giovedì 14 dicembre 2017

17 Dicembre 2017 – III Domenica di Avvento


«Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui». (Gv 1,6-8.19-28).

Siamo alla terza domenica di Avvento, la cosiddetta domenica “Gaudete”: rallegriamoci, perché il Natale, la venuta di Gesù nei nostri cuori, è vicino.
Il vangelo ci ripropone anche oggi la figura del Battista. Ma questa volta è l’evangelista Giovanni che ce ne parla: non è, come negli altri vangeli, l’asceta o il profeta intransigente che annuncia la distruzione se gli uomini non si convertono. Qui è il testimone.
Il Battista in Giovanni è semplicemente una indicazione, uno strumento che dice: “Non guardate me, guardate più in là, guardate oltre me, guardate ciò che sta dentro me”. Non dice chi verrà o come verrà. Dice solo “Preparate la via... verrà uno che non conoscete... io di fronte a lui sono niente”.
Ebbene: questa è l’essenza dell’avvento. Il Battista sente che qualcosa deve avvenire, attende, aspetta. Sente che sta arrivando qualcosa, ma non sa cosa.
Rimanere in attesa, implica sempre, nel nostro immaginario, il sopraggiungere di un qualcosa di nuovo, un qualcosa di imprevedibile, di diverso, di insolito. È una sorpresa. Del resto, se conoscessimo già tutto ciò che ci riguarda, se tutto fosse già scritto, che “novità” sarebbe per noi il prossimo Natale? Che “Avvento” sarebbe il nostro?
Allora, prepararsi al Natale vuol dire: “Acconsentiamo che ci succeda qualcosa che supera le nostre previsioni, un qualcosa che non possiamo pianificare, che non possiamo controllare, che non possiamo gestire. Permettiamo cioè che la Vita ci faccia delle sorprese”.
Noi invece vogliamo controllare tutto. Noi pianifichiamo tutto. Vogliamo gestire tutto, o per lo meno ci proviamo. Ma Dio è l’ingestibile, Dio è il sempre nuovo, è il più grande, è l’oltre, il più in là. Se Dio non ci sorprende, non è Dio. Se Dio non ci spiazza, non è Dio. Se Dio non ci schiaffeggia, svegliandoci dal nostro torpore, rendendoci consapevoli della necessità di abbandonare le nostre umane certezze, non è Dio.
Nel vangelo c’è una grande domanda rivolta al Battista: “Chi sei tu?”. E Giovanni inizia col dire chi effettivamente non è. “Non sono Elia, né Cristo, né un profeta”.
È importante rifiutare tutti i ruoli che gli altri ci attribuiscono, tutte le etichette che ci incollano addosso; è importante dire loro: “No, non sono come voi pensate, come voi pretendete”.
Ma noi, come siamo noi in realtà? Siamo uomini, è vero; siamo “buoni”, ok. Ma è troppo poco; ci sono milioni di uomini buoni. Siamo dei papà, delle mamme: sì, va bene, ma anche di papà e di mamme ce ne sono milioni. Siamo un marito, una moglie, dei bravi cristiani, dei lavoratori; siamo operai, professionisti, artigiani, commercianti. Sì è tutto vero, ma è sempre troppo poco. Perché questi sono semplicemente i ruoli che svolgiamo. Il ruolo è come un vestito. È buono per andare a lavorare, per andare a scuola, a teatro, al cinema, alle feste. Ma poi quando siamo soli con noi stessi, quando andiamo a letto, quando vogliamo stare in libertà, quando ci va di fare qualcosa al di fuori del nostro ruolo, il vestito ce lo togliamo, perché rappresenta il nostro contenitore, il nostro apparire all’esterno, quella parte della nostra vita che è a contatto con gli altri. Ma “dentro” di noi, chi siamo?
Purtroppo molti di noi si sono vestiti di un ruolo e vivono sempre e solo quello. Certo, recitare sempre il solito ruolo ci rassicura: lo conosciamo, ci viene bene, è facile: ma ci limita inevitabilmente la vita, ci fa vivere a metà.
Se lo viviamo così, infatti, il ruolo ci ingabbia, ne diventiamo schiavi, e invece di aiutarci a vivere, ci imprigiona. In casi del genere, scompare quello che siamo, l’essere “persona”, e rimane solo il ruolo: se infatti ci togliessimo di dosso, se ci levassimo questo vestito-prigione, di noi, del nostro “essere”, non troveremmo nulla, il vuoto assoluto.
Per cui la grande domanda che dobbiamo porci è: “Al di là di tutti i ruoli, oltre le nostre coperture, chi siamo noi in realtà? Chi siamo noi “dentro”, in profondità, nell’intimo della nostra coscienza, della nostra anima?” Questo è il grande interrogativo.
In altre parole: “C’è in noi qualcosa che ci rende unici, irripetibili, diversi, da tutti gli altri? C’è qualcosa che ci rende insostituibili?”. Perché se non troviamo nulla, vuol dire che noi, o un altro, siamo la stessa cosa; vuol dire che di gente come noi ce n’è quanta ne vogliamo; vuol dire che non siamo importanti, che siamo persone senza spessore, che “tirano avanti” senza alcun sussulto, che sopravvivono, che tra di loro sono soltanto dei doppioni, delle squallide fotocopie: come se la vita facesse fotocopie!
Allora la prima cosa da fare è quella di liberarci da tutto ciò che non siamo. La nostra grande decisione deve essere quella di rifiutare, come il Battista, qualunque identità con “altri”: “no, non sono questo! Non sono io; io sono diverso; non sono Elia, né il Cristo, né un Profeta, io sono io!”.
Riconoscere che non siamo quelli che gli altri credono, toglierci le maschere, le definizioni, le aspettative che gli altri ci hanno incollato addosso, è sempre molto faticoso e doloroso. Ma solo se iniziamo a spogliarci di ciò che non è nostro, se ci scrolliamo di dosso le incrostazioni che ci ricoprono, solo allora la nostra vera immagine potrà rivelarsi in tutta la sua originalità. E ne varrà la pena!
Giovanni Battista nel deserto ha trovato il motivo per cui vivere, ciò per cui è stato creato, ciò che dà senso alla sua vita; lui deve infatti richiamare tutti all’essenziale: “Abbandonate il superfluo, preparate la via al Signore, state attenti, non dormite, non sonnecchiate, il Signore vi passa vicino, non lasciatevelo scappare. Dio c’è, ma se dormite, se avete gli occhi chiusi non lo potrete vedere”. Egli è voce di qualcun altro, è strumento, è mezzo.
Questo dunque deve essere anche il nostro compito primario: dar voce all’infinito, a Dio, all’oltre, alla forza che ci inabita, ma che non ci appartiene. “Dai voce a Colui che sta dentro di te!”: noi non sappiamo parlare, ma dobbiamo comunque dare voce alla Parola: non siamo luce, ma dobbiamo riflettere sugli altri la Luce; non siamo il sole, ma dobbiamo riversare sugli altri il calore dell’Amore.
Siamo insomma chiamati tutti a testimoniare il “di più” che ci portiamo dentro. Questo è il primo servizio che dobbiamo a Dio. “Essere strumenti di Dio” vuol dire proprio questo: permettere che sia Lui a sceglierci, ad utilizzarci per suonare la sua musica, la sua sinfonia. Non siamo noi che suoniamo. È Lui che “suona” noi: non siamo noi il Musicista, ci limitiamo soltanto ad amplificare la Sua musica. È un ruolo che non ci può appartenere. Siamo solo degli strumenti. Noi siamo l’onda, Lui è il mare. Noi siamo i raggi, Lui è il sole.
In questo sta la grande chiamata di ciascuno di noi: viviamo, ma la vita non è nostra; siamo padri, madri, ma la paternità o la maternità non è nostra, non la possediamo; siamo veri, ma la verità non viene da noi; diventiamo liberi, ma non siamo la libertà; danziamo, ma non siamo la danza; facciamo esperienza di Dio, lo sentiamo, ma non siamo Dio; abbiamo un’anima, ma non siamo l’Anima. Noi insomma viviamo e operiamo, ma non siamo il soggetto operante. Il soggetto è sempre e solo Dio. Il grande male dell’uomo è mettersi al Suo livello, sentirsi esclusivo proprietario delle cose e delle persone. Le sente sue, ma non lo sono. Siamo gli amministratori delle cose, non i proprietari.
Nel vangelo c’è infine una frase forte: “In mezzo a voi c’è uno che non conoscete”. Meglio: “uno che voi non volete conoscere”. I Giudei, i farisei hanno scelto deliberatamente, coscientemente, di non conoscere Gesù, Colui che viene. È chiaro, allora, che qualunque cosa Lui farà o dirà non potrà in nessun modo cambiare la loro decisione. Chi non vuol credere non crederà.
Giovanni Battista urla, scuote, grida, strattona: ma non serve. Se noi abbiamo deciso dentro di noi che non ci interessa, niente ci può convertire. Se abbiamo deciso dentro di noi che Natale è il 25 dicembre, il pranzo e la messa (una volta all’anno ci può stare!), niente può cambiare. Se abbiamo deciso che Dio è un corollario della nostra vita, una proprietà periferica, nessuna predica ci può scalfire. Se abbiamo deciso che non vogliamo metterci in gioco, la vita non avrà mai più nulla da insegnarci.
C’è ancora chi rimane stupito delle chiese piene la notte o il giorno di Natale. Non facciamoci illusioni: ci saranno anche molte persone, ma dentro di loro, nel segreto del loro cuore continueranno purtroppo a dire: “Dio, non ci interessi, non sappiamo che farcene di te”.
Non cadiamo anche noi in tale deserto dell’anima, ascoltiamo la “Voce”, spianiamo quella strada che dal nostro cuore porta direttamente al cuore di Dio. Prepariamo in noi la venuta della “Parola” che è Cristo, perché sia Lui a dare senso alla nostra “voce”. Perché solo in Cristo, Parola eterna di Dio, possiamo trovare il nostro vero senso, il significato autentico della nostra vita. Amen.


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