterili, gettate al vento. Non portano ad amare Dio nel profondo del cuore, nell’intimo dell’anima, dove palpita la vita; eppure quello è il suo posto, il posto che Lui ama: Lui è là dove nasce il dolore, dove sgorga la gioia; là dove la gente si commuove, dove chiede scusa, dove si mostra per quello che è, senza vergognarsi e senza nascondersi; là dove la gente non ha un’immagine esteriore da difendere, una maschera da esibire. Gesù sta dove nasce e cresce la vita, perché Lui stesso è Vita, e non può che stare lì. Amen.



giovedì 21 settembre 2017

24 Settembre 2017 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

«Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?» (Mt 20,1-16).
Il Vangelo di oggi ci racconta di un padrone che in varie ore del giorno, dall’alba fino al tardo pomeriggio, esce di casa e ogni volta assume nuovi operai per lavorare nella sua vigna, concordando con i primi la paga di un denaro. Venuta la sera, egli inizia dagli ultimi assunti, a consegnare loro il compenso di un denaro. Giunto il turno di quelli ingaggiati all’alba, consegna anche a loro lo stesso importo: un denaro. A questo punto, quelli che hanno lavorato l’intera giornata, insorgono e accusano il padrone di comportamento ingiusto. Al che il padrone, prendendo il più esagitato, gli dice: “Amico, perché urli tanto? Quello che hai ricevuto non corrisponde forse a quanto abbiamo concordato?”. “Sì!”. “Per caso ti ho tolto qualcosa?”: “No!”. “E allora, cosa vuoi da me? Prendi ciò che è tuo e vattene. Non posso fare ciò che voglio con quello che è mio?”.
Ecco: Gesù vuole dare un insegnamento preciso ai suoi discepoli. Egli conosce bene le loro aspettative. Poco prima lo stesso Pietro gli aveva offerto l’occasione per affrontare questo discorso: interpretando anche il pensiero degli altri, gli aveva detto esplicitamente: “Noi per seguirti abbiamo abbandonato tutto, casa, lavoro, famiglia; cosa ci darai in cambio?” (cfr. Mt 19,27). Pietro ragiona con la mentalità del tempo: Dio premia i giusti e castiga i cattivi. Pertanto, poiché lui e gli altri discepoli sono “giusti” (hanno seguito Gesù senza alcun indugio), egli rivendica per tutti un trattamento di favore: “siamo sempre con te, ti seguiamo ovunque, facciamo molto più degli altri: cosa ci riserverai allora più di loro?”.
Gesù però non ha mai detto nulla, neppure una parola, che facesse anche solo pensare a cose di questo genere. Ha detto invece: “Il Padre vostro che è nei cieli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, fa piovere sui giusti e sugli ingiusti”; e ancora: “Mio Padre ama tutti, buoni e cattivi”.
Quindi nessuna pretesa di ottenere particolari riconoscimenti per quanti lavorano nella sua vigna, sia che lo facciano dalle prime ore del giorno (da ragazzi), che da quelle del tardo pomeriggio (già anziani): del resto l’amore (la paga) che Dio riserva a tutti i suoi lavoratori, supera di gran lunga qualunque loro aspettativa: li soddisfa a tal punto da escludere qualsiasi altro desiderio.
Una parabola molto significativa, quella di oggi, che contiene tra l’altro due messaggi particolarmente importanti per noi; anzi addirittura fondamentali.
Il primo ci dice che “stare” con Gesù, “accompagnarlo”, non vuol dire necessariamente “seguirlo”. Gli apostoli per esempio durante la vita pubblica di Gesù, lo accompagnavano, stavano sempre con lui, ma non lo “seguivano”. “Seguire” infatti è capire, far penetrare nel proprio cuore il suo messaggio, attivarsi per metterlo in pratica, in una parola amare il suo Vangelo e viverlo.
Si racconta in proposito di un santo abate che guidava molte centinaia di monaci, sparsi nei vari monasteri da lui fondati; un giorno gli chiesero quale fosse il numero complessivo dei suoi monaci, ed egli rispose: “Quattro o cinque al massimo!”.
Troppa gente purtroppo “accompagna” semplicemente Gesù”: va in chiesa, prega, gli rivolge inni e orazioni, ma non lo “segue”: non è imbevuta cioè del suo vangelo, non segue con il cuore i suoi insegnamenti. A fine giornata si presentano alla "cassa" come instancabili lavoratori, assidui operatori del sacro, anche se in effetti non hanno mai lavorato, non hanno mai sopportato alcun disagio nella loro sequela, alcun “pondus diei et aestus”, anche se sono quelli della prima ora; la loro aspettativa di premio è pertanto improponibile: se paga buona ci sarà, dipenderà unicamente dalla generosità del Padre, non certo dalle loro pretese.
La seconda indicazione, altrettanto fondamentale, conferma e chiarisce la prima: Dio cioè ama tutti indistintamente, sia coloro che lo “seguono” dal mattino della vita, sia quelli che rispondono alla sua chiamata della sera. Nessuno deve aspettarsi trattamenti preferenziali: non è la durata o la difficoltà del servizio che fa aumentare i meriti: “Voi che mi seguite, non siete migliori degli altri”. Dio cioè non ci premia, come pensiamo noi, per la nostra bravura, per la nostra obbedienza più duratura, più coerente. Il premio finale del suo amore eterno è destinato, in ugual misura, a tutti i “lavoratori”: sia della prima che dell’ultima ora. C’è un’unica condizione essenziale che ci qualifica per la ricompensa: essere “lavoratori” di “qualità”, non di “quantità”.
Un principio che ci è difficile condividere pienamente. Scriveva Orwell: “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”: una verità che ci trova sicuramente più consenzienti: in pratica è quello che pensiamo noi “battezzati”: Dio ama tutto il genere umano, è vero; ma sicuramente i “segnati”, i prediletti, quelli che praticano il Vangelo, i santi, Dio li ama sicuramente più degli altri. Niente di più falso: le parole di Gesù non permettono fraintendimenti: “I pubblicani (i peccatori) e le prostitute, vi passano davanti nel regno di Dio” (Mt 21,31). Questa è la verità, e dobbiamo accettarla umilmente. Invece quanti “cristiani”, ancorché pii e religiosi, non sanno capacitarsi: “non è giusto – dicono - che chi si converte sul letto di morte, all’ultimo momento, dopo una vita intera passata nel peccato, riceva lo stesso nostro trattamento; non è giusto cioè che anche lui possa andare in paradiso come noi che abbiamo faticato tutta la vita!”.
Purtroppo è la nostra radicata mentalità meritocratica che ci porta a pensare così: “Io ho pregato tanto, io sono sempre andato in chiesa, io ho fatto questo, io ho fatto quello: è impossibile che Dio non mi ami più di quelli che non hanno fatto nulla!” No, Dio non ti ama “di più”. Dio ti ama, punto. E come te ama anche tutti gli altri. Pensare diversamente significa essere schiavi dell’invidia, significa provare per gli altri soltanto del rancore.
Ed è anche su questo aspetto che Gesù, con questo messaggio, vuol metterci in guardia: “Sei anche tu invidioso perché io sono buono con tutti?”. Già, l’invidia: non è un paradosso il suo, non allude ad una situazione inverosimile. Non capita forse proprio a noi di “prendercela” a male, di offenderci ogni volta che qualcuno “sceglie” un altro al posto nostro? Non capita proprio a noi di arrabbiarci perché altri sono più fortunati? Di “legarcela al dito” perché qualcuno ha invitato altri e non noi ad un evento cui tenevamo molto? Sì, capita anche a noi; anche noi siamo invidiosi: e lo siamo perché, come i bambini, pretendiamo di essere sempre i primi, i preferiti, gli unici. Ci sono persone che sprecano la vita per rincorrere modelli di vita impossibili, pur di sentirsi ammirati, pur di passare per qualcuno “che conta”. Purtroppo non arriveranno mai all’apice dei loro sogni, perché nella loro ansia di primeggiare, troveranno sempre sulla loro strada qualcuno con cui devono continuare a confrontarsi.
Quello che conta, invece, è che noi siamo una realtà unica: noi siamo noi e nessun altro. Ogni volta che vogliamo essere come gli altri, decretiamo il nostro fallimento: significa che ci sottovalutiamo, che non ci riconosciamo uguale valore e dignità. Ci dimentichiamo che l’essere noi stessi è il nostro più grande valore. Non serve a nulla confrontarci con gli altri: nella vita ci sarà sempre un vincente e un perdente, un superiore e un inferiore. Ma noi siamo noi: sviluppiamo allora quello che siamo; valorizziamo le nostre doti, le nostre risorse, i nostri talenti. Più saremo impegnati in questo, meno tempo avremo per guardare fuori di noi, per fare confronti con quello che sono gli altri. Chi è felice di sé non prova invidia per nessuno. Noi siamo amati. Le persone ci amano, Dio ci ama: non perdiamo tempo a quantificare se di più o di meno degli altri. Siamo amati e questo ci basti! Ringraziamo piuttosto e benediciamo Dio; gioiamo e riempiamoci il cuore di questa certezza. Che significato ha continuare a prendercela con Dio se la nostra vita non è come vorremmo? Se non è “di più” di quella degli altri? O forse siamo invidiosi anche di Dio perché pensiamo che non sappia fare il suo mestiere?
Un bambino, sulle scale di casa, giocava a “fare il prete” insieme ad un suo amichetto. Tutto andò bene finché l’amico, stufo di fare il chierichetto, salì su di un gradino più in alto del suo e cominciò a predicare. Il bambino naturalmente lo rimproverò bruscamente: “Solo io posso predicare, tocca a me, perché io sono il prete”. Allora l'amico più piccolo gli disse. “Ma io sono il vescovo, e predico perché sono su un gradino più alto del tuo!”. L’altro lo guardò, fece silenzio e decretò: “Va bene, tu sei il vescovo e puoi predicare; ma ricordati che io sono Dio!”.
Se ci riduciamo a pensare che la vita sia soltanto una questione di scale, passeremo tutto il nostro tempo a sgomitare continuamente sui gradini, cercando di salire sempre più in alto degli altri: ma le scale della vita non sono infinite; prima o poi ci accorgeremo della nostra stupidità; ci accorgeremo di aver sprecato tutto il tempo per raggiungere posizioni precarie sempre più ambiziose, rinunciando a godere dei doni veri, delle bellezze meravigliose, dell’amore profondo che Dio ci ha messo a disposizione gratuitamente in questa nostra vita. Amen.


giovedì 14 settembre 2017

17 Settembre 2017 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario

«Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».
Il Vangelo di oggi continua a proporci insegnamenti per la nostra vita “comunitaria”. Domenica scorsa ci ha dimostrato quanto sia importante in una comunità ascoltare le ragioni del proprio fratello, rapportarsi con lui; quanto sia importante aprirgli il nostro cuore e accogliere il suo. Oggi ci offre un ulteriore approfondimento del tema: uno dei modi più efficaci per esprimere l'amore, è il perdono.
A Pietro, come al solito, la teoria non basta, egli vuol saperne di più, avere certezze, vuol vederci chiaro, nero su bianco. «Quante volte devo perdonare?». Egli ha capito perfettamente che bisogna perdonare: ma quali sono i limiti di questo perdono? Egli pensa di mettersi in linea con la predicazione di Gesù, andando oltre le tre, quattro volte, previste dall’antica legge (come per es. in Amos 2,4 e Giobbe 33,29) e, per tenersi sul sicuro, propone “sette volte”. Ma la risposta di Gesù va ben oltre: rovesciando il canto di Lamech che prevedeva un crescendo di violenza scatenata dal gesto di Caino: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette…» (Gn 4,24), Gesù fa capire quali impensabili risorse di misericordia siano legate all’avvento del suo Regno:«Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette». In altre parole, caro Pietro, non hai scampo: devi perdonare sempre! Perché? Semplice: il perdono non è frutto di un gesto eroico che nasce dal grado di bontà del discepolo, ma è la logica conseguenza di chi si rende conto di quanto perdono, lui per primo, abbia ricevuto dal Signore... Chi si guarda un po’ dentro, e vede quanto male gli è stato perdonato, non può esimersi dal perdonare a sua volta qualunque torto. Quindi l'unica misura del perdono è perdonare sempre, senza misura e senza calcoli, perché è così che Dio fa con noi. La nuova giustizia che Gesù introduce nel Regno, infatti, non è quella che ristabilisce la parità, in base alla regola “chi sbaglia paga”; la sua è una giustizia superiore, è la giustizia propria di chi ama senza limiti. Egli sostituisce la giustizia della legge che uccide, con la sua, quella dello Spirito che dona vita.
Perdono incondizionato, dunque. Ma cos'è il perdono? È possibile il perdono? Come si giustifica? Come viverlo? Cerchiamo di chiarire un po’ questi interrogativi.
Per ciascuno di noi è una cosa naturale, istintiva, reagire alle offese degli altri e in qualche modo vendicarci, anche se si tratta di piccole cose. Se poi subiamo torti o azioni cattive più gravi, lesioni alla nostra dignità, alla salute o alla vita nostra e dei nostri cari, sentiamo non solo il bisogno di far valere le nostre ragioni giudizialmente (e fin qui può andare bene), ma soprattutto di affrontare con altrettanta durezza e cattiveria il responsabile, per fargli pagare ad ogni costo il “male” che abbiamo ricevuto. Ma è una soluzione che non paga. Perché ci fa cadere inevitabilmente in quel meccanismo in cui il male richiama altro male, la violenza (di qualunque tipo) richiama e moltiplica violenza; in questo modo non plachiamo certamente l’odio, ma lo alimentiamo facendolo crescere sempre più; inoltre l’idea della vendetta ci illude, ci corrode l’anima, inducendoci a pensare che è lei, la ritorsione, a rimettere le cose a posto; ma il risultato è ingannevole perché ci fa vivere nel tormento, con l'inferno nel cuore. Conosciamo tanti piccoli casi intorno a noi: vicini di casa che hanno litigato per un nonnulla e lasciano passare anni, decenni, senza scambiare una parola, un saluto; genitori e figli che interrompono ogni rapporto per motivi futili e banali; fedeli impegnati nella parrocchia, attivi nella pastorale e nel volontariato, che si dilaniano l’anima per soprusi o per sgarbi di “lesa maestà” inesistenti; fratelli e sorelle apertamente ostili tra loro, che al momento della pace nell’Eucaristia domenicale, invece di aprirsi all’amore e alla misericordia secondo l’insegnamento di Gesù, preferiscono fingere e mantenere immutato nel cuore tutto il loro rancore. Ciascuno rimane orgogliosamente arroccato sulle proprie posizioni, su versanti di vita diametralmente opposti. Eppure il perdono è l'unica strada, umana e cristiana, che ci assicura una vita vera, autentica, serena e felice. Vi sono poi altre situazioni ben più dolorose e strazianti, come rovinare per capriccio la vita e la serenità di una famiglia, rubando l’amore del marito o della moglie, oppure causare per gioco, per superficialità, la morte di un figlio, di una persona cara. Cosa fare allora? Come gestire queste gravi situazioni? Come continuare a vivere, dopo aver subito azioni così distruttive? Ebbene, nel perdono non ci sono eccezioni, non ci sono “distinguo”: sempre, anche in questi casi, dobbiamo perdonare. Dobbiamo farlo noi per primi, portando gli altri a fare altrettanto. Sembra impossibile, non è vero? Certo, umanamente parlando, visto dall’esterno, il perdono può sembrare un gesto eroico, irrazionale. Ma a ben vedere, non è altro che un gesto di equità, un concedere all’altro lo stesso beneficio che noi abbiamo già ricevuto da Dio in larghissima misura. Difficile da praticare, questo si. Ma Gesù ci dimostra continuamente che tutto quello che gli uomini non riescono a fare da soli, lo possono sempre fare con il Suo aiuto. Per questo dobbiamo chiedergli la forza di cui abbiamo bisogno.
Molti pensano che perdonare sia un atto riservato a chi ha molta fede, a quanti sono già avanti nel difficile cammino della perfezione. Nossignori. Il perdono è un atto che tutti possono e devono fare: un impegno forte, che deve normalizzare la nostra vita, il nostro modo di pensare, il nostro relazionarci, il nostro vivere da cristiani. Certo non è una cosa naturale, spontanea, semplice, quanto piuttosto un gesto irrazionale, contro natura, incomprensibile: esattamente come lo è l’intero messaggio evangelico di Gesù. Egli, perdonando e scagionando contro ogni logica umana i suoi torturatori, i suoi carnefici, ci ha lasciato il più sublime esempio di perdono: ecco perché le sue non sono raccomandazioni astratte, ma vita vissuta, scuola pratica che tutti possono e devono seguire.
Il cristiano è chiamato a perdonare, sempre e in ogni caso, soprattutto perché Dio lo ha sempre fatto, e continua a farlo con lui. Inoltre il vangelo di oggi, con la sproporzione del debito dei due servi, (migliaia e migliaia di talenti contro pochi denari) ci ricorda proprio l’enorme divario che esiste fra il perdono di Dio e il nostro. Ecco: noi siamo chiamati a perdonare perché siamo dei “perdonati”, perché noi per primi abbiamo fatto e facciamo esperienza continua del gratuito perdono di Dio, non certo perché siamo più buoni, più cristiani degli altri. Non dobbiamo perdonare per dimostrare qualcosa a qualcuno; ma solo perché anche noi abbiamo bisogno assoluto di perdono, e perché portare rancore, fa più male a noi che agli altri. Sicuramente il nostro perdonare, come quello di Gesù, rischierà di essere ridicolizzato dalla gente, forse ci verrà rinfacciato come segno di debolezza, di meschinità. Poco importa: chi ha incontrato sulla propria strada il grande perdono di Dio, non può sottrarsi dal guardare sempre suo fratello con amore e comprensione.
È in questo senso che dobbiamo leggere il famoso detto di Paolo: “dove abbonda il peccato, sovrabbonda la grazia!” (Rm 5,20). Il perdono che, da peccatori perdonati, accordiamo ai fratelli, diventa in noi il “respiro di Dio”, diventa cioè quello Spirito divino che alimenta la nostra vita. Una comunità è “osservante”, è “santa”, non perché i suoi membri sono perfetti cristiani, assidui praticanti che non sbagliano mai e non mancano di rispetto a nessuno; ma perché tutti, consapevoli di essere loro stessi dei “perdonati”, perdonano immediatamente a loro volta gli altri, ricambiando qualunque offesa con l’amore. In questo modo, e può sembrare assurdo, il male reciproco che troppo spesso ci facciamo, non costituisce un elemento dirompente di divisione ma, nel reciproco perdono, diventa il collante che ci unisce saldamente in Cristo.
Anche a noi succede di essere dei giudici giusti ma spietati, onesti ma scorretti! Non basta infatti praticare la giustizia umana per essere uomini perfetti, e men che meno per essere figli di Dio. Se capiamo che il perdono guarisce, matura e fortifica soprattutto chi lo esercita, cioè noi, e non coloro che lo ricevono, allora capiremo che perdonare significa fare soprattutto il nostro interesse!
E concludo: Gesù suggella il suo insegnamento, proponendoci una pietà, una misericordia, un perdono, razionalmente incomprensibili quanto si vuole, ma di una coerenza estremamente semplice: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”
Due sono dunque i motivi per cui dobbiamo avere pietà e perdonare: per conquistare il cuore di Dio e per introdurre nell’apparente equilibrio di questo nostro mondo garantista, il “disordine divino”, scompaginante, del suo messaggio d’amore. E dobbiamo farlo col cuore. È difficilissimo perdonare veramente di cuore: comporta prima di tutto un profondo atto di fede con cui dare fiducia assoluta all’altro, senza tenere conto del passato, ma guardando solo al futuro. Esattamente come Dio fa con noi. Dio infatti ci perdona per un suo preciso atto di fede, Egli crede in noi, si fida di noi! Perdonandoci, Egli investe su di noi, conta sul nostro cammino di perfezione. E allora, come non rispondere positivamente al suo invito di essere operatori di bontà?. Amen.



giovedì 7 settembre 2017

10 Settembre 2017 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario

«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello…» (Mt 18,15-20).
Il Vangelo di oggi ci rivela un Matteo preoccupato di veicolare gli insegnamenti di Gesù alla comunità del suo tempo. Il suo è un tentativo di “tradurre” lo spirito di Gesù in comportamenti e regole, destinati ai suoi contemporanei, a uomini che hanno vissuto più di duemila anni fa, in un ambiente e in una cultura molto diversa dalla nostra. Le sue sono regole destinate a mutare nel tempo, in quanto legate ad una particolare cultura. Quello che deve interessare a noi, e che rimane immutato nei secoli, è invece il messaggio di Gesù, quello che scaturisce dal suo insegnamento e dalla sua vita.
Ecco allora che il senso profondo del Vangelo di oggi ci deve impegnare tutti, perché nella sua semplicità, comporta uno sforzo costante, per nulla scontato: nei nostri rapporti con gli altri, cioè, dobbiamo usare umiltà, sollecitudine, discrezione e amore.
Se noi siamo convinti discepoli di Gesù, se Dio abita realmente nel nostro cuore, lo dimostriamo non attraverso la quantità delle nostre preghiere o mediante la frequenza con cui invochiamo il suo nome, ma da come ci comportiamo nelle nostre relazioni interpersonali, dalla qualità dei nostri rapporti con le persone che ci stanno vicino, da come insomma stiamo con gli altri. 
“Nella tua vita, qualunque cosa fai, falla sempre con amore”: è questa la massima che dobbiamo seguire sempre fedelmente. Anche quando litighiamo, quando lottiamo, quando entriamo in conflitto, non dobbiamo mai dimenticarci di amare l’altro. Può sembrare una battuta ma non lo è; perché nella vita può succedere che non si litiga mai con nessuno, che si è sempre ossequiosi con tutti, senza per questo amare nessuno; al contrario si può anche litigare continuamente con i fratelli, ma nello stesso tempo amarli sinceramente, di vero cuore. Possibile? Certo: a condizione che il “litigio”, il “robusto” scambio di opinioni (chiamiamolo così!), poggi su una reale onestà mentale, sia fondato nella carità, nell’amore fraterno: in questo modo ogni “scontro” lascerà ricchezza di vita, verità da imparare, apertura verso gli altri, e non una totale chiusura nelle proprie posizioni, nell’astio irrazionale, come di solito avviene. Ci sono persone infatti che per anni litigano testardamente sempre per lo stesso identico motivo: ciò vuol dire che non hanno saputo imparare, non hanno voluto capire. Ma a che pro allora litigare? Non serve assolutamente a nulla, è inutile, fa solo male: se per principio non si vuole imparare, non si crescerà mai. Non riduciamo la nostra vita ad una perenne disputa tra sordi!
L’insegnamento di oggi però va oltre: in una eventuale disputa, in una controversia, è indispensabile adottare sempre due atteggiamenti fondamentali: il primo è di evitare la pubblicità, di non mettere in piazza la lite col fratello, di non dare in pasto all’opinione pubblica i dissapori personali; la seconda è di riservare all’altro la nostra migliore carità, un maggiore esercizio dell’amore. Se un nostro fratello sbaglia, se c’è tra noi un problema, dobbiamo capire che in quel momento egli ha ancor più bisogno della nostra comprensione, del nostro amore: dobbiamo quindi agire nei suoi confronti con maggior riservatezza, con maggior gentilezza, con maggior attenzione. In una parola dobbiamo comportarci con grande carità e discrezione. È esattamente quanto ci sottolinea in apertura il vangelo di oggi: “Se c’è una questione irrisolta fra te e tuo fratello, va di persona, da solo”; e lo fa in aperto contrasto con quanto la legge antica imponeva: “Rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui” (Lv 19,17). A quel tempo era infatti normale denunciare apertamente l’operato di una persona: “se sai una cosa dilla a tutti”. Gesù, invece, propone una condotta del tutto nuova, rivoluzionaria, decisamente contro la legge e l’usanza del tempo. C’è qualcosa che non va, hai subito un torto da parte di qualcuno? Va da lui e chiarisci privatamente la cosa con lui. Solo così conoscerai personalmente il suo punto di vista: e forse ti ricrederai; forse le cose non stavano proprio come tu pensavi. Mai, in ogni caso, basare il nostro giudizio sulle chiacchiere, su quello che dice la gente.
Solo se ci parleremo lealmente, potremo capirci, potremo aiutarci, potremo venirci incontro e smettere di giudicare: perché quando le persone fanno qualcosa, lo fanno per motivi che esse ritengono buoni, per motivi che a priori noi non conosciamo; anzi, molto spesso non agiscono per cattiveria, ma per paura, per fragilità caratteriale, per ignoranza.
Noi, invece, cosa facciamo in genere? Piuttosto che chiarire con il fratello, corriamo dai nostri “confidenti” per sparlare, per malignare su di lui; confidenti, che poi a loro volta si sentono immediatamente in dovere di commentare il fatto con i loro “confidenti”, innescando così una reazione a catena di maldicenze inopportune, senza alcun fondamento, il più delle volte crudeli, ipocrite, ingiuste.
Smettiamola allora di creare incomprensioni di questo genere: comportiamoci da adulti! Ragioniamo da adulti! Soprattutto ascoltiamo l’interessato! Per ben quattro volte il vangelo insiste sul verbo “ascoltare”. “Se ti ascolterà ti sarai guadagnato un fratello; se non ti ascolterà prendi con te dei testimoni; se non ascolterà neppure loro, dillo alla comunità; se non ascolterà neppure la comunità, solo allora lo tratterai come un nemico”. Una incalzante ripetizione che ci impone con forza il comportamento da tenere con gli altri: ascoltare, ascoltare, ascoltare, ascoltare. Punto.
Chiediamoci allora: noi, in concreto, siamo sempre disponibili ad ascoltare il fratello? In particolare cosa preferiamo ascoltare? Forse preferiamo ascoltare le parole false e volubili dei ciarlatani di turno, piuttosto che la voce profonda e veritiera del nostro cuore? E poi, in che cosa consiste esattamente questo nostro ascoltare? Se abbiamo già deciso a priori che il fratello è colpevole, che ha sbagliato, significa forse ascoltarlo? Se rimaniamo caparbiamente attaccati alle nostre idee preconcette, significa che l’ascoltiamo? Se non accettiamo vedute diverse dalle nostre, possibilità e modi diversi dai nostri, quanto vale il nostro ascoltare? Ancora: se alcune cose le vogliamo sentire e altre no, questo per noi significa ascoltare il fratello? Se quello che ci dice ci ferisce, “ci manda in bestia” e ci chiudiamo nel nostro silenzio tirando su un muro tra noi, oppure “non vogliamo sentire ragioni”, come possiamo dire di ascoltarlo? Se mentre lui parla noi pensiamo soltanto a cosa ribattergli, significa ascoltarlo? Se abbiamo sempre già pronte le risposte ad ogni domanda, illudendoci di essere come Dio, significa ascoltarlo? Se il nostro problema è cosa diranno gli altri, preoccupandoci più di noi che di lui, vuol dire ascoltarlo? Sicuramente no: e se non sappiamo ascoltarlo, come possiamo pensare di amarlo?
La prima comunità cristiana di Matteo non era certamente perfetta: anche in essa c’erano senz’altro dei conflitti. Ecco perché egli sente la necessità di raccomandare: “In tutte le situazioni, ci sia fra di voi l’amore”. Del resto anche le comunità moderne non sono da meno; non esiste convivenza che sia esente da tensioni, da lotte, da scontri. Ma ciò è dovuto soltanto alla naturale conflittualità tra mentalità diverse, che però non esclude in alcun modo la possibilità di amare; litigare è facile, inevitabile, ma questo non è un problema, non pregiudica l’uso dell’amore fraterno; semmai un problema serio è quando due persone non litigano mai, quando due persone si dimostrano sempre e in tutto perfettamente concordi: perché nel migliore dei casi vuol dire che una delle due ha rinunciato ad essere se stessa, a camminare con le proprie gambe, “conformandosi” completamente all’altra. E questo non è un atteggiamento basato sull’amore; l’amore vero si dimostra soprattutto nel modo in cui si affrontano e si risolvono i problemi comuni, le abituali conflittualità. Solo in questo modo una comunità dimostrerà di aver raggiunto una piena maturità.
Senza la conflittualità, senza le difficoltà, senza le tensioni, una comunità non cresce. Ecco perché è determinante il modo con cui affrontiamo gli altri, perché dalla qualità del nostro approccio possono dipendere armonie o separazioni, unioni o rotture, involuzioni o crescite. Non c’è cosa peggiore del pensare che tutto vada sempre bene, del voler vedere sempre e tutto in rosa, anche quando il nero è d’obbligo! La politica del nascondere la testa sotto la sabbia, come fa lo struzzo, non è mai soddisfacente.
Dobbiamo essere sempre sinceri, accomodanti, ma anche risoluti, perché non è facendo valere le nostre ragioni che ci dimostriamo cattivi, che offendiamo l’altro o gli manchiamo di rispetto: ma è la forma, il modo con cui lo facciamo. Non esprimere né difendere il proprio punto di vista, non è indice di carità né di amore fraterno; spesso infatti lo facciamo per finto buonismo, per disinteresse, o per falsa modestia: ma questo adeguarci passivamente, talvolta irrazionalmente, alle idee, alla volontà del partner o del leader, non è sicuramente prova di bontà, quanto di una preoccupante carenza di personalità, di convinzioni, di maturità, di certezze personali.
Da qui l’importanza di confrontarci con gli altri senza pretendere di essere superiori a loro, esprimendo quello che abbiamo dentro, senza peraltro sentirci inferiori a nessuno; dobbiamo soprattutto agire empaticamente, ossia saper ascoltare l’anima delle parole di chi abbiamo davanti; dobbiamo avere sempre un ascolto che non giudica, che non cambia, che non stravolge, che non vuole fagocitare l’altro. Dobbiamo imparare a non manipolare gli altri per i nostri scopi; dobbiamo imparare a gestire, a dominare, l’invidia, la gelosia, la competizione, i sentimenti di odio, di rabbia o d’altro: sentimenti che disgraziatamente sono molto comuni anche in una “civile” convivenza. Purtroppo, per imparare bene tutto questo, non c’è una scuola specifica: per tutto c’è una scuola, ma non per imparare a “con-vivere”, a vivere bene insieme. Solo la vita può farlo, ma deve essere una vita guidata dal Suo Amore e dall’ascolto della Sua Parola. Amen.