giovedì 26 aprile 2018

29 Aprile 2018 – V Domenica di Pasqua


«Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano». (Gv 15,1-8)

Il brano del vangelo di oggi è tratto dal lungo discorso di addio, che Gesù ha rivolto ai suoi prima di morire (Cfr. Gv 13-27). In quel contesto Gesù apre completamente il suo cuore ai discepoli, e manifesta loro, con grande amore, i suoi sentimenti più profondi: parla di sé, di loro, di ciò che lo preoccupa, di ciò che li aspetterà in futuro, dell’amore e dell’odio che incontreranno nel mondo. E per spiegare in maniera più comprensibile chi è lui, il suo ruolo, la sua leadership, ricorre all’immagine della vite e dei tralci: Lui è la vite, loro i tralci: il tralcio, rispetto alla vite, è indipendente, è un'altra cosa. Non è la vite. Ma se il tralcio rimane unito alla vite porta frutto; staccato da essa, tagliato via, dissecca e non porterà mai frutto. La vite è per il tralcio la forza, il nutrimento, la vita, il suo tutto. E il tralcio, pur essendo tralcio, diverso dalla vite, forma un tutt'uno con la vite.
L’immagine, molto chiara e accattivante sul rapporto vitale che ci “lega” a Gesù, rende anche perfettamente ciò che dovrebbe essere la comunità cristiana: tutti uniti (un’unica vite) ma ciascuno nella sua grande diversità (tralci diversi con una resa diversa). Infatti, pur essendo un tutt’uno con la vite, siamo comunque assolutamente “diversi”, siamo cioè tutti “entità uniche e autonome tra loro”. Guardiamoci attorno: c’è chi ama l’arte, chi il disegno, chi la musica, chi la pittura, chi lo studio, chi la letteratura, chi lo sport, chi viaggiare. Ma se non siamo per niente studiosi, o artisti, o musicisti, o sportivi, non per questo siamo inferiori agli altri: siamo tutti tralci, è vero, ma “dissimili” tra noi. Ogni tralcio è se stesso, siamo noi, sono io: nome e cognome.
Spesso succede, invece, di pensarci tutti uguali: e pretendiamo di uniformare gli altri a noi (non noi agli altri!); se non corrispondono al nostro modello, non ci soddisfano, li critichiamo, li giudichiamo, li condanniamo. Non sappiamo accettare la diversità, l’unicità altrui. Ognuno invece ha una sua identità, una sua dignità, una sua potenzialità; ognuno è un tralcio singolo, sviluppato per portare la sua quantità di frutto.
Ciò che unisce una famiglia, una comunità, non è fare tutti insieme le stesse cose, ma è l’amore, il dialogo, la condivisione.
Molte famiglie si credono unite perché, magari, si ritrovano insieme tutte le domeniche a pranzo. Ma questa non è unione. Unione significa essere un’anima sola, un cuore solo; significa condividere reciprocamente i propri pensieri, le proprie emozioni, le proprie preoccupazioni, la propria vita: esattamente come avviene tra la vite e i suoi tralci.
L’allusione alla vite era molto comune ai tempi di Gesù. Il vino, frutto della vite, per gli antichi era il simbolo della felicità, dell’ebbrezza, dell’intensità del piacere, della vita vera. Quando a Cana, alle nozze, manca il vino la festa sembra compromessa, sembra finire; ma poi ci pensa Gesù e la festa e le danze ricominciano con maggior entusiasmo perché il vino, quello migliore, improvvisamente è riapparso in abbondanza. Così l’immagine dei tralci uniti alla vite, proposta dal vangelo di oggi, ci dice gioia, felicità, frutto abbondante, vendemmia assicurata: e ciò grazie alla vita, alla linfa che scorre continuamente al loro interno.
Il riferimento a noi è immediato: se perdiamo contatto con le nostre radici, con la vite, con la Vita, nessuna gioia è più possibile. Noi infatti siamo come tanti tralci: per cui non separiamoci dalla vite, dalla nostra unica fonte di Vita; non isoliamoci mai, non separiamo mai il nostro cuore dalla nostra anima, non distruggiamo la comunione profonda che li lega, non tagliamoci fuori da questa intimità, da ciò che abbiamo e proviamo dentro di noi, perché, in quel preciso istante, noi ci perderemo; non avremo più linfa, seccheremo, moriremo, diventeremo inutili sarmenti destinati a bruciare. È la legge fondamentale della vita.
Gesù si propone come la Vite/Vita vera: “Io sono il sapore della vita, io sono il gusto della vita, io sono l’ebbrezza della vita, io sono l’elisir della vita, io sono il vero piacere della vita”.
Ogni volta che il sacerdote nell’eucaristia pronuncia sul vino: “Questo è il calice del mio sangue, versato per voi”, ci suggerisce due cose importanti: che il sangue rappresenta la sofferenza, l’aspetto difficile della vita, l’aspetto duro, ostico, doloroso (del resto nel vangelo si parla di essere potati, purificati, tagliati); ma ci dice anche che il vino di quel calice è Gesù stesso, quel vino è il nostro gusto, il nostro sapore, la nostra gioia di vivere; è ciò che ci infonde vitalità, entusiasmo, serenità, amore, essenza di vita perenne.
La vita è un piacere; vivere è bello, entusiasmante, appassionante. Nella misura in cui sperimentiamo, assaporiamo, viviamo l’Amore.
Molti straparlano di amore, di amore di Dio: sono convinti di essere gli unici “illuminati”, gli unici destinatari, gli esclusivi custodi dell'amore divino; e per essere degni di questa loro “elezione”, conducono una vita triste, sconsolata, passiva, con scelte volutamente cariche di sacrifici, di sofferenze, di privazioni. Ma non è così che dimostriamo di “amare Dio”. Non è questo l’amore che Dio vuole da noi. Dio ha creato il mondo, le persone, le cose, il buon cibo, il sole, il vento, le stelle, i fiori e i colori, solo ed esclusivamente per noi; perché noi li potessimo ammirare, prendere, assaporare; perché potessimo gioire della loro bontà, riempiendoci il cuore e l’anima.
Dio è buono. Egli ci ama e ci vuole soddisfatti. Non dobbiamo aver paura di essere felici. Il Talmud dice in proposito: “Saremo giudicati per tutte le bellezze e i piaceri che Dio ci ha messo a disposizione e che noi abbiamo sdegnosamente ignorato”. Ovviamente non dobbiamo mai assolutizzare questo piacere, non dobbiamo finalizzarlo per non diventarne succubi. Tutto ciò che esiste, il mondo intero, esiste per noi; ma esiste non perché lo possediamo egoisticamente, non perché lo rapiniamo, lo dominiamo, lo distruggiamo, ma perché lo godiamo, condividendone serenamente la bellezza e la bontà con i nostri fratelli.
Noi invece vorremmo possederlo questo mondo: vorremmo che esistesse solo per noi, che fossimo noi i soli a goderne la bellezza: ciò succede inconsciamente, per esempio, anche quando, di fronte ad un paesaggio incantevole, oltre che a fermarci ad ammirarlo, a goderne in silenzio la sua maestosità, ci preoccupiamo soprattutto di fotografarlo in ogni suo particolare, in ogni sua sfumatura; vogliamo cioè in qualche modo catturarlo, possederlo, custodirlo sempre con noi, a nostro esclusivo uso e piacere. Il peggio purtroppo è che ci comportiamo così anche con le persone: spesso non le godiamo, non gustiamo la gioia della loro presenza, della loro compagnia, della loro amicizia; ci preoccupiamo soprattutto di trovare un modo per servirci di loro, siamo preoccupati soltanto di possederle, di sottometterle a nostro uso e consumo.
Godere è lasciare invece che le persone esistano, che vivano la loro vita. Godere è condividere la loro anima dentro di noi, assaporarne la bontà, la generosità, la disponibilità, ma lasciarle libere dove sono, non volerle possedere, circuire, perché non sono nostre. L’amore vero è gioia pura che dà continuamente vita; il possesso invece, anche se al momento è attraente, se stuzzica i nostri sensi, se ci offre soddisfazione immediata, ben presto svilisce, perde la sua attrazione, intristisce e soffoca l’anima.
L’immagine del tralcio unito alla vite ci ricorda il presupposto della sopravvivenza: se il tralcio si stacca dalla linfa che lo nutre, muore. Ecco perché il vangelo dice: “Rimanete in me”. Ce lo ripete insistentemente. Perché in questo “rimanere” c’è il segreto di ogni cosa. Se ci stacchiamo dal nostro Spirito interiore per noi è la fine. Se crediamo che la felicità consista nell’esteriorità, nel possedere, nel gozzovigliare, nel divertirci e basta, ci illudiamo: continueremo per tutta la vita a rincorrerla invano, senza alcun risultato, perché ciò che ci rende veramente felici non si trova all’esterno, ma dentro di noi. Le parole di Gesù sembrano lontane, astratte, riservate ai grandi mistici: “Rimanete in me; io in voi; voi in me”. Sembrano astruse, ermetiche, ma al contrario dicono una cosa semplice, elementare: l’intimità con Dio, linfa vitale, è data non da quanto facciamo, ma da quanto in profondità noi andiamo. Solo nel nostro profondo possiamo incontrarlo e rimanere in contatto diretto con Lui.
Tutti noi andiamo in chiesa per incontrarlo: ma non basta. Non basta andare in chiesa e riempire Dio di paroloni, di promesse, di inchini e genuflessioni a mezz’asta! Molti purtroppo parlano a Dio ma non con Dio. Molti cristiani, come pure molti preti e persone consacrate, quando sono in chiesa, quando pregano, dimostrano inequivocabilmente di non provare alcuna vibrazione interiore, alcuna vitalità spirituale, nessuno slancio: solo superficialità. Sembra proprio che le parole del Vangelo che proclamano non li riguardi; che non si lascino toccare da ciò che fanno e sentono; che non provino in alcun modo l’ebbrezza del canto o la commozione del silenzio. Insomma, dimostrano di essere persone che non parlano con Dio; semmai persone che lo riempiono semplicemente di fumo, di chiacchiere, di dovuto, di noia.
Nella vita, ovunque siamo, qualunque cosa facciamo, possiamo trovare la felicità autentica, assoluta, solo dentro di noi, nell’anima, punto di contatto con Dio, santuario in cui il suo Cuore palpita col nostro, sorgente da cui sgorgano le nostre emozioni più vitali: il pianto, la gioia, il dolore, il conforto, la riconoscenza, l’amore. “Introire secum” vuol dire allora percepire questa linfa divina che scorre dentro di noi, esserne riempiti, saturati, sommersi; vuol dire “rifugiarsi dentro”, nella nostra anima, e lasciarci sommergere interamente da Dio. Se rimaniamo lì, in Lui, allora finalmente capiremo “chi” siamo in realtà; allora finalmente capiremo quanto fortunati siamo ad averlo sempre con noi; allora finalmente conosceremo tutte le sfumature della Sua chiamata, tutte le implicazioni per la nostra vita, anche quelle più impegnative e forse a noi meno gradite. Ma soprattutto allora potremo finalmente perderci nella Sua grandezza, nella Sua bellezza, nella Sua immensità, nel suo Amore infinito. Amen.




mercoledì 18 aprile 2018

22 Aprile 2018 – IV Domenica di Pasqua


«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11-18).

Il vangelo di oggi indugia nel tratteggiare quelle che sono le qualità di un pastore “buono”.
Pastore buono è colui che segue le pecore, colui che si prende cura di loro: le conosce per nome, una per una, le difende dai pericoli, le protegge dai lupi; se si perdono, va a cercarle fino a quando non le trova; egli ama talmente le sue pecore, da dare perfino la propria vita per loro. È l’opposto del pastore mercenario: questi fa il “pastore” per lavoro, per soldi, per interesse, in cambio di un tornaconto; a lui non interessano le pecore, ma l’utile che può ricavare da esse. Non le ama, le sfrutta: esattamente come succede spesso anche a noi. Invece di prodigarci per i fratelli, invece di aiutarli, noi spesso li usiamo per noi stessi; approfittiamo di loro per controbilanciare le nostre carenze. Abbiamo esempi continui di gente che abusa del prossimo: datori di lavoro, politici, amici, colleghi: “pastori” che dimostrano un certo interesse nei confronti delle loro “pecore”, soltanto se la pensano come loro, solo se sono sottomesse, se eseguono passivamente gli ordini, se non creano problemi, se sono produttive. E poi? Poi il nulla. Sono dei tiranni, degli egocentrici, degli imbroglioni, mossi soltanto dalla fame di denaro.
Tutti noi invece abbiamo bisogno di pastori “buoni”, di pastori autentici: persone che ci siano sempre, che ci diano la certezza di venire sempre accolti, accettati, voluti, amati, ascoltati, al di là di ciò che facciamo o di ciò che siamo. Persone delle quali poter dire: “Sono tranquillo perché so che se anche tutto andrà male tu ci sarai sempre, non mi abbandonerai mai, sarai sempre con me”. Persone che ci rassicurano, che hanno un cuore che trabocca d’amore.
Sono questi i pastori che dobbiamo imitare: perché nella vita tutti siamo chiamati a rivestire un ruolo importante di “pastori”, di guide responsabili.
Prima di tutto siamo i pastori di noi stessi: il recinto è la nostra vita e dentro ci sono le nostre pecore: ci sono cioè le nostre emozioni, le nostre paure, le nostre aspirazioni, le nostre necessità. E come il buon pastore dobbiamo amarle, queste nostre pecore, dobbiamo conoscerle, sentirle nostre. Belle o brutte che siano, sono le nostre pecore e per esse dobbiamo affrontare qualunque contrarietà.
Essere allora dei “buoni pastori” di noi stessi significa non essere troppo intransigenti, troppo sicuri di quanto facciamo, troppo orgogliosi; significa aver pazienza quando sbagliamo, cercarci e ritrovarci quando ci perdiamo, saper aspettare quando qualcosa di noi zoppica, non va. Il nostro crescere, il nostro diventare migliori, ha bisogno di molto tempo, di umiltà, di seria applicazione, di costanza. Al contrario noi vorremmo risolvere tutto velocemente, il più in fretta possibile. Il che, in pratica, equivale a non affrontare per niente il problema, o quantomeno cercare una soluzione, un rimedio, una risposta, che non coinvolga più di tanto.
In secondo luogo, siamo i pastori anche dei nostri fratelli. E dobbiamo essere anche qui dei pastori veramente “buoni”.
Dobbiamo cioè stare attenti a quelle pecore che appartengono al nostro gregge, che ci sono più vicine; a quelle, in pratica, che abbiamo davanti tutti i giorni, con le quali dobbiamo relazionarci più frequentemente: non dobbiamo umiliarle, non dobbiamo usarle, perché come pastori, come guide, come maestri, come genitori, come leader, dobbiamo averne il massimo rispetto, la massima cura: sono le “pecore” nostre compagne di percorso, sono il nostro capitale umano.
Allora, essere “buon pastore” vuol dire credere nelle proprie pecore. Vuol dire credere che in ogni persona c’è un fondamento buono. Significa avere e trasmettere stima. Se vogliamo essere ascoltati, dobbiamo ascoltare per primi. Credere nelle proprie pecore, conoscerle, vuol dire valorizzarle. Nessuna è uguale all’altra. Dirigere, guidare delle persone, significa stimolarle, incoraggiarle, aiutarle a tirar fuori il meglio da loro stesse, quello che hanno dentro, spronandole all’entusiasmo, alla creatività; vuol dire soprattutto amare le proprie pecore. E amare significa servire: mettersi cioè al servizio delle loro potenzialità, di ciò che esse sono, di ciò che possono fare, del loro bene; non significa uniformare gli altri a noi stessi, ma chiederci cosa è meglio per loro, per la loro persona. Vuol dire ascoltare, mettersi a servizio del loro mondo, di ciò che desiderano, mettendo in secondo piano ciò che invece vorremmo noi.
Attenzione però: questa importante “apertura”, questa sensibilità, non va assolutizzata: non deve cioè “condizionare”, sempre e comunque, il pastore: non deve influenzare il discernimento, le sue valutazioni. Egli deve in ogni caso conservare sempre intatta la sua libertà: chi comanda, chi dirige non può assecondare passivamente ogni eventuale richiesta velleitaria, ogni capriccio delle persone affidate alle sue cure. Se c’è da dire un “no”, se c’è da correggere, se c’è da puntare i piedi per riprendere una pecora finita fuori strada, va fatto, con carità, ma senza esitazioni o ripensamenti. Il capo, l’educatore, non deve temere il rifiuto, non deve temere di deludere, e soprattutto non deve prestarsi a ricatti psicologici.
Ci sono dei genitori letteralmente in balia dei figli. Non riescono a dire “no”. Non sanno mantenere una posizione. Così il padre o la madre, per assecondare i figli, finiscono per litigare tra di loro: con il risultato che il debole, quello dei due più disponibile, passa per buono, l’altro per cattivo, intransigente. In questo modo, però, si finisce col permettere al figlio di averla sempre vinta, di comportarsi da tiranno, da despota, convinto di poter fare sempre nella vita ciò che vuole. È fondamentale sapere inoltre che il troppo buono, colui che non sa dire un “no” quando serve, non verrà mai apprezzato quanto merita.
Molti pastori non si oppongono mai nelle loro decisioni per paura di offendere, di ferire, di oltraggiare gli altri; pensano di essere considerati delle persone crudeli, in balia di pregiudizi. Ma non è così: il dispiacere, la delusione, il disappunto, l'irritazione per dei “no” ricevuti, sono decisamente positivi, costruttivi, obbligano a fare delle esperienze altamente educative, fanno capire cioè che nella vita non tutto è permesso, non tutto e lecito; che sulla strada da percorrere ci sono dei limiti, dei paletti, imposti dalla convivenza, dalla morale, dalla coscienza.
Altra prerogativa del buon pastore è quella di stare sempre davanti al gregge: la guida deve sempre precedere il gruppo: deve indicargli la strada percorrendola per prima, dando il buon esempio, senza urlare ordini in continuazione, ma indicando con i suoi passi le scorciatoie più agevoli e sicure.
Infatti, le regole che valgono per le “pecore”, valgono anche per i “pastori”, per le guide, per i formatori. Se vogliamo che gli altri ci ascoltino, dobbiamo noi per primi ascoltare gli altri.
Se vogliamo che le regole del convivere siano rispettate da tutti, noi per primi dobbiamo rispettarle. Chi pretende dagli altri ciò che lui per primo non fa, perde ogni autorevolezza, si scredita irrimediabilmente di fronte a tutti.
Purtroppo ci sono molti falsi pastori (dirigenti, capi, preti, genitori, politici) che non sono coerenti, non sono obiettivi, abusano volentieri del loro potere. Non sentono ragioni, comandano e basta. Spesso con disprezzo e cattiveria. Trattano i loro fratelli come se fossero degli ingranaggi utili soltanto per fare soldi, per creare il loro benessere; li considerano oggetti privi di valore, di dignità. Al contrario un pastore “buono”, una buona “guida”, stimola, incoraggia, aiuta sempre gli altri: perché è convinto che questo è il suo compito, questa è la sua missione; che questo è l’amore; che questo è servire gli altri. Che questo, in particolare, è quanto ci ha insegnato Gesù. Amen.



giovedì 12 aprile 2018

15 Aprile 2018 – III Domenica di Pasqua


«Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi»: (Lc 24,35-48).

I due di Emmaus tornano a Gerusalemme e raccontano agli altri discepoli la loro incredibile esperienza, di come cioè avessero visto e riconosciuto Gesù; anche Pietro racconta il suo incontro con il Signore, e tutti sono a conoscenza dell’incontro che con Lui ha fatto la Maddalena, la mattina di Pasqua. Nonostante ciò, quando Gesù appare all’intero gruppo riunito, essi rimangono senza parole; rimangono di stucco, sorpresi, sconcertati, come se non sapessero nulla delle precedenti apparizioni, come se nulla fosse mai accaduto. Un comportamento piuttosto strano questo dei discepoli. Forse Luca vuol dirci in proposito qualcosa di particolare? La cosa è piuttosto semplice da spiegare: aderire all’esperienza del Signore Risorto, credere, sentire che lui è presente vivo e palpitante, è un’esperienza personale, un’esperienza che ciascuno deve fare individualmente. Quello che gli altri vedono o provano non basta, non è determinante. Ognuno deve “toccare” Gesù di persona, esattamente come egli stesso chiede di fare nel vangelo di oggi: “Toccatemi, guardate le mie mani, i miei piedi”. È l’esperienza che ognuno di noi deve fare, per capire, per vedere con la mente e con il cuore, per renderci conto che davvero Gesù è vivo, che Lui c’è, che è sempre al nostro fianco, pronto ad intervenire. Un’esperienza diretta, indelegabile. Non ci basta che altri “raccontino”; non ci basta sapere che quanti lo hanno incontrato, si sono convertiti, hanno “rivoluzionato” la loro vita. Non basta “vederlo” attraverso gli occhi di chi già crede, non basta “sentirlo” attraverso la passione di chi già lo porta nel cuore e nell’anima. Non bastano né miracoli né guarigioni, né mille vangeli. Niente ci basta, se non abbiamo noi stessi il coraggio di toccare, di provare, di capire, di amare. Noi abbiamo il bisogno di essere completamente sicuri di Lui, di poter contare su di Lui, di credergli senza ombra di dubbio. Dubitare di Lui, significa relegarlo tra le “possibilità”, equipararlo a qualunque “surrogato”: con il risultato di rimanere perennemente insoddisfatti, sfiduciati, repressi.
La fede non è un concetto astratto: è l’effetto, la conseguenza di un incontro privato, personale, diretto, reale. Diversamente la nostra fede è teoria, ipotesi, possibilità; è soprattutto “dubbio”; un dubbio radicato nelle nostre paure ancestrali, nella nostra diffidenza. Credere è un po’ come trovarsi per la prima volta di fronte al mare. Per capire cosa sia quella enorme distesa d’acqua che si apre davanti a noi, dobbiamo buttarci dentro, dobbiamo immergerci, sentirci “coperti”, avvolti totalmente da quell’elemento. Soltanto così lo potremo “sentire”, potremo sentire l’effetto che produce in noi, e scoprire la sua bellezza, i suoi pericoli, il suo fascino, le sue potenzialità; scoprire insomma che sì, ci piace.
Credere in Dio è un po’così: dobbiamo toccarlo, sperimentarlo, viverlo. Altrimenti continueremo ad avere sempre e solo delle meravigliose idee su Dio: delle semplici idee, che non potranno mai bastarci; esattamente come non riusciremo mai a saziare la nostra fame con l’idea del cibo, di una bella tavola imbandita: se non mangiamo sul serio, avremo sempre fame!
Il dubbio infatti non è mai positivo, non entusiasma, non trascina, non coinvolge. Il dubbio è pigrizia, è paura, è accidia. Vivere, sperimentare, credere fermamente, richiede invece coraggio, volontà, fatica. Per questo preferiamo dubitare. Perché fino a quando dubitiamo, fino a quando sprechiamo il nostro tempo con le più affascinanti “teorie” di questo mondo, rimaniamo immobili, non ci muoviamo, non ci compromettiamo. E questo in parole povere significa non voler toccare Gesù, né permettere che sia Lui a farlo; significa esprimere il nostro rifiuto ad aprirci alla fede. Abbondiamo di teorie religiose, senza nessuna conseguenza pratica. Decisamente comodo e indolore.
“Gesù in persona stette in mezzo a loro”: un particolare, questo, che merita alcune considerazioni. Tutte le apparizioni di Gesù risorto, infatti, tranne quelle a Maria Maddalena e a Pietro, avvengono sempre in un contesto comunitario, alla presenza cioè di più persone.
Cosa vuol dire? che l’esperienza personale di “toccare” Gesù, pur essendo individuale, deve avvenire in un contesto comunitario. È importantissimo: la nostra esperienza personale con Dio ha motivo di essere, di crescere, di svilupparsi, soltanto in un contesto ecclesiale, vale a dire nelle nostre comunità religiose, nelle nostre parrocchie, nelle nostre famiglie.
In altre parole significa che pretendere di incontrare Gesù per nostro uso e consumo esclusivo non ha senso; considerarlo un privilegio esclusivamente personale, non farne parte con i fratelli, significa escludersi dalla comunità, tagliarsi fuori dalla “Ecclesia”, unico organismo in cui Cristo ha assicurato la sua presenza in Spirito fino alla fine dei tempi. È qui che deve succedere, è qui che deve avvenire il nostro incontro personale, è qui che possiamo realmente incontrarLo.
E le pagine del vangelo ci suggeriscono anche alcune vie preferenziali.
La prima via, come ho detto domenica scorsa, è incontrarlo mostrandogli le “nostre” ferite: come ha fatto Gesù con gli apostoli, dobbiamo anche noi mostrargli le ferite delle nostre mani, dei nostri piedi, del nostro cuore.
Le mani rappresentano il nostro fare, il nostro agire, il costruire, il realizzare: sono mani ferite, quando nelle crisi della vita, pensiamo di non poter costruire più nulla, di aver inevitabilmente compromesso tutto. Ma è un errore! Perché davanti a noi si apre sempre una nuova strada, una nuova situazione, un nuovo progetto da prendere in considerazione. A condizione però che le nostre mani malate, si trasformino, diventino le “sue” mani; soltanto se diventiamo le mani di Dio potremo nuovamente lavorare per il suo Regno; siamo noi che dobbiamo agire, ma esclusivamente con le sue mani.
Con i piedi feriti, ci troviamo nell’impossibilità di camminare autonomamente, di andare avanti, di percorrere il tortuoso cammino del diventare noi stessi, del progredire nella via dello spirito. Per questo dobbiamo “risorgere” con Cristo: “risorgendo con Lui”, infatti, tutto cambia, tutto diventa più facile, anche noi “paralitici” possiamo farcela, possiamo rivivere, possiamo riplasmare con gioia la nostra vita, darle nuovi impulsi, nuovi ideali.
La ferita del cuore, infine, è la più dolorosa, perché è l’amore che viene colpito. Il nostro cuore sanguinante inaridisce, diventa sordo alle chiamate di Dio, indifferente all’offerta del Suo amore. È talmente deluso, da rifiutare qualunque tentativo di aiuto; talmente arido, da non reagire più a nulla. Si sente travolto, imprigionato, investito tragicamente dai fatti dolorosi della vita. Ma nulla è irreversibile: il primitivo seme dell’amore divino in noi, vuol tornare a nuova vita, vuol risorgere, vuole amare ancora: toccare il cuore ferito di Gesù, significa guarire, riacquistare forza, entusiasmo, vita vera, intensa, luminosa.
La seconda via è l’amicizia, la donazione. È creando legami di amicizia, di confidenza, di intimità fra le persone, che noi possiamo sentire Cristo vivo e chiaro, percepirlo in maniera forte. Solo se riusciremo ad aprirci al prossimo, amandolo, ci sentiremo anche noi accolti e amati. In altre parole dobbiamo sentirci comunità: allora partecipare alla Messa domenicale, unendoci ai fratelli nella lode, nella preghiera, nel ringraziamento, è l’occasione ideale per incontrare Gesù: è lì che avremo la percezione chiara della sua presenza, di essere figli amati nella “comunità” del Risorto.
La terza via per incontrare il Risorto è l’ascolto e la comprensione delle Scritture. Come ci dice il vangelo, Gesù spiega agli apostoli le sue vicende, cos’è successo nei giorni immediatamente precedenti e perché è successo. Essi devono capire che tutto “doveva” succedere. Ebbene, anche noi abbiamo bisogno di capire la “nostra” storia, di capire il perché della nostra vita, di conoscere quel filo rosso che lega le nostre giornate a Lui; perché c’è questo filo, e noi dobbiamo assolutamente trovarne il significato, il senso, il collegamento.
Anche noi, come gli Apostoli, abbiamo bisogno di capire il messaggio profondo del vangelo e della Bibbia. Siamo ancora molto ignoranti al riguardo. S. Girolamo diceva: “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”. Ignorare le Scritture, significa non aver capito nulla di Cristo, del suo messaggio, della sua vita.
Purtroppo c’è ancora chi crede che il Vangelo sia un semplice documentario della vita di Gesù: una specie di film o il resoconto di qualche giornalista inviato speciale in Palestina. Siamo ancora troppo lontani da quello che realmente rappresenta la Parola per noi. Abbiamo ancora bisogno di conoscere, di capire, di cercare la verità. Tornare al Vangelo e a Gesù, significa appunto fare esperienza del Risorto, sentirci infiammare il cuore come ai due di Emmaus: perché il Vangelo di Gesù non è un libro da leggere: è una Persona, viva, vera, autentica, da incontrare, da amare, da accogliere nel nostro cuore. Amen.


giovedì 5 aprile 2018

8 Aprile 2018 – II Domenica di Pasqua


«La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco» (Gv 20,19-31).

Il vangelo di oggi descrive due apparizioni di Gesù ai discepoli. La prima ci spiega cosa significa per la nostra vita “vedere” il Signore; la seconda che “vederlo” è una questione puramente personale: nessuno infatti può toccarlo, sentirlo, viverlo, sperimentarlo, al posto nostro; è un’esperienza che ognuno deve fare personalmente.
I discepoli, dopo la morte di Gesù, si erano rinchiusi ben bene nel cenacolo per paura di ritorsioni: sgomento e terrore scandivano le loro giornate. Le “porte chiuse” stanno ad indicare che non ne volevano più sapere del Signore, meglio dimenticare tutto e tornare, a tempesta sedata, alla loro quotidianità, alla vita di prima. Certo i giorni trascorsi con Gesù erano indimenticabili; avevano creduto in lui, lo avevano seguito con entusiasmo, ma poi improvvisamente l’evento tragico della sua morte ha infranto tutti i loro sogni: l’unica scelta possibile era quella appunto di rinunciare a tutto e di tornare a casa.
È per paura che anche noi molte volte rifiutiamo la fede: non ce l'abbiamo con Dio, anzi lo vorremmo conoscere a fondo, vorremmo che rimanesse nel nostro cuore; sappiamo che Dio non è un nemico, che non viene da noi per condannarci o per farci del male. Ma abbiamo comunque paura: paura di “aprirgli le porte”, paura di quanto potrebbe trovare dentro di noi, paura che ci metta di fronte alle nostre responsabilità, paura che scopra le nostre maschere, le nostre immagini di facciata, le nostre illusioni costruite sul nulla.
Ma Dio non ama il terrore. Non vuole mettere nessuno con le spalle al muro. Per cui incontrarlo significa per noi scuoterci dal nostro immobilismo, dal nostro nasconderci; significa rinunciare al nostro caparbio ed eccessivo isolamento, dal voler risolvere i problemi da soli, di testa nostra. Far entrare il Signore nella nostra vita è qualcosa di concreto, di sicuro, di vitale: sicuramente è molto impegnativo, talvolta anche doloroso: significa togliere tutti i “paletti”, aprire ogni serratura, spalancare le nostre porte, pregandolo di accomodarsi; significa mettersi completamente nelle sue mani, accettare ogni sua iniziativa; significa farlo entrare proprio là dove regna ancora il potere del buio, della paura, dell'ignoranza, della notte.
Tommaso stesso non è presente a questa prima apparizione del Risorto: come a dire che non è ancora pronto ad incontrarlo: resiste, è ancora dominato dalla paura, non vuole aprirsi a nessuno.
Ma quando la seconda volta Gesù entra nel cenacolo, presente Tommaso, e ripete “Pace a voi!”, tutte le sue resistenze cadono. Si rende conto che non ha motivo di aver paura; Gesù non inveisce, non rimprovera, non biasima nessuno; augura la pace a tutti e a ciascuno: un saluto che significa: “Stai tranquillo, non ti preoccupare, non ti spaventare, ci sono io, non temere, non aver paura”. E per dimostrare che è proprio Lui, chiede all’incredulo Tommaso di toccare con la mano le sue ferite. Perché ai primi due incontri con i discepoli Gesù insiste nel mettere in evidenza le sue ferite? Perché non la sua potenza, la sua gloria, il suo essere vittorioso sulla morte? Per dimostrarci che anche Lui ha sofferto e sperimentato il dolore: ha voluto mettersi allo stesso livello dell’umanità sofferente, ha voluto incontrare il nostro io sofferente, per dimostrarci la volontà di eliminare tutto ciò che ci fa male, che ci impedisce di vivere, che blocca la nostra crescita, la nostra vita interiore, che ci impedisce di camminare spediti e liberi al suo seguito.
Purtroppo tanti, troppi cristiani continuano a tenere Dio fuori dalla loro porta, preferiscono mantenere le loro ferite. Soffrono ma non vogliono farsi curare. In questo modo però la ferita un po’ alla volta marcisce, diventa cancrena e porta alla morte. Una ferita non curata, non medicata, infetta tutto l'organismo. La vita di moltissimi uomini è un fiume di sofferenza, è piena di dolore, di rabbia, di lacrime e di umiliazioni: ma continuano a non fidarsi di Gesù.
Eppure è lui che ha messo a dimora nel nostro cuore il seme della fede e dell’amore: un seme però che ha bisogno di cure costanti, delle nostre continue attenzioni, della nostra totale dedizione; è un patrimonio nostro, strettamente personale. Il percorso e le prove degli altri non incidono direttamente sulla nostra crescita spirituale; sapere come gli altri hanno incontrato Dio è sicuramente istruttivo, consolante, di sprone, ma non ci dispensa dall’andare avanti nel nostro percorso di avvicinamento: perché siamo noi, di persona, che dobbiamo incontrarlo; siamo noi che dobbiamo conoscerlo, siamo noi che dobbiamo finalmente sapere chi egli è. Il “sentito dire”, le grandi omelie, le dotte catechesi, ce ne possono parlare all’infinito: ma non possono sostituirsi alla nostra esperienza personale: siamo noi, solo noi, che dobbiamo raggiungerlo, siamo noi, solo noi, che un giorno potremo esclamare con Giobbe: “Io ti conoscevo per sentito dire, o Dio, ma ora i miei occhi ti vedono…” (Gb 42,4).
I testimoni, i santi, la fede degli altri, non ci bastano: abbiamo bisogno di un incontro decisivo, illuminante, unico, tra noi e Lui. Tutti prima o poi dobbiamo incontrare il Risorto; ma dobbiamo farlo di persona, niente e nessuno possono sostituirci in questo.
Solo allora, come Tommaso, anche noi potremo dire: “Mio Signore e mio Dio”. Anche la Maddalena ha detto: “Mio Signore; rabbonì, mio maestro”. Gesù stesso ha parlato di “Padre mio e Padre vostro” (Gv 20,17). È una espressione che indica un possesso esclusivo, un’esperienza personalissima, pur essendo comune a tutti quelli che incontrano Dio.
Quando alla domenica andiamo in chiesa per l’Eucaristia, andiamo appunto per rivivere questo nostro incontro personale, per alimentare la nostra relazione d'amore, insomma per incontrare, per vedere il nostro Amore.
Molte persone dicono: “Io vado a Messa quando ne ho voglia”. Errore: chi ama non può esprimersi così; dimostra chiaramente di non amare Gesù, perché quando due si amano sul serio, non vedono l’ora di incontrarsi! Molte persone vanno in chiesa, ma non ci sono con il cuore, con l'anima, con il canto, con la preghiera: non partecipano, non si espongono, non si lasciano coinvolgere. Ma così non c'è alcuna intimità con Dio, non c’è alcun incontro, nessuna relazione. Non ascoltando la Parola di Dio, dimostrano di essere refrattari a qualunque invito, di essere sordi, disinteressati, impermeabili a tutto, chiusi nella loro corazza di indifferenza; si distraggono per qualunque cosa, per i motivi più futili; non sanno osservare il silenzio esteriore, né tantomeno quello interiore; non c'è intimità tra loro e Dio; esserci o non esserci è la stessa cosa. È come andare dall'amata e non abbracciarla, non parlarle, non darle un bacio. Che amore è?
Invece il nostro andare in chiesa per l’Eucaristia, deve rispondere al bisogno di toccare il Signore, di sentirlo, di sperimentarlo, di rivivere con lui il suo estremo sacrificio d’amore sulla croce. Ci andiamo perché sentiamo il bisogno di accrescere il nostro rapporto di intimità con lui. Sentiamo il bisogno di mostrare anche noi le nostre mani ferite dalle contrarietà di ogni giorno, dai pensieri che ci turbano, che ci ossessionano, dalle ansie che impediscono di esprimerci, di essere noi stessi, di diventare come lui ci ha pensato; sono insomma tutte le paure, i litigi, le incomprensioni, le relazioni che non vanno, il panico che ci assale, i giudizi della gente. Abbiamo bisogno di disintossicarci dal male, dall'odio, dal dolore. Mostriamogli tutte queste ferite aperte, e ascoltiamo la sua voce che ci tranquillizza: “Pace a te; non aver paura; ci sono io, sta’ tranquillo”. Sono queste le parole che ci servono; ne abbiamo bisogno, ci ridanno pace, fiducia e amore per ripartire con vigore.
Ogni volta che andiamo a Messa mostriamo al Signore anche il nostro costato ferito: è la ferita del nostro cuore, la più profonda; è la ferita del nostro io, del non essere accettati dagli altri, dell'essere rifiutati, traditi, del non essere considerati nelle nostre necessità. È la ferita delle paure forti e onnipresenti, delle sensazioni amare che ci rincorrono implacabili giorno e notte; è la ferita del renderci conto di aver sbagliato tutto nella vita, di aver fallito gli appuntamenti più importanti, di non essere riusciti a crescere, di continuare ad essere, ancorché adulti, dei bambini sciocchi ed immaturi.
Offriamo umilmente alla misericordia divina questa nostra ferita, così grande, così profonda, così dolorosa. E aspettiamo fiduciosi le sue parole rassicuranti e consolatrici: “Ricevi la mia pace, non disperare, io sono con te; fidati, insieme a me tu potrai guarire, potrai risolvere ogni tuo problema, sanare ogni tua ferita; tutto si sistemerà; e se ciò non fosse possibile, non disperare, perché io continuerò comunque ad amarti sempre, come e più di prima!”.
A ben vedere, nella vita, noi abbiamo bisogno soltanto di questo: di sentirci capiti, apprezzati, amati da Dio. Abbiamo bisogno di sentirci dire che ce la possiamo fare, che la nostra dignità non è del tutto distrutta, che possiamo contare sempre nel suo aiuto, nella sua misericordia.
Allora, il nostro andare in Chiesa la domenica non sarà più un peso, non sarà più una tradizione noiosa, di cui faremmo volentieri a meno; sarà invece l’occasione settimanale attesa e gradita per incontrare personalmente Dio, per assicurargli il nostro amore, la nostra riconoscenza; per dirgli che senza di lui tutto è difficile in questo mondo, tutto è problematico; per chiedergli la sua benedizione: in una parola, la Messa diventerà allora il nostro appuntamento domenicale con Dio, per rinnovare con lui la nostra gioiosa esperienza di Risurrezione. Amen.