venerdì 29 febbraio 2008

2 Marzo 2008 - IV DOMENICA DI QUARESIMA


Ora siete luce nel Signore
Quaresima tempo di desertificazione, tempo di autenticità per riscoprirci più uomini e scegliere di essere discepoli. Il Tabor ci aspetta, la bellezza di Dio è il termine ultimo del nostro cammino. Come la Samaritana, anche noi scopriamo che Dio solo può dissetare la nostra vita, e Dio ci svela che lui per primo ha sete di noi e della nostra fede. Un percorso iniziatico che in passato preparava i catecumeni a ricevere il Battesimo e che oggi porta noi a prendere consapevolezza di ciò che possiamo diventare.
Per trovare Dio occorre scoprire la sete di infinito che abita nel profondo del nostro cuore e che nulla, neppure la vita affettiva della donna di domenica scorsa, può davvero saziare.
Nel racconto del cieco nato Giovanni non si accontenta, come negli altri Vangeli, di raccontare un miracolo, ma di questo miracolo ne dona interpretazione e significato.
L'uomo è cieco, ma Dio ci vede benissimo. L'inizio del brano, che ci mostra Gesù che vede, è una provocazione alla nostra poca fede. Quante volte abbiamo l'impressione che Dio sia cieco? Che non veda la sofferenza degli uomini, che non si chini a vedere le mie difficoltà?
Dio ci vede benissimo, noi, spesso, no. La nostra miopia interiore, la nostra cecità, ci fanno esprimere giudizi affrettati, ingiusti nei confronti di Dio. Gesù ci svela il volto di un Dio misericordioso, attento, delicato, rispettoso, che conosce e guarisce le nostre miserie interiori.
Come il colloquio strepitoso con la donna di domenica scorsa, diffidente, all'inizio, che viene portata dal Maestro a guardarsi dentro con serenità, a riconoscere il proprio limite. E quando scopre, lei che non poteva entrare nel Tempio di Gerusalemme perché ebrea e non poteva entrare in quello di Garizim perché giudicata, che Dio la faceva diventare Tempio, abbandona la brocca dell'appartenenza relativa per riconoscere in Gesù il Messia atteso. Un Messia che conosce il dolore, nel suo caso il dolore di un'affettività a pezzi, e lo redime.
La cecità del personaggio di oggi è la nostra cecità, la nostra incapacità a credere, la nostra fatica a credere. Al tempo di Gesù, malgrado secoli di riflessione sulla sofferenza (Giobbe insegna), molti erano convinti che la malattia fosse punizione divina. Ragionamento corretto e implacabile: se sgarri Dio ti punisce con la malattia, se nasci malato hanno peccato i tuoi e Dio ti punisce attraverso i figli. Dio crudele ma ineccepibile.
Al tempo di Gesù. Oggi, grazie a Dio, nessuna più pensa queste cose orribili.
Gesù scardina quest'opinione: il punito, il maledetto diventa discepolo, la cecità non è più limite ma apertura ad una dimensione più profonda, più luminosa della realtà stessa. L'abbandonato, il reietto giudicato (i malati non suscitavano compassione: se l'erano cercata!) viene salvato, guarito, illuminato.
Anche noi discepoli siamo chiamati a superare la cecità, ad essere accesi e illuminati. L'uomo, così bravo a scoprire e usare le leggi della natura e del cosmo, ancora si vive come un Mistero irrisolto, si percepisce con profondità vertiginosa, non sa darsi risposta.
Manchiamo di coscienza di noi stessi. Pur conoscendoci, non riusciamo a sondare tutti gli aspetti della nostra vita, del nostro carattere; Dio, allora, ci rivela a noi stessi.
Con il dono della fede, ci illumina la vita.
Tempo fa un amico diventato credente diceva: "E' come se fossi sempre vissuto in una stanza al buio. Certo: mi orientavo, mi muovevo, ogni tanto urtavo qualche oggetto che mi provocava dolore. Poi, d'improvviso, qualcuno ha aperto le ante e la luce è entrata".
Sì: l'esperienza della fede è illuminazione interiore. A noi, solo, di non tenere gli occhi chiusi per ostinarci a dire: "E' buio".
Questa coscienza di chiarezza era così forte che in origine i cristiani chiamavano il Battesimo proprio "illuminazione". Riscoprire la fede diventa allora esigenza portante, fondamentale, per acquistare una prospettiva sulla vita e sulle cose completamente diversa.
Davanti alla vista del cieco nato, però, occorre aprire il cuore, fidarsi. I dotti del tempo di Gesù, davanti a questa guarigione si irrigidiscono, non vogliono capire, non vogliono vedere. Così i genitori del cieco hanno paura del giudizio dei Farisei: anche loro vivono nelle tenebre del pensiero altrui, dell'omologazione che impedisce di essere liberi di fronte alle scelte.
Il grande Giovanni, al solito, gioca sull'ambiguità: chi è cieco e chi ci vede dentro questo racconto? Chi credeva di vederci benissimo è, in realtà, inchiodato ai suoi pregiudizi (anche religiosi!) o al giudizio degli altri. Il cieco, maledetto da Dio secondo gli uomini è, in realtà, l'unico a vederci benissimo!
Il miracolo conduce il cieco ad un'altra luce, ben più profonda.
Le domande che Gesù gli rivolge, portano ad una conclusione: sì ora può vedere chiaramente che Gesù è il Messia, il Figlio dell'uomo.
Cosa significa camminare nella luce? Significa innanzitutto abbandonare le luci false: la luce fredda e fatua del pregiudizio contro gli altri, perché il pregiudizio distorce la realtà, falsa le proporzioni, ci carica di avversione contro coloro che giudichiamo senza misericordia, condanniamo senza appello. Non possiamo pretendere di essere luce di noi stessi. Un'altra luce falsa, perché seducente e ambigua, è quella dell'interesse personale: se valutiamo uomini e cose in base al criterio del nostro utile, del nostro piacere, del nostro prestigio, inevitabilmente non facciamo la verità nelle relazioni e nelle situazioni. Il buio del nostro cuore ci acceca: non riusciamo a vedere oltre la superficie dei fatti e delle cose; come possiamo discernere con obiettività? Tante volte poi la vista ci si appanna perché ci autocondanniamo a camminare con la luce fioca del lumicino del tran-tran quotidiano: come possiamo orientarci nel groviglio di situazioni complesse e delicate se a forza di vivere il giorno-per-giorno ci riduciamo poi a vivere alla giornata?
Camminare nella luce - ci ha detto s. Paolo - consiste "in ogni bontà, giustizia e verità"; consiste nel "cercare ciò che piace al Signore". Camminare nella luce significa saper vedere Dio alla regia di una storia che sembrerebbe condotta solo dagli uomini; significa saper leggere le tracce della sua sapienza e bontà sui sentieri a zig-zag della nostra vita; significa riuscire a decifrare i misteriosi messaggi del suo amore anche nelle pagine striate di lacrime e sangue nel nostro calendario.
Ci valga di incoraggiamento questo passaggio di s. Agostino: "Forse tu cerchi di camminare, perché ti dolgono i piedi. Per qual motivo ti dolgono? Perché hanno dovuto percorrere i duri sentieri imposti dal tuo tirannico egoismo? Ma il Verbo di Dio ha guarito anche gli zoppi. Tu replichi: Sì, ho i piedi sani, ma non vedo la strada. Ebbene, sappi che egli ha illuminato perfino i ciechi".
Non chiudiamoci quindi nei pregiudizi e nella vergogna della nostra fede: sappiamo che tutta la luce che abita nel nostro cuore è dono della tenerezza di Dio.
Accogliamo la sfida, fratelli, non opponiamo resistenza alla luce, lasciamo le dita di Gesù toccare i nostri occhi e guarirli. Che la nostra vita diventi testimonianza di quest'illuminazione.
Non abbiamo paura ma fidiamoci di Colui che, solo, può guarire la nostra cecità. Il nostro Battesimo, ancora tutto da riscoprire, ci ha aperto gli occhi della fede. Usiamoli, ora, per rileggere la nostra vita con lo sguardo stesso di Dio.

giovedì 21 febbraio 2008

24 Febbraio 2008 - III DOMENICA DI QUARESIMA


Cristo, acqua per la nostra sete di assoluto
É facile, leggendo lentamente questa pagina di Giovanni, socchiudere gli occhi ed immaginare la sassosa terra di Palestina: il sole cocente, l'aria che evapora, il caldo che si appiccica alla pelle. Mezzogiorno in Palestina equivale ad una frustata di aria calda e polverosa nei polmoni. Qui, al pozzo di Sicar, nel brullo deserto di Giuda, Dio siede, stanco. Stanco di cercarci, stanco di elemosinare attenzione dalle sue creature.
É lo strano destino di un Dio che per amore accetta la nostra indifferenza. Nel deserto cocente anche Dio prova sete. Sete della nostra fede, sete di vedere colmato il suo infinito desiderio di amare ed essere amato.
La Samaritana viene al pozzo ad attingere acqua. Un' ora inconsueta per far acqua, che rivela il suo desiderio di non incontrare nessuno. Non incontrare soprattutto gli occhi e i giudizi degli abitanti di quel minuscolo paesino che conosce e disapprova la sua frammentata vita sentimentale.
E lì, in questo affresco che Giovanni sa descrivere con grazia e pudore, avviene l'incontro. Un incontro di sete e di acqua, di attenzioni e di scoperte, d'interrogativi e di frescura che riempie il cuore. L'incontro della sete di Dio che brama di dissetarsi della fede della donna, e dell'acqua della presenza di Dio che, sola, placherà la sete di felicità di questa donna inquieta.
Gesù inizia, prende l'iniziativa, ci interpella: "Dammi da bere".
Una richiesta che rimanda ad un'altra richiesta – tragica – che Gesù farà dall'alto del legno a cui è inchiodato: "Ho sete". Sì: Dio ha sete di noi, della nostra fede, della nostra attenzione. Ci chiama, ci parla di senso e di pienezza, risveglia la nostra ricerca. La Samaritana non ci sta, non si scopre, gira intorno all'essenziale. "Chi è mai - pensa - questo sconosciuto che mi parla? Che vuole?".
Lei come noi, sta sulle difensive, come se Dio fosse un avversario, un concorrente.
Il dialogo continua, e rivela alla donna il volto di un Dio sempre meno duro, un volto sempre più attento e rispettoso. Gesù la sa condurre sapientemente, passo dopo passo, dentro a se stessa. La porta, con sbalorditiva delicatezza, a mettersi in discussione, a riconoscere il suo limite, a superarlo.

La donna ora accetta una domanda personale, che coinvolge la sua affettività e rivela la sua allergia all'incontro con i compaesani: è una donna fragile, giudicata, che incontra solo sguardi e commenti offensivi e che ora – invece – incontra uno sguardo buono sul serio, che non giudica e ama.
Anche lei ha sete, una sete tormentata che ha creduto placare offrendo amore disperatamente, usata nei suoi affetti e nel suo corpo, una sete che nessun abbraccio ha colmato, ma solo temporaneamente zittito. Quella sete, sentendo parlare quel maschio straniero che la tratta come una persona, che la guarda con amore rispettoso e virile, ora esplode nel suo cuore. Prima timidamente e con durezza (troppe cicatrici nel suo cuore), poi come un urlo tanto a lungo compresso e negato.
Imparassimo – noi educatori, genitori, insegnanti – a saper ascoltare chi ci parla, a forzare con delicatezza e rispetto il suo cammino, a fidarci della capacità di cambiare che abita il cuore di ogni uomo come fa Gesù con questa donna.
Gesù rivela un'inconsueta capacità di dialogo, di relazione, nel rispetto e nell'amore. La Samaritana passa dalla discussione accademica sulla "religione" ("E' qui che dobbiamo adorare?") alla percezione che davanti a questo sconosciuto può aprirsi, di lui può fidarsi, perché parla di Dio come mai nessuno le ha parlato.
Tace, la donna. Mai nessuno le aveva detto di essere un tempio, di essere amata. Mai nessuno l'aveva amata. Il mondo si era diviso in chi l'aveva usata e in chi l'aveva condannata. Nessuno, mai, le aveva detto di essere amata senza condizioni. Beve, ora, la samaritana, beve come se mai avesse assaporato il gusto dell'acqua, come sei mai avesse assaggiato l'acqua fresca di sorgente. Beve e sente in lei aprirsi la sorgente, spezzare la roccia del dolore, come quella che Mosè diede al popolo nel deserto.
Corre. E crede. La peccatrice diventa discepola, la donnaccia, un'opera d'arte. Il suo limite diventa il trono della gloria di Dio, la sua vita disordinata l'epifania del volto di Dio. Beve, ora, e lei stessa diventa sorgente.
Lascia la brocca - che importa ormai? - e corre dai suoi sospettosi vicini. Non ha più paura, non si vergogna, non si difende. Ha capito, ha trovato l'acqua viva, ne parla, contagia col suo stupore chi l'ascolta.
Il suo limite diventa addirittura mezzo di evangelizzazione: le persone che prima guardava con sospetto diventano persone da contagiare: lei ha incontrato qualcuno che le ha letto la vita, che sia lui il Messia tanto atteso? E in questo crescendo di grazia, l'acqua corre, come un rivolo, prima, poi sempre più energica, come un torrente in piena.
É l'acqua della presenza di Dio che da quel giorno ha sostituito il limaccioso pozzo di Giacobbe. L'acqua, la stessa acqua nella quale siamo stati immersi, il giorno del nostro Battesimo. L'acqua della Presenza di Dio, la sola che può dissetarci.
Pagina semplice, fresca, luminosa, che non necessita di troppi commenti.
A te che leggi, fratello, sorella, il Signore chiede di dargli da bere, di chiacchierare, di passare dalle belle definizioni astratte su Dio al coinvolgimento della tua e della nostra storia, anche della più oscura. Il Dio che disseta, il Dio che stanco ci attende al pozzo delle nostre giornate, il Dio che non ci giudica quando tutti puntano l'indice, il Dio che riempie e cambia la vita della Samaritana, il Dio che cambia il volto di quel minuscolo paese che spalancherà le proprie case al fiume di grazia, ti attende.
Un Dio da incontrare, alla fine del cammino del deserto, da ammirare stupiti sul Tabor, che ci cerca, stanco, per dissetarci, il Dio bellissimo di Gesù.
No, nessuna sete potrà mai essere spenta se non dall'incontenibile sguardo di Dio.

In pratica….
È questo allora il suggerimento stupendo che ci viene dalla Parola di Dio di questa domenica: per prepararci bene alla Pasqua dobbiamo lasciarci dissetare dall'acqua viva che è l'amore di Dio.
Dobbiamo tuffarci in quest'acqua viva, spruzzarci a vicenda, bere a sazietà!
E come si fa?
Chi ha già la possibilità di accostarsi al sacramento della Riconciliazione, sa perfettamente che ogni incontro con il perdono del Signore è una lunga sorsata dell'acqua viva del suo amore.
Non perdiamo le occasioni in Quaresima per tuffarci nella gioia di vivere il perdono del Padre Buono, lasciandoci sommergere dall'acqua viva del suo amore!
E poi, tutti, possiamo mantenere sempre fresca la sorgente dell'acqua viva che Dio Padre ha messo in noi con il Battesimo. Ci ha detto Gesù che anche in noi zampilla l'acqua viva dell'amore e questo zampillo è alto, limpido, fresco, ogni volta che doniamo amore.
Ogni volta che diciamo una parola gentile, un incoraggiamento, una frase che consola chi è triste, facciamo zampillare l'acqua viva dell'amore. Ogni volta che sorridiamo a qualcuno, che siamo accoglienti, che scacciamo via i musi lunghi e trattiamo tutti con bontà e simpatia, ecco che zampilla la sorgente dell'acqua viva. Tutte le volte che sappiamo essere generosi, in famiglia, a scuola, con gli amici; quando sappiamo condividere i nostri giochi, il nostro tempo, ci stiamo spruzzando allegramente con l'acqua viva.
Ogni volta che siamo capaci di perdonare uno sgarbo o una presa in giro, ogni volta che siamo capaci di non offenderci per un dispetto o una cattiveria, stiamo tuffandoci profondamente nell'acqua viva.
Adesso restiamo un istante in silenzio, ripetendo nel segreto della mente le parole della Samaritana: "Signore, dammi quest'acqua".
Sì, Signore Gesù, dacci sempre l'acqua viva che solo tu sai donare. Dissetaci con il tuo amore, o Maestro e Signore, e il nostro cuore sarà nella felicità che non finisce mai.

Meditiamo…
«La samaritana crede nel miracolo, nel miracolo più che nella felicità, come tutte le donne. Per questo, solo le donne sanno attendere, sperare e forzar la mano del Signore con parole e slanci che costituiscono una delle meraviglie del vangelo.(…) I motivi della samaritana sono buoni, ma il primo è espresso in modo sbagliato, il secondo in modo incompleto. Dio, è vero, acqueta e vince la nostra sete, ma non la spegne: non vuole spegnerla, essendo una nota sostanziale della nostra spiritualità. Come non ci toglie la croce, così non ci toglie la sete. Senza croce cesseremmo di progredire e di assomigliargli: senza sete non lo cercheremmo più. “Come il cervo cerca le fonti, così l’anima mia cerca te, o Signore”. Egli leva alla mia sete il tormento, ma me la lascia. Nell’acqua viva che egli mi dà, c’è anche di più di quanto la mia sete richieda: io però vi attingo di continuo per un bisogno che, cessando di essere un tormento, è divenuto il mio gaudio: “La mia anima ha sete di te, Dio forte e vivo”.(…) Molti pretenderebbero di ridurre la religione ad una forma assicurativa di quiete. Non mi pare che il Signore possa essere soddisfatto di gente che arrivi a lui con animo dimissionario e di pensionato.(…) l’adorazione in spirito e verità, voluta dal vangelo, c’impegna di più dopo che prima dell’arrivo. Anche la grazia di arrivare in porto non è di esclusivo godimento di colui che arriva. Ogni possesso è un dono in funzione di carità, perché anche gli altri abbiano e in maniera anche più abbondante di noi stessi. Oltre la mia sete c’è la sete dei fratelli: oltre la mia stanchezza, la loro stanchezza» (Don Primo Mazzolari).

giovedì 14 febbraio 2008

17 Febbraio 2008 - II DOMENICA DI QUARESIMA


La via del discepolo: croce e gloria

Siamo partiti per un cammino di quaranta giorni di essenzialità. Quaranta giorni alla sequela del Maestro Gesù che, nel deserto, sceglie un messianismo di basso profilo, di relazione, di profezia, rifuggendo la tentazione di una religiosità urlata e chiassosa. Quaranta giorni per convertirci alla gioia Pasquale, per lasciar crescere in noi la tenerezza del volto di Dio, per imparare o re-imparare cosa ci è davvero necessario. Digiuno dal caos e dalla rabbia, preghiera quotidiana basata sulla Parola ed elemosina per aprire il cuore (e il portafoglio) ai fratelli che camminano con noi e che vivono nella povertà, sono le tre strade che siamo invitati a percorrere per tornare all'essenziale.
Lungo come una Quaresima: nella simpatica e luminosa coscienza cristiana del passato, questa frase sintetizza bene l'atteggiamento di insofferenza verso questo tempo liturgico che ci appare come un'imposizione di (inutili) sacrifici e desueti fioretti per mortificare il corpo.
Al contrario, la Quaresima autentica non mortifica, vivifica, sapendo bene che la vita interiore è lotta radicale contro l'aspetto tenebroso della nostra coscienza e che non basta rinunciare ai dolci per convertire il cuore.
Ben più radicale è l'atteggiamento che il Maestro oggi ci chiede, non subire una serie di privazioni che ci siamo imposti, ma scegliere di scegliere, spalancare il cuore all'amore di Dio, salire sul Tabor.
“La bellezza salverà il mondo”, l'affermazione, contenuta in uno dei romanzi dello scrittore russo Fedor Dostojewski, ci introduce benissimo a questa inusuale seconda domenica di Quaresima. Vangelo poco “mortificato” e penitenziale quello che ogni anno la liturgia (saggiamente) ci propone, quasi a soffocare sul nascere la triste consuetudine cattolica di essere tristi, specialmente quando si parla di Dio.
Sbagliato: quando si parte nel deserto il cuore è allegro, perché alla fine saremo liberati dal Faraone e dal suo esercito. Quando si sale sulla montagna, malgrado la fatica, ciò che ci spinge a salire è la gioia che proveremo nello spaziare con lo sguardo oltre le cime.
Così ecco l’esperienza del Tabor: Pietro e gli altri sono esterrefatti da quanto accade: Gesù maestro, profeta affascinante, si rivela per quello che è; ed è un'esperienza travolgente, di bellezza sconfinata. Quanto dobbiamo recuperare questa dimensione della bellezza nella nostra vita cristiana!
Gli apostoli, inaspettatamente, si ritrovano a contemplare Gesù di Nazareth che si rivela loro nella sua forma più autentica di Figlio di Dio. Sembra quasi un'anticipazione della Resurrezione che, forse, nell'intento del Signore, serviva a dare agli ignari apostoli quel po' di coraggio necessario per affrontare il grande scandalo della croce. Alla fine della trasfigurazione gli apostoli non vedono che “Gesù solo”. Certo: il momento in cui raggiungiamo attraverso la preghiera e la contemplazione il volto di Gesù Risorto, vivo qui e adesso, e ci troviamo davvero scossi e scombussolati da una tale manifestazione, non vediamo che Gesù solo. Solo lui: nelle nostre scelte, nei nostri fratelli, nelle nostre giornate.
Più volte lo abbiamo detto e ancora lo ripetiamo: la fede non è semplice adesione intellettuale, è coinvolgimento radicale, esperienza misteriosa di questo Dio che è altro da noi (non sentimento, non impressione, non scelta ma manifestazione).
Di questa esperienza i cristiani parlano, a questa esperienza vogliono condurre nel misterioso intreccio delle libertà (mia e di Dio) ogni fratello che si lascia avvicinare dal Vangelo.
Nessuna apparizione, per carità (Dio ci preservi dalle apparizioni!) ma la semplice possibilità di fare esperienza interiore tangibile ed inequivocabile della bellezza di Dio.
Pietro Giacomo e Giovanni, da ora in avanti, avranno sempre e per sempre impresso quel volto trasfigurato, quel Dio ora chiaramente leggibile nella natura più profonda.
È questa forte esperienza che manca, spesse volte alla nostra tiepida fede.
Perciò molti vivono la fede come scelta necessaria, doverosa, utile anche se immensamente noiosa.
Perché senza il Tabor, il cristianesimo manca della sua dimensione essenziale: la bellezza di Dio.
Dio è bellissimo: forse dovremo recuperare questo aspetto nella nostra vita cristiana; ripartire dalla bellezza. Le nostre periferie sono orrende, orrende le città, orribili le finte vacanze che ci vengono proposte in mezzo a finti paesaggi immacolati. Orribile il linguaggio e le persone che ci raggiungono dal mondo della politica e dello spettacolo. Abbiamo urgente bisogno di bellezza, della bellezza di Dio che è verità e bene e bontà.
Non è forse questa la fragilità della nostra fede contemporanea? Non è forse questa la ragione di tanta tiepidezza della nostra comunità? Non abbiamo forse smarrito la bellezza nel raccontare la fede? Nel celebrare il Risorto? È noioso credere... È giusto – certo – ma immensamente noioso.
Il Vangelo di oggi ci dice, al contrario, che credere può essere splendido. Varrebbe la pena di recuperare il senso dello stupore e della bellezza, l'ascolto dell'interiorità che ci porta in alto, sul monte, a fissare lo sguardo su Cristo. Facciamo delle nostre messe dei luoghi di bellezza: il silenzio, il canto, la fede, il luogo in cui preghiamo, può riportare un briciolo di bellezza nella nostra quotidianità.
Ma questa inaudita e straordinaria esperienza, ci ammonisce Paolo scrivendo a Timoteo, non è merito nostro o nostra conquista: è dono totale e gratuito di Dio che ci “dona ogni cosa” nel suo figlio Gesù.
Fidiamoci, partendo, come Abramo che segue l'invito di un Dio di cui non sa nulla. Partire significa credere in questo Dio di cui mi fido e che mi invita a compiere gesti che a volte non capisco in profondità, rinunciando ai miei progetti per accogliere il suo Progetto.
É il salto della fede, il fidarsi ciecamente di qualcuno su cui ho scommesso tutto. Abramo non capisce, stenta, tentenna, obbietta. Ma si fida.
E questo fidarsi, dura prova nella sua vita, lo fa morire ai suoi progetti per diventare, secondo la promessa, padre di una moltitudine: i credenti, appunto, che, dopo di lui, rifanno questo percorso di fiducia per arrivare fino a Dio. Il Tabor, quindi, come meta della nostra Quaresima. Per non vedere che “Gesù solo”, occorre fidarsi come Abramo, rinunciare al proprio egoismo, salire (faticosamente!) dietro al Maestro per riconoscerlo come Messia. Questa mortificazione-vivificazione ha in gioco la presenza stessa di Dio!

L’obbedienza.
L'obbedienza non è cosa facile da spiegare. Tendiamo a pensare all'obbedienza solo come un atteggiamento implicante il mero controllo della libertà. È un'imposizione che restringe l'espressione della propria volontà. Essa comporta la presenza di un'autorità, di qualcuno che prende decisioni arbitrarie riguardo alla nostra vita. Presuppone timidezza e debolezza di carattere, da parte di coloro che non sono in grado o non vogliono determinare da soli la direzione della propria esistenza. Porta a rinunciare ai propri pensieri, alle proprie idee e alla propria autonomia.
Forse è questa la caricatura di obbedienza che spontaneamente rifiutiamo. La realtà è ben diversa. A livello umano ci sono molte cose cui obbediamo volentieri, perché ci rendiamo conto che ci sono buone ragioni per farlo, perché mi accorgo che il bene comune lo richiede, o perché riconosco che c'è chi ne sa più di me o chi è in una posizione migliore per decidere di qualcosa. Obbediamo e acconsentiamo anche alle persone che amiamo, perché vogliamo soddisfarle. La nostra obbedienza è attiva e di tutto cuore. Desideriamo obbedire, anche se, a volte, ci costa. L'obbedienza può portarci a frenare un nostro desiderio, ma accettiamo questa limitazione per qualcosa che per noi è più importante.
Ci sono anche delle buone ragioni per l'obbedienza religiosa. Le vie di Dio che oltrepassano l'umana comprensione, la fiducia religiosa verso i rappresentanti e i ministri di Dio fondata sulla Parola Rivelata, l'autorità della santità, la nostra stessa esperienza del riconoscimento della verità di Dio presente nel prossimo.
L'obbedienza non dovrebbe essere confusa con il conformismo (umano o religioso), che è mera adattabilità esteriore del nostro agire. Questa implica un atteggiamento passivo, di inerzia. Le proprie facoltà interiori non vengono coinvolte, ma si lascia che tutto avvenga e vada per il suo corso, unicamente perché è più facile e comodo che fare il contrario. Il conformismo può essere indotto anche da una sottovalutazione della capacità delle persone di accettare liberamente e con amore la verità.
Dobbiamo intendere meglio la vera natura dell'obbedienza religiosa, quale luce necessaria nell'oscurità dell'esistenza umana. Ciò richiede un riesame del senso del proprio scopo nella vita, del proprio grado di apertura all'esperienza della verità religiosa, della capacità di confidare e di affidarsi all'altro (FR), del senso del bene altrui, della propria capacità di amare, di essere in grado di adattarsi all'altro.
Così facendo, possiamo apprezzare meglio quella semplice frase della Genesi: “Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore”.

Il silenzio
Il silenzio è mitezza: quando non rispondi alle offese, quando non reclami i tuoi diritti. quando lasci a Dio la tua difesa e il tuo onore.
Il silenzio è magnanimità: quando non riveli le colpe dei fratelli, quando perdoni senza indagare nel passato, quando non condanni, ma intercedi nell'intimo.
Il silenzio è pazienza: quando soffri senza lamentarti, quando non cerchi consolazioni umane, quando non intervieni, ma attendi che il seme germogli.
Il silenzio è umiltà: quando taci per lasciare emergere i fratelli quando celi nel riserbo i doni di Dio, quando lasci che il tuo agire sia male interpretato, quando lasci ad altri la gloria dell'impresa
Il silenzio è carità: quando fai parlare l’altro, quando umilmente ascolti le sue lamentele, quando offri a Dio le sofferenze del fratello, condividendone il peso.
Il silenzio è fede: quando taci perché è Lui che agisce, quando rinunci alle voce del mondo per stare alla sua presenza, quando non cerchi comprensione perché ti basta essere conosciuto da lui.
Il silenzio è saggezza: quando ricorderai che dovremo rendere conto di ogni parola inutile, quando ricorderai che il diavolo è sempre in attesa di una tua parola imprudente per nuocerti e uccidere.
Infine il silenzio è adorazione: quando abbracci la croce, senza chiedere il perché, nell'intima certezza che questa è l'unica via giusta.

La nostra trasfigurazione.
Il vangelo della trasfigurazione è un vero itinerario quaresimale: una strada di vita cristiana per tutti noi.
Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni li condusse in disparte. su un alto monte... Gesù invita noi suoi discepoli a momenti di distacco dalle cose e dagli impegni consueti, invita a cercare il silenzio, la riflessione, la preghiera. Effettivamente abbiamo bisogno di trovare pace e interiorità nelle nostre giornate piene di impegni, di preoccupazioni più o meno valide, di stanchezza, di stress. In un'altra occasione Gesù dirà: Venite, riposatevi un po'. Gesù sale sulla montagna. La montagna è sempre un luogo di particolare rapporto con Dio. Dio sceglie i monti per le sue rivelazioni, i suoi doni di amore: ricordiamo il Sinai, l'Oreb, il Tabor, il monte delle beatitudini, il calvario, il monte dell'ascensione.
E' importante anche cercare il luogo adatto alla preghiera, il luogo dove si può accogliere nella maniera più viva la presenza di Dio.
Nelle nostre giornate e nei nostri propositi quaresimali, riusciamo a programmare momenti di preghiera (“il nostro stare con Gesù in disparte”) e qualche esperienza forte in uno dei tanti luoghi dove siamo aiutati per un incontro vero con il Signore?
Gesù fu trasfigurato davanti a loro, il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la neve. Gesù si fa vedere in tutta la gloria di Figlio di Dio e i suoi possono contemplarlo, possono percepire qualcosa della sua grandezza e bellezza infinita. E' un'esperienza talmente grande che Pietro esclama: E' bello per noi stare qui.
Anche noi siamo spinti a coltivare l'esperienza della contemplazione del volto di Dio, dell'amore di Dio, della sua grandezza e della sua vicinanza. Ci viene in mete tutto quello che il S. Padre nella lettera per il millennio ci ha scritto per la contemplazione del “Suo” volto. “Lo sguardo resta più che mai fisso sul volto del Signore”. “Solo l'esperienza del silenzio e della preghiera offre l'orizzonte adeguato in cui può maturare e svilupparsi la conoscenza più vera e coerente di quel mistero che è il Figlio di Dio, venuto ad abitare in mezzo a noi”. “Nel volto di Cristo la Chiesa contempla il suo tesoro, la sua gioia”.(TMI)
Chiediamoci: È bello per noi stare con il Signore? Nei momenti di preghiera, nella Messa, nelle liturgie, nel silenzio della nostra camera?
A Cristo Figlio di Dio, Messia Salvatore, danno testimonianza Mosè ed Elia, cioè tutta la storia sacra dell'Antico Testamento. Cristo è il Messia atteso nei secoli; Cristo diventa il centro del cosmo e della storia, l'unico Salvatore del mondo, il Salvatore dell'universo.
Una nube luminosa li avvolse e si udì la voce: Questo è il mio Figlio prediletto, nel quale mi suo compiaciuto. Ascoltatelo! La nube ci ricorda la presenza protettrice di Dio nel cammino del popolo ebraico ed esprime ora quella stessa presenza. La voce è la voce del Padre. Aveva parlato in molti modi attraverso Mosè e i profeti; aveva dato sul monte le tavole della legge (i dieci comandamenti); ora parla attraverso Gesù, il Figlio, che ci darà la nuova legge, le beatitudini e il comandamento nuovo dell'amore. Per questo Cristo va ascoltato.
Com'è la nostra fede in Gesù Salvatore? Come lo ascoltiamo? Conosciamo la sua parola, i suoi insegnamenti, li seguiamo?
Verranno anche per noi momenti difficili, in cui proveremo crisi e tentazioni. Ma il Signore Gesù è Lui, sempre. È con noi, sempre. Trasforma ogni sofferenza e ogni morte in risurrezione, in vita. Dice uno scrittore: È importante non dimenticare nei momenti delle tenebre, ciò che abbiamo visto nei momenti della luce. Anche a noi il Signore dà tanti momenti di luce, come sul Tabor; quando vengono i giorni difficili, dobbiamo ricordare la bontà del Signore, credere alla sua fedeltà, unirci alla sua sofferenza, per essere uniti poi con Lui per sempre nella pienezza della vita.

giovedì 7 febbraio 2008

10 Febbraio 2008 - I DOMENICA DI QUARESIMA



Essenzialità
Lasciate le barche per seguire Gesù nel territorio di Zabulon e Neftali, ai confini della storia, accolta la sconcertante notizia di un Dio che è povero e misericordioso, siamo chiamati a diventare sale che dona sapore all'insipido mondo, luce che indica la strada ai cercatori di beatitudine.
Ma, lo sappiamo, la strada è in salita e il vento pungente della disperazione rischia di spegnere la flebile fiamma della fede.
Abbiamo bisogno di convertirci alla gioia, abbiamo bisogno di tenere stretto in mano lo spago che si dipana nel delirio quotidiano per condurci alla pace interiore.
Inizia la Quaresima, fratelli, inizia il deserto.
Quaranta giorni alla sequela di Gesù che inizia la sua vita pubblica nell'assordante silenzio del deserto, là dove l'essenziale emerge. A imitazione del popolo di Israele che vaga quarant'anni nel deserto del Sinai prima di entrare nella terra promessa, Gesù prende estremamente sul serio la sua missione, e cerca nel silenzio e nel digiuno il percorso da seguire. Gesù, vero uomo e vero Dio, ha di fronte a sé delle scelte da compiere: come eserciterà il suo ministero? Userà prodigi e miracoli? Scuoterà il cielo e farà piovere il fuoco dal cielo? Cavalcherà la connaturale idea di Dio che portiamo nel cuore per stupirci e intimorirci?
Il colloquio fatto con l'avversario è pieno di umano buon senso: bisogna sostenersi fisicamente per affrontare il faticoso compito dell'annuncio, bisogna usare qualche prodigio per attirare l'attenzione, occorre tenersi buoni i potenti della terra per avere appoggio nella missione.
Proposte sensate che Gesù rifiuta, usando la Parola (che conosce bene) per discernere cosa deve fare.
Gesù sceglie quale Messia essere: un Messia dimesso e misericordioso, non ricorrerà ai prodigi, né alla forza; Dio vuole essere amato per ciò che è, non per ciò che dà.
Gesù sceglie ispirandosi alla Parola, riesce a dribblare le trappole dell'avversario tenendo nel cuore la Scrittura, decide alla luce di Dio Padre come compiere la sua missione.
E noi fratelli, sorelle, abbiamo deciso quale uomo, quale donna diventare?
Il nostro carattere, la nostra educazione, le esperienze della vita hanno profondamente influenzato il nostro percorso, determinato ciò che siamo; ma c'è nel nostro cuore un immenso spazio di libertà che possiamo gestire, orientare, portare a maturazione: è ciò che ci rende simili a Dio.
Ci sono dati quaranta giorni di deserto nella città, quaranta giorni per tornare all'essenziale, per chiederci, una volta all'anno, se ciò che siamo è ciò che abbiamo scelto e, se non abbiamo potuto scegliere, se la vita che viviamo la viviamo nella tenerezza di Dio.
Quaresima è il tempo della concentrazione e della verifica, per essere capaci di accogliere la straordinaria gioia della resurrezione di Gesù. La gioia è l'obiettivo ultimo della Quaresima, tempo in cui aprire il cuore alla conversione.
Per molti di noi occorrerà mortificarsi: togliere dai piedi ciò che c'impedisce di essere liberi, ciò che ci distrae e ci fa vivere nella dimenticanza.
Per molti di più occorrerà vivificarsi, lasciare la tristezza, abbandonarla, non amarla, per convertirsi, infine, alla gioia.
La quaresima, in ogni caso, diventa il tempo in cui rimettiamo un centro nella nostra vita.
Quaresima, palestra che ci diamo una volta all'anno, esercizio per ritrovare l'unità, tempo di deserto, sull’esempio di Gesù che seguiamo e che - come noi - ha voluto fare l'esperienza di deserto per scegliere come vivere, per far ordine intorno alle sue scelte.
Mercoledì abbiamo iniziato il cammino con un gesto simpaticamente tragico: l'imposizione delle ceneri con il monito: “Ricordati che sei polvere…”
Ce lo ricordassimo quando ci scanniamo per questioni di eredità o scaliamo la scala sociale! Se lo ricordassero i super-iper-tutto dell'umanità che qualche anno dopo la loro serena dipartita saranno polvere! Ce lo ricordassimo quando – senza patemi o tristezze – indaghiamo sul senso della storia e della vita!
Il delirio di onnipotenza che - talora - prende la nostra umanità verrebbe guarito da questa semplice considerazione: siamo polvere.
Ma polvere che Dio illumina e trasfigura, accende e rende capolavoro e meraviglia...
Quali le strade della desertificazione? Ne indichiamo tre soltanto: il digiuno, sia simbolico, ad esempio spegnere la tivù, dedicare più tempo a sé e alla famiglia, allentare le tensioni, che reale, alleggerendo la cucina per solidarietà con i poveri e per liberare cuore e corpo dalle tossine; la preghiera, intesa soprattutto come esercizio quotidiano (un quarto d'ora, come minimo) di silenzio, di meditazione, di lettura della Parola col desiderio autentico di comunicare con Dio; l'elemosina, come rinuncia ai beni superflui per sostenere chi vive nella miseria. Tre itinerari che, se percorsi con cuore sincero, ci possono condurre alla vicinanza con Dio.

Quaresima, tempo per fare “giustizia”.
Gesù nel grande discorso della montagna, ci indica qual è la “nuova giustizia del Regno”, la nuova sedaqah ossia il vero modo di vivere il nostro rapporto con Dio e con i fratelli.
Il termine ebraico sedaqah non indica tanto l’obbedienza ad una norma, quanto la condizione ottimale che ciascuno deve avere nei suoi rapporti interpersonali e con Dio. Significa rispondere adeguatamente e in giusta misura all’amore di Dio. Il giusto, quindi, che osserva la torah, realizza la sua fedeltà a Dio e al popolo: in altre parole fa giustizia, pareggia i conti, fa sedaqah.
Il Nuovo Testamento ha ripreso questo concetto veterotestamentario di giustizia, conferendogli una nuova valenza: dikaiusìne, una giustizia-comportamento che è grazia di Dio, che è un dono, e che quindi non può essere considerato né un vanto né una conquista umana, perché come dice Paolo, in Rom 3,26 è Dio che è “giusto e giustificante” (dìkaion kai dikaiùnta”); è Lui che con la sua grazia, con il suo amore, con il suo sostegno, rende “giusto” l’uomo, gli consente di “pareggiare” il conto con una adeguata risposta nei confronti di Dio e del prossimo.
Ecco perché la sedaqah-dikaiusìne che deve animare le tre pratiche fondamentali del cammino cristiano - la preghiera, l'elemosina e il digiuno – non può essere considerata un merito personale di cui vantarsi, di cui andare fieri (come ci mette in guardia il vangelo).
Gesù infatti, proprio qui, ricorda lo spirito che ci deve guidare nel nostro percorso di perfezione, quale la molla interiore che deve animare le nostre opere, se vogliamo che la nostra sedaqah-dikaiusìne, il nostro rendere giustizia a Dio, sia l’espressione di un sincero e autentico rapporto di amore con Lui.
Gesù parla a ragion veduta: è fin troppo evidente che anche oggi il comportamento di molti - quando pregano, fanno carità e digiunano - è ben lontano dallo spirito della autentica sedaqah: lo fanno semplicemente “per essere ammirati”, “lodati”, “visti”, “per apparire”.
E Gesù conclude: “hanno già avuto la loro ricompensa, non avranno altro”.
Allora riflettiamo un momento, fratelli: esaminiamoci nell’intimo del cuore, per stabilire se qualche volta anche noi nel fare le nostre pratiche religiose, non cadiamo nella tentazione di cercare la nostra gratificazione. Perché in questo caso, di fronte a Dio le nostre opere di conversione non servono a nulla, sono sterili.
Domandiamoci umilmente e in tutta sincerità “a quale frutto miriamo”, a quale ricompensa aspiriamo, quale gratificazione cerchiamo nel nostro vivere da cristiani.
E dunque, seguendo l’insegnamento che Gesù qui ci ha lasciato, evitiamo che il bene che facciamo, diventi uno strumento di soddisfazione personale, un mezzo di autoaffermazione, una strada per arrivare alla nostra auto-celebrazione.
In questo modo però la nostra ricompensa sta già nel sentirci bravi, buoni, a posto, giusti.
Invece, fratelli, la nostra vita deve mirare soltanto a Dio, perché è Lui la vera ricompensa, perché è per lui, per Lui solo, che noi dobbiamo fare sedaqah, essere operatori di “giustizia”.
E senza pretendere nulla in cambio: non siamo nella condizione di poterlo fare… perché è lui il dìkaion, il giusto, che per primo fa il dikaiùnta, il “giustificante”, nei nostri confronti.
Allora accettiamo riconoscenti quello che Lui vorrà darci, affidiamo semplicemente a lui il frutto del nostro impegno.
Non sappiamo come questo frutto si concretizzerà, ma sappiamo con certezza che esso ci sarà; sarà un frutto di salvezza, di amore, che il Padre continuerà ad effonderci a piene mani e che, se ci pensiamo bene, altro non è che la stessa essenza divina dell’Amore, il suo stesso Spirito vivificante e consolatore, che Egli ha inviato ad inabitare nei nostri cuori.
Solo così ci sentiremo completamente soddisfatti, forti, convinti, umili, sinceri, innamorati di Dio: solo così saremo beati, i “makarioi” delle beatitudini, perché sentiremo dentro di noi la tranquilla, dolcissima sicurezza di aver fatto sedaqah, di aver risposto con dikaiusine all’infinito amore di Dio nei nostri confronti.

giovedì 31 gennaio 2008

3 Febbraio 2008 - IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Dio è garante della mia gioia
Se da un lato questa pagina del vangelo è una delle più conosciute dalla gente (anche perché è rivolta proprio a tutti, “Gesù vendendo le folle”) è anche una delle pagine più ostiche, più difficili, una pagina che stravolge completamente quella che è la nostra comune concezione della vita:

Tutti infatti, credenti o meno, siamo dei mendicanti di gioia; ogni giorno ci accorgiamo e tocchiamo con mano di non essere veramente felici, non abbiamo ragioni sufficienti per essere davvero realizzati, totalmente appagati.
Sì, certo, viviamo momenti intensi, belli, memorabili, gioie semplici e vere che solcano – grazie a Dio! – il cuore e la vita.
Ma non sono sufficienti a realizzare tutto il desiderio di assoluto che portiamo impresso nel nostro cuore. Il nostro cuore è sempre “inquietum”
Il nostro mondo, la società in cui viviamo, poveri ingenui!, ci fanno credere che ottenere la felicità è cosa da poco: basta possedere, apparire, dominare, esagerare sempre.
Ma purtroppo chi davvero crede a questa menzogna, si ritrova inevitabilmente con un pugno di mosche in mano, inebriato, intimamente svuotato, fuori di sé.
Allora… è possibile arrivare alla pienezza della felicità? vivere la totalità dell'amore?

Matteo, nel suo discorso della montagna, ce ne traccia la via: come un nuovo Mosè, Gesù consegna alle genti la sua nuova legge, non più scolpita sulle tavole di pietra, ma incisa nel cuore dei discepoli.
Egli come al solito ci sconcerta: la beatitudine, la felicità, la gioia, corrispondono esattamente al contrario di ciò che noi consideriamo fonte di benessere: ricchezza, forza, calcolo, scaltrezza, arroganza.
Ma cosa sta esattamente dicendo Gesù? Esalta forse una visione di cattolicesimo rassegnato e perdente che troppe volte vediamo intorno a noi? Mi dice forse che, se le cose vanno male, se va tutto a rotoli, se sono povero (il testo greco è ancora più forte: “ptokòi” = pitocchi, accattoni, pezzenti), se subisco violenza, se provo dolore e piango, sono immensamente fortunato?
Allora ha ragione l'immenso Nietzsche, quando dice che i cristiani, non riuscendo a vincere, a emergere, a trionfare, dicono: "Allora beati gli sconfitti?

Non diciamo sciocchezze; lo sappiamo benissimo che non può essere così!
Dio non ama il dolore e Gesù stesso, per quanto gli è stato possibile, ha evitato la sofferenza.
E allora?
Gesù parla del Padre: ce ne descrive il vero volto, ci racconta l'inaudito di Dio, così come egli lo ha vissuto e lo vive.
Il Padre, il vero Dio, è un Dio povero, un Dio misericordioso, un Dio mite, un Dio che ama la pace, un Dio che, per amore, è pronto a soffrire. Un Dio così diverso da come ce lo immaginiamo; un Dio così straordinario e armonioso: solo Gesù ce lo può veramente svelare, perché lui e il Padre sono una cosa sola.

Dio non dona a ciascuno il suo, ma a ciascuno secondo quanto ha bisogno, privilegiando chi ha meno: un cuore povero, un cuore affranto riceve molta più attenzione e tenerezza di un cuore sazio che non ha bisogno di nulla.
La beatitudine non consiste dunque nel dolore, nella miseria, ma nel fatto che l'intervento di Dio colma il cuore di chi è affranto.
In altre parole Gesù ci dice: se, malgrado la sofferenza, la persecuzione, il pianto tu sei sereno, beato, significa che hai riposto in Dio la tua fiducia; è lui il tuo unico sostegno; stai felice: hai trovato Dio, la felicità che non ti è tolta, la risposta grande alla vita.
Le gioie che viviamo, sono un suo dono, e vanno vissute come tali, perché Dio ci chiederà conto anche di tutte le gioie che non avremo vissuto.
Ma immaginate quanta più gioia avremo nel nostro cuore se, nel dolore, resteremo aggrappati a lui, l'unico bene che non ci può essere tolto?
Conoscere Dio, sapere che in lui soltanto riposa il nostro cuore, sconvolge l'ordine delle cose.

Il mondo è aggressivo e ci vuole grinta per sfondare? Dobbiamo dimostrare in continuazione e a tutti che valiamo? Al lavoro siamo misurati e pesati continuamente? A casa spesso ci sentiamo incompresi? Bene. Non c'è scampo: o ha ragione il mondo, o ha ragione Dio.

Se noi restiamo miti, costruiamo la pace, viviamo nella giustizia, noi stiamo dalla parte di Dio.
Le Beatitudini sono promessa di un mondo nuovo, diverso, di una logica che siamo chiamati a scrivere nella piccola vita delle nostre piccole comunità radunate intorno al pane di Dio.
E' difficile vivere il Vangelo, lo sappiamo bene; è difficile vivere nel quotidiano, il sogno di Dio che è la Chiesa.
Ma la fatica che faccio nel restare tassellato al Vangelo, lo sforzo eroico che compio nella conversione alla logica del Regno, anticipa e realizza le Beatitudini.
Nella nuova prospettiva chi è mite conta qualcosa; chi è povero di cuore, cioè umile, vale più di chi ostenta arrogante ricchezza; la mia presenza, la mia preghiera, sono conforto al cercatore di giustizia.
Le beatitudini affermano che la storia umana finirà come abbiamo sempre sognato: trionfa il bene, l’umiliato e sconfitto risorge, l'arroganza dei potenti è convertita, umiliata.

Il discorso della Montagna ci immette, dunque, in quel clima di particolare totale immersione della logica dell'amore, del servizio, del perdono, pace, sofferenza, bontà e tenerezza. Un discorso che ben illumina la realtà umana in una prospettiva di salvezza oltre il tempo, nell'eternità, ma che si costruisce oggi, in quanto i Beati, ora e qui, sono tutti coloro che operano nella prospettiva indicata da Cristo.
Ecco allora che le categorie etiche sulle quali dobbiamo strutturare il nostro impegno nel mondo sono quelle che si rifanno in termini lineari alle Beatitudini evangeliche.
Certo, in un mondo come il nostro queste categorie sono paradossi, per molti impossibili da assimilare, concettualizzare e praticare.
Ma senza questa prospettiva diventa impossibile parlare di Vangelo e vivere il Vangelo anche oggi.
Poveri, afflitti, miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati nella prospettiva del Vangelo sono soggetti difficili da incontrare nella nostra vita ordinaria. Tuttavia ci sono e sono proprio loro la speranza nel pensare e volere un mondo migliore. Un mondo possibile da costruire se si fanno queste scelte di campo coraggiose. E sono scelte di beatitudine vera, che vanno al di là di ogni presunto potere che ci propina la cultura del pensiero debole o dello strapotere della tecnica e dell'economia, della politica e del progresso senza limiti.
Tutto questo nostro impegno nel costruire ogni giorno la beatitudine in questo secolo e in vista dell'eternità è motivo di profonda gioia, in quanto abbiamo la certezza di una ricompensa che supera abbondantemente le nostre attese: "Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli". E' questa la consolazione più grande per un cristiano, anche se egli dovrà molto patire e soffrire in questo mondo.

Dobbiamo quindi ritornare alle verità fondamentali.
Nel corso della vita, l'uomo deve trovare un centro interiore che orienti e dia senso alla sua esistenza.
Deve scoprire quel nucleo di verità fondamentali che lo sostengono e gli permettono di rimanere nel bene morale, mentre molte speranze superficiali continuano a sparire. Questo vale non solo per le persone più mature, alle quali il tempo ha già recato qualche delusione, ma anche per molti giovani, "appassiti nella primavera stessa della vita", che hanno perso l'incanto della vita.
Tutti dobbiamo aspirare a queste "verità fondamentali" che diano speranza al nostro camminare. Significa riscoprire la ragione della propria esistenza, l'amore di Dio, e il senso della propria dignità come persona e Figlio di Dio, per scoprire che abbiamo una missione nella vita e che il nostro passaggio su questa terra è momentaneo e provvisorio. Le beatitudini ci invitano appunto a rivedere la nostra gerarchia di valori. Ci aiutano a comprendere, alla luce dell'eternità, la relatività di tutto ciò che è creato, dei beni materiali, l'incongruenza della ricerca esclusiva del piacere e del benessere, e la relatività delle sofferenze di questa vita.
"Cercare ancora il Signore": è questo che ci propone il profeta Sofonia. Cercarlo tra le pieghe della nostra vita, cercarlo nelle sofferenze, nelle pene; cercarlo nelle proprie imprese, nella nostra famiglia; cercarlo nella vita di società e nella storia del mondo. Cercare il Signore significherà, certamente, pregare e parlare con Dio, ma non solo quello. Cercare il Signore significherà conformare la nostra condotta di vita coi suoi comandamenti, con le sue leggi, perché Egli è il Signore! Cercate il Signore e il vostro cuore rivivrà!

giovedì 24 gennaio 2008

27 Gennaio 2008 - III DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Il Dio dei confini
Dopo una lunga preparazione, durata più di trent'anni, Gesù incomincia la sua missione pubblica.
E inizia con piglio, con sfida. Quando incarcerano Giovanni Battista, Lui riprende le stesse parole che Erode aveva fatto tacere: “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino”.
Queste prime mosse svelano lo stile di un uomo, il senso di una missione. La scelta del luogo, le parole e i gesti di guarigione che compie, la chiamata dei primi discepoli mostrano un Gesù ben consapevole di quel che vuole, già con un progetto preciso in testa: “predicava la buona novella del Regno”.
Gesù lascia Nazaret per stabilirsi a Cafarnao. Cafarnao è la piazza più battuta di tutta la regione. Si trova sulla famosa “Via maris”, strada internazionale principale che collegava Damasco - capolinea di tutte le piste del deserto e della Mesopotamia - con Cesarea Marittima, porto d'attracco di tutti i commerci del Mediterraneo e transito obbligato per giungere in Egitto. Qui c'è una dogana, perché confine di Stato dove tutti si fermano, e una guarnigione militare romana. E' il centro commerciale del mondo pagano, dove regnano chiasso, confusione, disordine. È nel territorio di Zabulon e di Neftali, nella “galilea”, ossia nella regione dei pagani.
Viene subito indicato il perché di tale scelta: “Il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata”. Finalmente su tutti gli uomini - anche sui pagani - spunta la luce della salvezza promessa da Dio. Poiché l'antico Israele non ha saputo riconoscerla - “Venne tra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto” (Gv 1,11) - la Buona Novella sarà rivolta ad un popolo che la sappia accogliere. Già i Magi ne erano stati il simbolo. “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9). Ognuno ora è chiamato: “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tim 2,4). La fede è un dono gratuito, dato a tutti, sufficiente ed efficace per la salvezza.
É offerta di vita, quella del Regno. È riscatto da una schiavitù, quella del male, della morte e del peccato: “Poiché tu, come al tempo di Madian, hai spezzato il giogo che l'opprimeva, la sbarra che gravava le sue spalle e il bastone del suo aguzzino”. Gesù pone i primi segni di tale liberazione proprio nei miracoli di guarigioni: “Percorreva tutta la Galilea curando ogni sorta di malattie e infermità nel popolo”. “Passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo” (At 10,38).”Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia”. Il Regno è la signoria di Dio sul male e sulla morte, è la signoria del Dio della vita, di questo Dio amante dell'uomo, “la cui gloria è l'uomo vivente” (sant'Ireneo), la cui passione cioè è la pienezza di vita per l'uomo.
Ma a questa proposta di Dio l'uomo è chiamato a rispondere, deve aderire al Regno.
“Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: CONVERTITEVI”. É la prima parola: metanoèite!
Si tratta cioè di cambiare testa, cambiare direzione, cambiare riferimento, aprirsi alla novità, aprirsi alla salvezza, aderire al progetto di umanità che Dio ci propone, perché il vostro progetto - ci dice Gesù - è fallito! Voi uomini avete come sfigurato l'immagine di Dio che è in voi, annebbiata l'identità dell'uomo così come era uscita dalla mano del Creatore. C'è bisogno di restauro, di una riformulazione più precisa di ciò che è veramente e profondamente umano, e di una ricostruzione. Gesù ebbe a dire un giorno: “Da principio non era così ..!” (Mt 19,8). Qualcosa s'è rotto. Va riaggiustato. L'inizio del Regno è inizio d'umanità autentica, è inizio dell'unico vero umanesimo per la riuscita d'ogni uomo.
Seconda parola: “SEGUITEMI”. Il Regno è una convocazione diretta, una chiamata da parte di Dio: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). E' Dio in persona che ti invita e richiede la tua adesione. Non per qualcosa di alternativo a te, ma per te e con te per una tua storia diversa. Ciascuno certo ha qualcosa da lasciare, cui rinunciare (affetti sbagliati, situazioni negative ..), ma per una libertà maggiore aperta ad un'opera più grande.
Ecco la terza parola: “VI FARO' PESCATORI DI UOMINI”. E' una missione che dilata la vita, che fa compiere un salto di qualità, aprendo nuove prospettive: essere costruttori di una umanità nuova, operai diretti di quella storia unica, grande, definitiva che è il Regno di Dio, l'inizio di quei “cieli nuovi e terra nuova” nei quali si consuma tutto il cammino dell'umanità e del cosmo. Chiamati quindi a dare finalità e motivazione diversa al proprio operare quotidiano. Ciascuno certo per un suo ruolo specifico e diverso entro il popolo di Dio, ma tutti per una impresa comune che esalta e riscatta la propria attività quotidiana sempre bruciata dalla insoddisfazione e dall'inefficacia. Questo è l'essere cristiano: l'umano con l'innesto del divino, il tempo nell'eterno, .. o anche: la professione elevata a missione. Quei primi quattro discepoli, da modesti e anonimi pescatori del mare di Galilea sono diventati le colonne di un edificio che si protende nell'eternità.

Da discepoli incontro al mondo
Gesù dunque inizia la sua predicazione, dai confini della storia, da un angolo di terra emarginato e guardato con diffidenza.
Dio è sempre così, preferisce gli indisciplinati ai bravi ragazzi, invita i primi della classe ad uscire e a darsi da fare, obbliga chi lo segue ad andare verso le inquiete frontiere della storia, piuttosto che serrare i recinti delle false certezze della fede. Dio è così, ama il rischio, vuole sporcarsi le mani, parte ad annunciare il Regno là dove nessuno lo aspetta, né lo desidera.
Si, fratelli: è così che possono e devono diventare le nostre comunità cristiane, capaci di uscire dalle chiese per ridare Dio al popolo, per condividere con esso il cammino.
Gesù sceglie di abitare e di condividere tutto con questi abitanti del “confine”; porta loro la luce, dona testimonianza. La nostra fede deve uscire dalle nostre chiese; Dio è stanco di essere venerato nei tabernacoli (quando lo è!) e di non riuscire ad entrare nelle nostre quotidianità; è stufo di essere tirato in ballo nei momenti “sacri” ed essere estromesso dai luoghi usuali della nostra vita, dai luoghi del lavoro, dell'economia, della politica, del divertimento. Il movimento della comunità è l'incontro nella lode, per diventare capaci di dire Cristo nel quotidiano, nel vissuto, nel vero di ciascuno.
E l'annuncio è bruciante: “convertitevi perché il Regno si è fatto vicino”. Sì, così scrive Matteo: è il Regno ad essersi avvicinato, è lui, Dio, che prende l'iniziativa; a noi di accorgerci, di girare lo sguardo (convertirsi, appunto) immedesimandoci in Lui. Dio non esordisce con qualche reprimenda morale, con qualche sensato discorso teso a suscitare pentimento e cambiamento di condotta. Lui, lui per primo si offre, si dona, rischia. Dice: “io ti sono vicino, non te ne accorgi?”. Accorgersi significa davvero mollare tutto, lasciar andare i molti affari, le molte cose, per recuperare l'essenziale, come Pietro, come Andrea, che diventano – finalmente – pescatori di uomini. Il Regno è la consapevolezza della presenza entusiasmante e sorridente di Dio. Il Regno è là dove Dio regna, dove lui è al centro. E la Chiesa, comunità di chiamati e di discepoli appartiene al regno anche se non lo esaurisce.
A Zabulon e Neftali siamo chiamati a dire: “Dio ti è vicino”. Non perché c'è un qualche merito, ma solo per il cuore largo di Dio che viene.
Calma, fratelli, calma discepoli che prestate un difficile servizio ecclesiale con i ragazzi o con le coppie, tranquilli voi che vi giocate nel sociale, là dove l'uomo è meno uomo e dove il dolore domina: il Regno, Lui, si avvicina. Non dobbiamo salvare il mondo, fratelli: il mondo è già salvo! È che non lo sa. E vive nella disperazione. A noi di renderlo presente, questo Regno, a noi di vivere da salvati, a noi di diventare divulgatori del Regno, farne pubblicità, vivere nella luce, in mezzo alle tenebre che avvolgono Neftali e Zabulon.
Per annunciare che il Regno è vicino, Dio ha bisogno di noi, proprio là dove siamo. Chiamati a fare esperienza di fraternità (la parola “fratello” viene ripetuta quattro volte in tre versetti!), possiamo lasciare le reti che ci trattengono (paure, affari, logica mondana) per diventare pescatori di uomini e di umanità. Siamo chiamati a tirar fuori da noi stessi e dagli altri tutta l'umanità che Dio ha seminato nei nostri cuori.
I cristiani non sono a parte, hanno lasciato uscire dal loro cuore l'aspetto più autentico dell'uomo. E ogni uomo è chiamato a fare questa esperienza di comunione e di autentica umanità.
Capiamo allora l'energica protesta di Paolo (e poi ci lamentiamo del brutto carattere di certi cristiani!), che ammonisce le sue comunità a non smembrarsi in maniacali seguaci di questo o quello cammino di spiritualità... Ogni esperienza (movimento, parrocchia, cammino di perfezione) è solo uno strumento e non “esaurisce” il Regno, il Regno è oltre, cominciamo a farne parte convinta come comunità, che va già bene...
Lasciamo le reti che ci trattengono, i pregiudizi e le paure che ci tengono legati, le incomprensioni e le fisime personali che ci impediscono di essere e raccontare il Regno: e coraggio, perché sono ben altre e migliori le cose ci aspettano da fare!

mercoledì 16 gennaio 2008

20 Gennaio 2008 - II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO.


Dio ci viene incontro
Gesù è nato in noi, piccolo neonato da far crescere ed accudire; come Maria e Giuseppe lo abbiamo accolto; come i pastori, emarginati del tempo, abbiamo udito la notizia che egli è nato per noi; come i Magi, atei cercatori di verità, ci siamo messi in cammino.
Ora, finita la breve e intensa parentesi di Natale, vogliamo far crescere quel Battesimo che abbiamo ricevuto e che ci ha permesso di essere abitati dal Mistero di Dio.
Prima di riprendere la riflessione del pubblicano Levi, ci concediamo una parentesi teologica tratta da Giovanni. È l'occasione per meditare sulla splendida figura del Battista, che ora si mette da parte, non prima di avere dato un'ultima bruciante testimonianza su Gesù il Messia, che egli ha atteso e riconosciuto.

Giovanni Battista vede Gesù "venire verso di lui" (1,29): è Dio che prende l'iniziativa, è lui che viene incontro, è lui che muove i primi passi, sempre.
Eppure il Battista stenta a riconoscerlo. Sono parenti, lui e Gesù, e quindi Giovanni lo conosce, ma lo vede con occhi diversi, con i suoi occhi consueti, abituali; il segno del Battesimo lo spinge invece a capire, lo obbliga a riconoscere il Figlio bene-amato, nel quale il Padre si compiace; anzi: questo riconoscimento permane, come abbiamo visto nella terza di Avvento, quando il Battista in carcere è invitato a non scoraggiarsi, a non aspettare un altro Messia.
Il problema del Battista è il nostro: guardare senza vedere, sapere già, essere abituati. Giovanni deve aguzzare lo sguardo interiore per riconoscere nella banalità del quotidiano la presenza del Messia.
É questa la radice del problema, di ogni problema: la dimenticanza, l'abitudine, la compagnia di Cristo che diventa sbadiglio e vaga rassicurazione.
Non pensiamo allo scorso anno, a due anni fa, non pensiamo ad un momento passato: oggi Cristo ci viene incontro, con discrezione (come al solito), con semplicità e verità.
Abitudinari della fede, discepoli della prima ora, stiamo desti, per favore, siamo attenti.
Dio ci scampi dal rischio del professionismo nella fede.
Questo Dio che passa va riconosciuto ed accolto, ciò che ci viene chiesto è, semplicemente, di accoglierlo.

Chi è Gesù? Tre titoli gli vengono attribuiti; tre sintesi di un cammino semplice e strepitoso fatto da chi scrive, Giovanni l'evangelista, discepolo prima del Battista e poi del Nazareno, e dalla sua comunità.
- Gesù è l'agnello di Dio che porta il peso del peccato (1,29),
- colui su cui rimane lo Spirito e battezza in Spirito (1,33),
- il Figlio stesso di Dio (1,34).
Sono titoli teologici che possiamo scoprire nella nostra ricerca di Dio.
Gesù è l'agnello che porta il peccato, come quello usato nello Yom Kippur, giorno di purificazione del popolo che scarica le sue colpe sul capro immolato in sacrificio per tutti: immagine prefigurata in Isaia del mite agnello condotto al macello.
Rispetto alla tragedia dell'umanità, all'inquietante dilemma del male e della violenza, Dio si schiera, si esprime, si coinvolge: egli è colui che si lascia uccidere, che assume su di sé sofferenza e tenebra, che la redime, portandola.
Giovanni resterà turbato dal vedere il Messia mischiato tra la folla di penitenti.
Dio condivide e assume su di sé tutta l'oscurità e la fragilità del mondo, si sporca le mani, non guarda dall'alto, redime dal basso.
Il dolore del mondo è assunto, salvato, redento.
Non è vero che vogliamo capire la ragione del dolore, ciò che vogliamo è non soffrire oppure, ed è ciò che Dio fa accadere, redimere questo dolore, dargli un peso, dargli un'utilità.

Fratelli che soffrite, fratelli travolti dalle tenebre, le vostre tenebre sono portate, accolte, salvate.
Egli è colui che dona lo Spirito in abbondanza; lo Spirito: dono del Risorto, di Colui che permette al discepolo di accorgersi di Dio, che lo mette in sintonia.
Fede che non è sforzo ma scoperta, non conquista ma abbandono, lasciando che lo Spirito che dà vita ad ogni cosa ci apra – finalmente! – lo sguardo dentro.
L'incontro con Dio non migliora né peggiora la nostra vita, non ci mette al riparo da fatica e contraddizione: gli eventi tristi e allegri si alternano come nella vita di chiunque.
Ma la presenza dello Spirito mi permette di vedere in maniera diversa, di cogliere il disegno, di percepire la tessitura nascosta della mia vita.
Il Signore dona lo Spirito senza lesinare, permette, ai discepoli che restano attenti e aperti alla Parola, di leggere la propria e l'altrui storia con uno sguardo nuovo.
Gesù è il "figlio di Dio"; non un grande uomo, non un profeta, non un uomo di tenerezza e compassione, ma la presenza stessa di Dio.
Non c'è mediazione su questo, non sofismi e ragionamenti: la comunità primitiva crede che Gesù di Nazareth, potente in parole ed opere, non sia solo ispirato da Dio, ma parli con le parole stesse di Dio poiché in lui abita la presenza stessa del Verbo di Dio.
Allora dobbiamo convincerci, fratelli: Dio è accessibile, Dio è visibile, chiaro, manifesto, incontrabile, evidente; si racconta, si spiega, si dice, si rivela.

Questo è ciò in cui crede la comunità di Giovanni, questo è ciò in cui dobbiamo credere anche noi.
Così, come Isaia sogna la comunità di Israele non più chiusa in se stessa intenta a proteggersi, ma aperta all'annuncio del vero volto di Dio alle nazioni straniere; così come Paolo augura ai cristiani di Corinto, città delirante e violenta, di essere santi perché santificati da Cristo, anche noi siamo chiamati a dare testimonianza al Figlio di Dio.
Quindi, non più stanche comunità che stentano ad assolvere i compiti istituzionali, ma gruppi di cristiani riempiti dalla luce, testimoni credibili, come il Battista e il suo discepolo Giovanni.
Ce la faremo ad accoglierlo dunque? O continueremo ad accarezzare e celebrare un Dio più approssimativo, più simile alle nostre segrete e distorte immagini di lui?
“Chi mi ama, mi segua…”.
Animo, fratelli: perché un compito serio ci aspetta.