giovedì 8 febbraio 2018

11 Febbraio 2018 – VI Domenica del Tempo Ordinario


«In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”» (Mc 1,40-45). 

Riviviamo per un attimo la scena del vangelo: un povero lebbroso si butta ai piedi di Gesù e lo supplica: “Se vuoi puoi purificarmi!”. Egli sente che non può continuare a vivere così; sente che da solo non riuscirà mai a venirne fuori. Per questo si rivolge a Lui e gli dice: “Ho bisogno di aiuto”, e si butta per terra. Buttarsi in ginocchio significa confessare la propria debolezza, la propria impotenza, ammettere di aver bisogno di qualcuno, dichiarare la propria resa totale. Chi non si riconosce malato non può guarire; chi si crede sano non va dal medico. Egli quindi si abbandona a Gesù: “Se vuoi puoi purificarmi”.
Curiosa questa richiesta: non chiede di venir “guarito” come sarebbe naturale per chi è affetto da una malattia corporale; Marco in tutto il racconto usa sempre il verbo katarìzo, purificare, rendere puro, inducendo a pensare che si trattasse più di una “infermità” spirituale, che di una situazione corporale compromessa: è pur vero che i “lebbrosi” erano ritenuti tali in quanto peccatori, e che quindi per guarire dovevano “purificarsi” dai loro peccati; ma l’insistente ripetizione di questo verbo rende sicuramente ancor più applicabile a noi la morale del racconto.
Oggi infatti possiamo vivere tutti più tranquilli, poiché la malattia della lebbra è stata quasi del tutto debellata. Ma c’è un’altra lebbra con cui dobbiamo fare i conti: una lebbra meno visibile ma molto diffusa, altrettanto grave e invalidante: è la lebbra dell’incomunicabilità, dell’indifferenza, dell’incomprensione, dell’ermetismo, della chiusura totale verso gli altri.
In questo senso tutti noi siamo dei lebbrosi; la nostra vita deve misurarsi continuamente con questa malattia devastante, in tutte le sue variabili di isolamento e solitudine: con la lebbra di chi non si sopporta; di chi non sopporta la propria vita perché, quando si guarda dentro non trova nulla, nessun ideale per cui valga la pena di vivere; con la lebbra del rimorso di chi ha sbagliato e non riesce più a ritrovare la propria dignità; con la lebbra del disagio di chi si sente incompreso, vittima della società; con la lebbra dell’essere considerati inaffidabili, inesistenti, insignificanti. Ma dobbiamo soprattutto fare i conti con una lebbra moralmente ancor più invalidante: con la lebbra dell’invidia, della superbia, dell’impudenza, della maldicenza, dell’avarizia, della gola, della lussuria…; tutte lebbre deformanti, che ci rendono ripugnanti nel cuore e nell’anima. Chi può mai ritenersi inattaccabile da queste forme di lebbra? Sicuramente pochi. Allora andiamo da Gesù, supplichiamolo anche noi! Buttiamoci a terra anche noi come ha fatto il lebbroso del vangelo.
Quando un uomo è rifiutato da tutti, è spinto infatti dalla necessità vitale di amore; ha bisogno cioè di essere accettato, di sentirsi gradito, importante; ha bisogno di sentirsi accolto da qualcuno, che qualcuno lo apprezzi, che non lo eviti. Ha bisogno insomma dell’Amore che salva.
Gesù di fronte a tanta umiltà e fiducia, prova verso di lui un sentimento molto forte, intenso, quasi di simpatia: è “mosso a compassione”; anzi il termine greco “splanknistheis” va più in profondità, spiega cioè questa compassione come espressione dell’amore materno, di un amore viscerale, tenero, infinito, fatto di tenerezza, dolcezza, misericordia, compassione.
E questo è esattamente l’amore di Gesù: un amore “materno”, un amore che da sentimento, diventa soprattutto azione: “ekteino” “stende la mano”: immaginiamo a questo punto la reazione di quest’uomo: tutti lo rifiutano, nessuno lo vuole, tutti gli stanno alla larga; e quando Gesù, sfidando la religione per la quale chi toccava un lebbroso diventava lui stesso impuro, si muove decisamente nella sua direzione allungando le braccia, a lui, consapevole della sua deformità, viene spontaneo ritrarsi, quasi a sfuggirgli, a scappar via; ma il Maestro “epsato”, più che “toccarlo” “lo afferra”, lo stringe a sé, lo trattiene con forza, dimostrandogli tangibilmente tutto il suo amore, la sua determinazione (“lo voglio”), e gli dice: “sii purificato”. In altre parole, “sii te stesso: sii puro, sii chiaro, schietto. Torna ad essere quell’immagine che Dio ha impresso in te quando ti ha creato. Se ti affranchi dal rancore, dall’amarezza, dalla vergogna, dal rifiuto della gente che ti ha deturpato, riacquisterai la tua luce, la tua bellezza originale”.
Ecco, questo in sostanza vuol dire anche per noi “purificarci”: ritornare ad essere noi stessi, tornare ad essere, cioè, quell’idea, quel progetto meraviglioso che Dio ha previsto per noi, un progetto che i fatti e le situazioni della nostra fragile umanità hanno gradualmente deformato, alienato, distrutto. Come a dire: “Amico, liberati da tutte queste incrostazioni, torna ad essere ciò che eri, quella creatura divina che Dio ha plasmato con il suo soffio di vita.
Noi “malati terminali”, deturpati e resi irriconoscibili dalla nostra “lebbra”, buttiamoci dunque ai piedi di Gesù: chiediamo a gran voce di tornare ad essere le creature pure delle nostre origini: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Dimostriamogli di aver preso la nostra decisione di conversione, e per il resto confidiamo umilmente in Lui: “Sì, io lo voglio!”. Egli è sempre pronto a correre in nostro aiuto; ma siamo noi in ogni caso che dobbiamo fare il primo passo, perché Dio non può fare nulla se noi non lo vogliamo.
Può sembrare impossibile che un malato grave rifiuti l’offerta di una pronta guarigione, ma purtroppo è così. Perché, nel nostro caso, voler “guarire” spiritualmente, significa “riportare luce e brillantezza” nel buio profondo della nostra anima, fare una pulizia radicale, eliminare con forza le incrostazioni della nostra lebbra deformante. E ciò, nonostante l’intervento amorevole di Dio, richiede da parte nostra una seria e concreta volontà, una ferma decisione a rimettere ordine nella nostra vita disordinata.
È impossibile “guarire” senza questa radicale determinazione. Noi vorremmo invece una purificazione piena ed immediata senza far nulla; senza cambiare situazioni e idee, senza rivedere le nostre presunte verità, le nostre certezze, il nostro modo di non vivere. Ma guarire così è impensabile! Significa al contrario insistere nel nostro percorso di autodistruzione, significa lasciarsi decomporre sempre più dalla “lebbra”, significa abbandonarsi al degrado totale fino al punto di non ritorno. “Io voglio purificarti” continua a ripeterci Gesù: ma noi, siamo realmente disposti a farci “guarire”? Amen.





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