giovedì 12 ottobre 2017

15 Ottobre 2017 – XXVIII Domenica del Tempo Ordinario


«Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti» (Mt 22,1-14).

La parabola di oggi è una potente allegoria. Si tratta della stessa parabola che troviamo anche in Luca (14,16-24), decisamente con toni diversi, meno accesi, meno categorici rispetto a Matteo: dobbiamo tener presente però che i due evangelisti riportano il messaggio di Gesù adattandolo alle loro rispettive comunità: così per esempio il semplice “uomo” di Luca, diventa in Matteo un re, (figura che richiama il giudizio universale alla fine dei tempi!); la grande cena del primo diventa nel secondo un banchetto di nozze per il figlio del re (che per Matteo è Gesù: la grande cena diventa pertanto il giudizio per quanti hanno accolto il suo messaggio); Luca manda un solo servo per invitare le persone, mentre Matteo ne manda molti e a più riprese (più volte Israele ha avuto messaggeri di Dio, ma invano); in Luca gli invitati si giustificano a parole, mentre in Matteo arrivano a malmenare e uccidere i servi del re. Perché sottolineare con insistenza tanti particolari? Che senso ha specificare che gli invitati, non solo rifiutano l’invito a nozze, ma picchiano e uccidono addirittura quelli che li invitano? In Luca, al rifiuto dei primi invitati, il padrone allarga semplicemente il suo invito ad altri; Matteo invece ci tiene a sottolineare l’ira terribile del re che, prima ancora di sedere a tavola (la cena è già pronta!), spedisce la sua guardia del corpo per uccidere gli assassini dei suoi servi e per bruciare la loro città. Ma che senso ha compiere tutto questo immediatamente prima di cena? Poteva farlo con tutta calma dopo aver cenato con gli invitati: ma Matteo lo fa proprio perché si riferisce ad ebrei e alla storia di Israele; vuole cioè identificare nei messaggeri del re i profeti e Gesù stesso: inviati da Dio, hanno fatto esattamente quella fine. La punizione pertanto doveva essere immediata, prima del ritorno del re nella “sala delle nozze”. Con quali conseguenze? La città degli invitati “assassini”, Gerusalemme, la città simbolo, deve pagare per i misfatti del popolo giudeo: l’allusione alla sua totale distruzione nel 70 d.C. per mano dei Romani, è evidente. La comunità di Matteo, formata appunto da cristiani provenienti dal giudaismo, deve essere consapevole di tutto questo, deve capire il significato profondo, la portata vitale della loro chiamata, della loro adesione al vangelo.
Il pratica il messaggio di Gesù è questo: “Vi ho fatto un invito e voi non l’avete accolto”. Egli è stato rifiutato dai sapienti, dai religiosi, dagli uomini del Tempio, da quelli cioè che già “avevano Dio”, il loro Dio; la loro immagine di Dio, era talmente radicata e fissa, che non sono riusciti a cambiarla. Allora Gesù si è rivolto ad altri: pubblicani, lontani, donne peccatrici, eretici, senza-Dio, e loro lo hanno accolto.
Non è difficile leggere in questa allegoria, un chiaro messaggio anche per i cristiani d’oggi, in particolare per la nostra storia personale.
Anche noi, come gli invitati della parabola, abbiamo sempre una buona, un’ottima personale giustificazione per rifiutare l’invito di Dio. “Ho poco tempo; lavoro tutto il giorno; devo stare con i miei figli; mi piacerebbe tanto, ma proprio non posso! E poi, prego già tanto Dio per conto mio!”. Tutte risposte che portano ad una considerazione: “Lo vogliamo o non lo vogliamo questo Dio?”. Perché troppo spesso il “non posso” equivale più semplicemente a “non ne ho voglia”.
Eppure nel vangelo ci sono mille dimostrazioni di quanto Dio faccia per noi. Egli in sostanza vuole starci vicino, vuole essere la nostra forza, darci sostegno, non farci sentire soli; vuole perdonarci, vuole amarci, in una parola, vuole che siamo felici: perché allora lo rifiutiamo? È come se uno venisse a dirci: “Ti regalo cento milioni: eccoli qui, prendili!”; noi che facciamo? Non li accettiamo, li rifiutiamo! Perché? Perché siamo troppo orgogliosi, perché pensiamo che quel tale ci stia prendendo in giro; che la tanta bontà e generosità di Dio, preti, chiesa ecc. sia soltanto una solenne fola, un falso; e noi, da persone scaltre quali siamo, non ci caschiamo, non ci fidiamo!
Eppure, quando Gesù parla di Dio, di suo Padre, ne parla sempre come di un padre misericordioso, dal cuore enorme, e ce lo documenta con esempi di vita vissuta: come quel padre che, nonostante suo figlio gli abbia sbattuto la porta in faccia, e stia sperperando nei vizi tutti i suoi beni, la sua stessa vita, rispetta in ogni caso la sua libertà, nell’attesa fiduciosa e trepidante del suo ritorno a casa; e appena lo vede da lontano, gli corre incontro, lo riabbraccia, e organizza una grande festa, per dimostrargli tutto il suo incalcolabile amore, un amore profondo e struggente.
Ma a noi questo non interessa: che Dio ci ami, che sia misericordioso con noi, è una cosa che ci lascia del tutto indifferenti. Preferiamo per assurdo che sia “cattivo”, che ci tratti male, che ci punisca, che ci tiri pure delle sberle, purché se ne stia per conto suo, a casa sua; non gradiamo intrusioni, non vogliamo soprattutto ammettere la sua bontà, perché farlo ci costerebbe troppo, dovremmo quantomeno rivoluzionare la nostra vita dalle fondamenta. Noi vogliamo sentirci “liberi”, indipendenti, autonomi, salvo poi, nel momento del bisogno, nelle disgrazie, nelle malattie, essere noi a pretendere il suo sollecito intervento, quasi ricattandolo, appellandoci proprio a questo suo immenso e indiscusso amore.
Dio è veramente amore! Egli ci ama nonostante tutto. Allora perché lo rifiutiamo? Perché siamo stupidamente orgogliosi; perché non crediamo nella gratuità del suo amore; perché temiamo ritorsioni, ricatti morali, compromessi; perché nel nostro delirio pensiamo che il suo amore unilaterale non possa essere autenticamente disinteressato; perché siamo impastati fin dalla nascita di sospetti, di diffidenza; perché abbiamo innato un modo di vedere le cose completamente sballato. Un esempio? Fin da bambini abbiamo imparato a nostre spese che l’amore si conquista: soltanto eseguendo fedelmente la volontà di papà e mamma, infatti, ci sentivamo amati. In caso contrario: “Sei cattivo; hai fatto arrabbiare il papà! Non ti voglio più bene...”, e quindi urla, distanze fisiche ed emotive, bronci, ecc. Cosa ci è rimasto di tutto questo? Primo, che siamo amati solo se facciamo quello che vogliono gli altri; secondo, che l’amore è sofferenza: per guadagnarcelo dobbiamo faticare, rinunciare ai nostri desideri, ai nostri progetti di vita. Diventati adulti, continuiamo a nutrire questa errata convinzione anche nei confronti di Dio: il suo amore va conquistato; Dio ama soltanto i meritevoli, quelli che soffrono, che faticano, che si impegnano, che si sacrificano per lui. Troppo difficile! E quando sentiamo le parole del vangelo: “Dio ama gratuitamente tutti, buoni e cattivi, vicini e lontani”, non ci crediamo: “Non è vero; siamo certi del contrario; sappiamo per esperienza che ogni amore va meritato: “Ecco, vedi come sono diventato bravo? Vado a messa tutte le domeniche, osservo i tuoi comandamenti; sono perfetto. Ora devi amarmi!”. Ma non è così. L’amore di Dio non si conquista, non si compra, non ha un prezzo da pagare: è assolutamente gratuito; l’amore di Dio è puro dono.
Accettare allora l’invito di Dio, indossare la veste nuziale, rivestirci degli insegnamenti del vangelo, implica da parte nostra un abbandono sincero e totale in Lui, lasciare che lui ci ami teneramente, intensamente, nonostante le nostre schifezze, i nostri errori, il nostro marciume.
Noi abbiamo di Dio un’opinione sbagliata: siamo portati a rappresentarcelo come un terribile nemico, un giudice intransigente: un’idea che la stessa chiesa ci ha trasmesso per anni. Ma dal vangelo risulta esattamente il contrario: Dio è venuto tra noi, si è spogliato della sua divinità, ha indossato la nostra natura umana, e ci ha amati fino a sacrificare la propria vita per noi, per il nostro bene, per la nostra salvezza. E se si aspetta qualche minima risposta da noi, la vuole esclusivamente per il nostro bene, perché ci ama visceralmente. I suoi inviti a seguirlo sono continue, intense esortazioni d’amore, spesso accorate.
Il vangelo ci dice poi che di fronte al rifiuto degli invitati, degli eletti, il re ordina ai suoi ministri di andare per le strade, in ogni angolo, e di chiamare tutti alle nozze, buoni e cattivi, eleganti e straccioni. Lo fa sempre per amore: vuole offrire a tutti la stessa opportunità di quanti hanno rifiutato il suo invito; Egli ama tutti, uno per uno, indistintamente.
Ma allora come mai, quando questo Re entra nella sala del banchetto e vede uno sprovvisto di abito nuziale, ha una reazione tanto feroce? Fa legare mani e piedi a quel malcapitato e ordina che venga gettato fuori, nelle tenebre e nel dolore. Ma non aveva convocato anche gli “straccioni”? È il secondo scatto d’ira che Matteo attribuisce a questo re. E lo fa volutamente. Perché, proiettando questa stessa scena negli ultimi tempi, nel giudizio finale, Matteo vuol far capire ai suoi, che non è sufficiente appartenere in questa vita ad una comunità di credenti, essere “chiesa”, trovarsi tra i “chiamati”, aver accettato l’invito: ciò non offre alcuna garanzia o diritto di entrare e rimanere nel “Regno”. L’unica condizione, valida per tutti, è quella di indossare la “veste nuziale”: perché non indossarla significa aver accettato la chiamata di Dio solo formalmente, per tradizione, perché così fanno tutti, per interesse, per moda, senza alcun personale contributo al grande dono d’amore fatto dal Re: significa avere un cuore arido; significa aver seminato cattiveria piuttosto che amore, significa avere l’anima completamente inadeguata all’offerta d’amore del re: in una parola significa non aver indossato “l’uomo nuovo” del vangelo, trascurando la propria conversione.
Una parabola, quella di oggi, che contrasta decisamente con l’idea, anche questa molto di moda, di un Dio bonaccione, che risolve qualunque situazione assicurando indistintamente a tutti una misericordia finale assoluta, indiscriminata, a costo zero. Nossignori: l’arrogante pretesa del “lei non sa chi sono io” con Dio non funziona: buono, comprensivo, amoroso sicuramente, ma Dio è anche “giusto giudice”.
Dobbiamo fare molta attenzione su questo, perché purtroppo l’uomo “indegno” del vangelo, quello sprovvisto di “veste nuziale” è, anche oggi, in ottima compagnia: quanti di noi infatti si professano cristiani semplicemente perché battezzati, perché hanno accettato a suo tempo l’invito di Dio, senza peraltro preoccuparsi mai di indossare l’abito della coerenza e del servizio! Un giorno, alla chiamata finale, concluso il “tirocinio”, quando il Re ci esaminerà (perché Dio ci giudicherà singolarmente, statene certi, con buona pace dei “sapienti” contemporanei!) dovremo darne conto, e ogni nostro rimpianto, ogni nostra promessa di ravvedimento sarà tardiva, fuori tempo massimo: allora capiremo quanto siamo stati stolti, quanto siamo stati ottusi nel non ascoltare i suoi ripetuti inviti, i suoi continui suggerimenti di Padre amoroso.
Ciò che ci capiterà allora non sarà un caso, non sarà colpa del “giusto e tremendo giudice”, ma sarà la logica conseguenza delle nostre azioni. Eravamo tra i chiamati, i fortunati, i privilegiati, ma non ce n'è importato nulla. Noi, e solo noi, abbiamo volutamente scelto di non vivere da figli, preferendo spenderci nelle soddisfazioni materiali, più comode ed immediate. Ognuno, alla fine, avrà una sentenza coerente e proporzionale al proprio servizio nella carità. E se ci presenteremo da straccioni totali, sprovvisti ancorché della più povera ma dignitosa “veste nuziale” di rito, sappiamo già quel che ci aspetta: ma non è Dio che ci punirà; non è Dio che ci butterà fuori dal “Regno eterno”: siamo noi, noi stessi, che vivendo nell’indifferenza, nell’apatia, nel rifiuto del vangelo (l’abito nuziale), abbiamo fatto di tutto per eliminarci, per distruggerci. Non per niente il vangelo amaramente conclude: “molti sono chiamati, ma pochi eletti”. Amen.


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