giovedì 1 febbraio 2018

4 Febbraio 2018 – V Domenica del Tempo Ordinario


«La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva» (Mc 1,29-39).

Il vangelo di oggi ci offre l’opportunità di fare una serie di considerazioni. Siamo sempre in Galilea, nella cittadina di Cafarnao, dove Gesù, fissata la sua provvisoria dimora, passava i giorni “insegnando” e “guarendo”.
A questo punto Marco ci offre una notiziola, un piccolo spaccato di vita privata. Che succede? Gesù ha appena finito di parlare nella Sinagoga, e viene sollecitamente informato che la suocera di Simone è a letto con la febbre, gravemente malata. Una innocente annotazione, che però ci rivela un particolare della vita privata di Simone, il pescatore che poco prima aveva abbandonato il suo lavoro per seguire Gesù: che cioè è sposato, ha una famiglia da mantenere, possiede una casa in cui abita con la moglie e la suocera. Quest’ultima dunque sta male, è a letto con la febbre, e per Gesù, che guarisce chiunque incontra nel suo cammino, è assolutamente naturale correre in casa sua e guarire la sua parente. Un normale episodio di quotidianità che potrebbe anche esaurirsi qui, se non fosse per una naturale curiosità che ci spinge ad andare oltre e a chiederci quale fosse la malattia che ha colpito la suocera.
Marco parla di “febbre”, una febbre talmente alta da costringerla a letto, ma non dice nulla sulla causa di questa “febbre”. C’è però una spiegazione che potrebbe essere molto realistica. Se pensiamo infatti che il genero di questa poveretta, l’unico uomo di casa, poche ore prima, per seguire Gesù, aveva abbandonato reti, barca e lavoro, distruggendo così, in un istante, la tranquillità e la sicurezza della loro esistenza, togliendo materialmente a lei e a sua figlia il pane di bocca, beh, i motivi per farsi cogliere da un febbrone, questa povera suocera, li aveva proprio tutti.
Profondamente angustiata da tali preoccupazioni, impotente di fronte alla decisione già presa dal genero, viene colta improvvisamente da un febbrone da cavallo.
La parola greca “pir” (da cui “pirèssusa” nel testo originale), indica appunto “fuoco”; e in senso derivato, “febbre, calore, alterazione”. La suocera è pertanto “infuocata”, alterata; altro che “febbricitante”, è piena di rabbia, furiosa; e più che con Simone, che considera sì un “testacalda”, ma sempliciotto, credulone, lo è soprattutto con Gesù, che considera la causa scatenante della situazione.
La sua “febbre” non è altro quindi che il risultato di una lotta interiore, è sinonimo di “rabbia” che cresce sempre più col passare delle ore; è il segno esteriore di quella sofferenza che le sconquassa l’anima e che non riesce a buttar fuori con le parole.
Dunque la suocera sta male. E Gesù che fa? Appena lo avvisano del malessere di questa povera donna, corre subito a trovarla. Egli ha intuito immediatamente la situazione, ha capito al volo la vera causa della sua malattia. Poteva far finta di niente; poteva tranquillamente dire: “Beh, se ha qualcosa contro di me, venga a dirmelo di persona! Sono problemi suoi, non miei!”.
Ricordate invece cosa ci dice Gesù? “Se ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23s). E questo è esattamente il suo comportamento coerente: corre e va subito da lei. E, come dice il vangelo “si accostò, la sollevò e la prese per mano”.
Fermiamo un attimo l’attenzione su questi verbi:
“Si accostò” (prosèrchomai) vuol dire esattamente “farsi vicino”. Fra i due c’era una grande distanza spirituale, ma è Gesù che prende l’iniziativa, è Lui che si fa vicino, che riduce questa distanza, e la incontra.
“La sollevò” (egheiro) che significa “alzarsi, svegliarsi, sollevare, risorgere”: la donna è distesa, abbandonata a se stessa, non vuole avere nulla a che fare con Gesù; ma Gesù le parla, le sta vicino, le dimostra comprensione; e la donna alla fine gli dà ascolto, e si “si solleva” dalla paura che la domina, dalla preoccupazione per ciò che le sta accadendo.
“La prese per mano”: il verbo greco “krateo” vuol dire “dominare, impadronirsi, impossessarsi, avere potenza”. Gesù vuole incontrarla, toccarla, perché vuole che questa donna “senta” chi è Lui; perché possa fare di Lui una esperienza diretta e “personale”, perché lo possa “conoscere” a fondo, possa “impadronirsi” di Lui.
A questo punto cosa accade tra loro? Non sappiamo cosa si siano detti o cosa sia esattamente successo. Ma dalle poche parole del vangelo possiamo supporre che la donna, colpita dalla disponibilità, dall’attenzione, dall’umanità di Gesù, abbia finalmente capito che quell’uomo non era un pazzo, né un fuori di testa. E pertanto lo accetta, lo accoglie immediatamente. Anzi, come sottolinea il vangelo, si alza subito dal letto ed inizia a “servirlo”. Tutta la sua rabbia, il suo astio, sono quindi improvvisamente scomparsi.
Appena incontra Gesù da vicino, appena Lui la tocca, in lei avviene una trasformazione fulminea e radicale: il suo è un passaggio istantaneo dall’ignorarlo, al mettersi al suo servizio; dall’odio profondo, all’amore assoluto; dall’ignorarlo, dallo stargli il più lontano possibile, al volergli stare sempre accanto; dal considerarlo come un nemico, al sentirlo in cuor suo come un vero amico, un maestro affidabile, uno su cui poter contare, uno sempre disponibile.
Gesù come al solito ci offre anche oggi un insegnamento fondamentale: c’è qualcuno che ce l’ha con noi, qualcuno che prova rancore nei nostri confronti, perché, magari involontariamente, gli abbiamo fatto un qualche torto? Come dobbiamo comportarci? Purtroppo la prima reazione, quella naturale, è quella di stargli alla larga il più possibile. Ma questo non risolve il problema, semmai crea altra diffidenza, ingigantisce le distanze.
Impariamo invece dal comportamento che Gesù ha riservato a questa povera donna che era arrabbiata con Lui. Egli fa immediatamente due cose. La prima: prende l’iniziativa e va di persona a trovarla. Noi invece preferiamo rimanere nella nostra rabbia, continuiamo a fare gli offesi, pensando che lo sgarbo ricevuto sia in assoluto il più grave: quindi non noi, ma è l’altro deve fare la prima mossa, è l’altro che deve venire da noi per fare ammenda. È vero, quando veniamo feriti, è umano chiuderci in noi stessi: ma se continuiamo a rimanere bloccati dal nostro risentimento, annulliamo qualunque possibilità di incontro; se ci isoliamo nel silenzio, se ci rifiutiamo di parlare, non risolviamo assolutamente nulla. La seconda cosa: usa tenerezza e amore. In fin dei conti Gesù capisce le ragioni di questa donna: è arrabbiata con Lui e col genero, senza sapere come stanno realmente le cose; lei non lo conosce, non sa chi sia, come viva; non sa che il suo modo di pensare, di agire, di vivere, è completamente diverso da “quello di tutti gli altri”; Simone nel piantare la famiglia, il lavoro, tutto, per seguirlo, ha fatto effettivamente una scelta radicale, contraria ad ogni buon senso, difficile da capire, una scelta che la suocera da sola non avrebbe mai potuto approvare, condividere. Aveva bisogno di aiuto, di comprensione, di amore. E Gesù glieli dà.
Nel mondo purtroppo c’è tanta rabbia, tanto rancore, tanto dolore: è una prerogativa della nostra condizione umana. Quando una persona è arrabbiata, significa che nel suo intimo è profondamente ferita; e con una persona così debole e sofferente, dobbiamo avere tanta dolcezza, tanto riguardo, tanta comprensione, altrimenti non riuscirà mai ad aprire il suo cuore. Dobbiamo ascoltarla, questa persona “ammalata”; dobbiamo sentire le sue ragioni e soprattutto dobbiamo capire il suo dolore. Se rimaniamo sul piano della rabbia, non facciamo altro che alimentare una guerra stupida, senza senso; se invece ci incontriamo nell’amore, allora ci capiremo, allora verranno meno l’indifferenza, il rancore reciproco.
È quanto faceva Gesù per le strade della Palestina. Ogni giorno. Il vangelo infatti sottolinea: “Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni”.
Molti demoni”: ma quanti dovevano essere all’epoca gli indemoniati? Oggi la gente non crede più al demonio. È portata a pensare al demonio come ad una “creatura”, un personaggio vivo e reale, in carne ed ossa, che quando opera lo fa autonomamente, fuori dalla nostra percezione: e poiché non lo vediamo, possiamo stare tranquilli: non è un fenomeno che ci deve preoccupare. È un fenomeno d’altri tempi!
Ma noi sappiamo bene, invece, che non è così. Il demonio è presente eccome! Il Vangelo ci spiega che è un essere spirituale, uno spirito, un’entità ribelle, un “qualcuno” che ci accompagna e ci segue ovunque, uno che merita tutta la nostra attenzione, perché è un pericolo concreto e costante per la nostra libertà, per la nostra serenità, per la nostra salvezza: perché suo compito è quello di convincere, di persuadere la nostra mente, la nostra volontà, a pensare e a compiere cose che sono contrarie all’Amore, che esulano dall’Amore. “Demoni” sono quindi tutte le affascinanti lusinghe del male, le luci invitanti del peccato che oscurano la ragione. E autentici “demoni” siamo anche noi, quando adottiamo uno stile di vita opposto a quello che ci suggerisce la nostra coscienza, lo Spirito di Dio; “demoni” siamo noi quando, soggiogati da questo spirito che non è Vita, che non è Amore, ci lasciamo limitare, distruggere, condizionare, accettando di vivere con un’anima spiritualmente insensibile, svuotata, inerte, morta. “Demoni”, insomma, siamo noi, quando ci disinteressiamo della nostra vita spirituale, quando non corriamo ai ripari quando essa è completamente indebolita, profondamente ferita, totalmente incancrenita.
Come combattere questo demonio? Matteo scrive che Gesù “al mattino presto, si alzò, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”. Non nella città, non tra la gente, non in mezzo alla confusione, ma in un luogo deserto. Perché la preghiera è veramente tale quando nasce nel silenzio e nel raccoglimento del cuore. È infatti solo nel “deserto” della penitenza dei sensi, nella solitudine della mente, nel mettere a nudo l’anima, nel limitare il “troppo”, nel dominare le assurde pretese del mondo, nel mortificare lo spirito e la volontà, che riusciamo individuare e combattere i nostri demoni. È in tale “isolamento” che li possiamo vincere, come faceva Gesù, con la preghiera: una preghiera che deve essere come la sua, intensa: umile, sincera, riconoscente; un dialogo intimo e intenso col Padre, un atteggiamento di completo abbandono nelle sue mani, nella sua volontà. Una preghiera insomma decisamente diversa da quella che noi facciamo di solito: una misera lista di cose “irrinunciabili” da chiedere: una specie di lista “della spesa”, che presentiamo a Dio ogniqualvolta la vita ci presenta un conto da pagare, e pretendiamo che sia Lui a farlo. Questa non è preghiera, è un insulto alla bontà di Dio.
Non è con l’arroganza, con la presunzione, che possiamo vincere i nostri demoni! Amen.
  


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