giovedì 3 aprile 2008

6 aprile 2008 - III DOMENICA DI PASQUA

Lo riconobbero allo spezzar del pane
Sono due, due suoi discepoli, due persone che hanno seguito Gesù nella sua vita pubblica, hanno vissuto l'esperienza dolorosissima del Maestro, morto in croce come un brigante. Il dolore così forte li ha sconvolti, ha fatto sì che non si ricordassero più della promessa della risurrezione, delusi decidono di riprendere il cammino di ritorno a casa, tutto è finito.
Pur in quel dolore incomprensibile, stanno insieme perché discepoli, ecco il primo aspetto che vorrei sottolineare: per loro si avvera la parola di Gesù: "Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sarò in mezzo a loro". Gesù si fa presente tra loro e spiega le Scritture, apre la loro mente alla verità. Se vogliamo capire la Parola è fondamentale stare insieme nel nome di Gesù, cioè, nell'amore reciproco, nel volersi bene, nel perdonarsi e chiedere perdono, nel ricominciare ogni volta che ci accorgiamo di esserne usciti. La presenza di Gesù vivo in mezzo ai discepoli è discreta, semplice, per questo se siamo presi ancora dai nostri ragionamenti, dal nostro dolore, essa ci sfugge, ma se abbiamo retta intenzione, appena ci fermiamo e guardiamo dentro possiamo accorgerci come i discepoli di Emmaus che il nostro cuore ardeva, era sazio, pieno, i segni della sua presenza erano già in noi. Però, soltanto quando riusciamo a unificare cuore e mente, tutto si illumina e la verità della risurrezione splende in noi.
Pur nel dolore, pur nel cammino della vita verso la notte, la presenza di Gesù risorto tra noi comincia a infondere fiducia, apertura, siamo capaci di invitare di entrare in casa nostra, di dare ospitalità a chi si è messo accanto a noi nel nostro difficile cammino. Se non lasciamo che il dolore, pur forte e profondo, ci domini, siamo capaci ancora di vedere le necessità dei fratelli e di fare la nostra parte.
Gesù entra con loro, in una casa di famiglia: a tavola, nello spezzare il pane, si rivela pienamente ai loro occhi.
La frazione del pane, la fractio panis – gesto umile, fraterno, di condivisione… era il nome che i primi cristiani davano all'Eucaristia; il greco descrive solennemente questi tre gesti: labòn tòn àrton [prese il pane] eulòghesen kài klasas [lo benedisse e lo spezzò] epedìdou autòis [lo diede loro].
Ecco, questo è il percorso che siamo invitati a vivere nella nostra vita di fede: anzitutto restare alla presenza di Gesù risorto, vivo in mezzo a noi. Non lasciarsi mai chiudere dal dolore, anche se immenso, straziante. Restiamo fermi nel volerci bene, nello scambiarci l'amore fraterno; solo allora pian piano o immediatamente capiamo le Scritture, capiamo la volontà di Dio per noi, per i fratelli. Cresce il desiderio di rimanere con Dio, di dirgli "resta con noi perché si fa sera", di farlo entrare a casa nostra, nella nostra famiglia.
Il Signore accetta l'invito, entra e si rivela pienamente ai suoi.
Accogliere la Parola per entrare in comunione con Dio si realizza pienamente nella comunione eucaristica. Gesù risorto si dona a noi nell'Eucaristia.
Quando la comunione eucaristica è il sigillo della tensione di ogni momento della nostra vita protesa alla condivisione fraterna, allora si realizza in noi ciò che hanno vissuto i discepoli di Emmaus: il dolore non è più un ostacolo per rimanere nella sequela di Gesù; allora devono riprendere con coraggio ed entusiasmo il cammino di ritorno, a quella vita di comunità che avevano abbandonato a Gerusalemme; allora corrono di notte, diventano annunciatori dell'incontro con Gesù vivo ai fratelli di fede, non hanno più timore né vergogna di testimoniare.
Possiamo chiedere come grazia specifica di questa domenica pasquale il coraggio e la gioia di annunciare anche ai nostri compagni di fede l'esperienza di un Dio vivo nella nostra vita, di Colui che abbiamo lasciato entrare e che ha trasformato il nostro dolore, dando un nuovo senso alla nostra vita. Dio è vivo!
Tanti cristiani vivono ancora come se questo non fosse vero; e stanno aspettando la nostra testimonianza di vita, il nostro annuncio.
È vero, anche tra i discepoli c'erano quelli che non credevano. Forse anche noi troveremo qualcuno un po' incredulo, ma non ci fermeremo, anzi, queste fatiche fortificheranno ancor più il nostro impegno di testimoni e annunciatori del Cristo risorto.
Parola chiave: Gesù Cristo è veramente vivo, l'abbiamo sperimentato nella nostra vita.
È questa la risposta chiarificatrice e rappacificante che ci viene dal vangelo di oggi: ogni cristiano infatti può fare esperienza del Signore risorto, nella luce della Scrittura e nella grazia dell'Eucaristia. Un'Eucaristia che non conclude, ma apre la strada della testimonianza e dell'impegno.

martedì 18 marzo 2008

23 Marzo 2008 - PASQUA DI RISURREZIONE DI NOSTRO SIGNORE


È vivo
È vivo, fratelli, è risorto, è il “per sempre presente”!
Lo abbiamo accompagnato tra gli ulivi del Getsemani, quando ci siamo assopiti, vinti dal sonno, senza sapere che, accanto a noi, si stava consumando lo scontro titanico fra le tenebre e l’Amore.
Lo abbiamo seguito da lontano, come Pietro, dopo l'arresto al Getsemani, storditi ed impauriti vedendo tanta violenza su un uomo buono e mite.
Lo abbiamo visto, appeso, sfigurato, sconvolto, stracciato, perdonare i suoi assassini fino all'ultimo soffio di vita.
Poi, assieme agli altri, ci siamo chiusi nella stanza alta, quella della cena. Come se le pareti avessero conservato qualcosa di lui. Per farci coraggio, senza neppure avere il diritto di piangere, divorati dalla paura.
Sembrava tutto finito nel peggiore dei modi, come accade spesso nella nostra vita.
Disfatta totale, partita persa, fine dei sogni.
Pensiamo: Abbiamo inseguito un sogno troppo bello per essere vero!.
E invece, sul fare del mattino, il giorno dopo lo shabbat di Pesah, Maria di Magdala è venuta a dirci di correre alla tomba.
Sì, Gesù è risorto, fratelli.
La resurrezione di Gesù, che Giovanni evita accuratamente di descrivere, è tutta una corsa.
L'inizio, ad essere onesti, è davvero sconfortante: Maria di Magdala si muove ancora nel buio (buio del cuore, come il buio in cui si viene a trovare Giuda quando esce dal Cenacolo – Gv 13,30) e sente vicina la presenza del crocifisso; quando arriva alla tomba vede la pietra ribaltata e – stranamente – non entra, non verifica. Corre dai discepoli e trae delle conclusioni affrettate: qualcuno ha rubato il corpo di Gesù.
Grande Maria! Vede dei segni ma non li sa interpretare. Di più: quando – più avanti – entrerà nel sepolcro, non resterà turbata e piena di fede come Giovanni e Pietro ma, imperterrita, continuerà a piangere, anche davanti al Risorto!
Com'è difficile uscire dal dolore!
Maria trae conclusioni affrettate, è tutta presa dalla sua percezione, non si ferma, non entra, non capisce, non approfondisce.
Piange e basta. E questo pianto le impedisce di riconoscere le fattezze del Maestro.
Ci sono lacrime e lacrime.
Quelle splendide, di conversione, di pentimento, di dolore, che lavano l'anima di Pietro, quando incrocia lo sguardo di Gesù nel cortile del Sinedrio (Lc 22,61); quelle purificatrici della prostituta che si mette a lavare i piedi di Gesù (Lc 7,38); le lacrime stesse di Gesù che si commuove alla vista del dolore per la morte di Lazzaro (Gv 11,35).
E vi sono anche lacrime inutili, come quelle già citate delle donne di Gerusalemme, e ora quelle di Maria, inconsolabili. Il limite del suo pianto, segno di un profondo dolore che merita tutto il nostro rispetto, è quello che le impedisce di accorgersi della verità.
La conversione al Risorto è difficile, difficilissima. Occorre allontanarsi dal proprio dolore.
Condividere la gioia cristiana significa superare il dolore che ci rende tristi. Non c'è che un modo per superare il dolore: non amarlo, non affezionarvisi. La gioia cristiana infatti è una tristezza superata.
Ma resistenze, dubbi, mancanza di fede pesano sul nostro cuore.
Un'esperienza dolorosa nell'infanzia, una serie di eventi che ci hanno deluso possono davvero impedirci di entrare nella gioia cristiana, che non è un'emozione, ma una scelta consapevole.
Pietro e Giovanni corrono al sepolcro. Una corsa affannosa, mentre Gerusalemme è ancora avvolta nel sonno, e il sole ha cominciato a scaldare le pietre color ocra con cui sono costruite le abitazioni e le mura che avvolgono la città.
Ma, sapete, l'età (Pietro è sicuramente più vecchio di Giovanni) e la teologia (Pietro, l'autorità, il ruolo, deve sempre star dietro a Giovanni, l'amore e la creatività) fanno sì che Giovanni giunga per primo al sepolcro e poi aspetti Pietro che arriva ansimando, senza fiato.
È questa l'esperienza delle Chiesa: correre al sepolcro e sapersi aspettare gli uni gli altri. Abbiamo ritmi diversi, siamo splendidamente diversi, fratelli. Ma siamo tutti Chiesa.

Il nostro Salvatore, che era morto, è risorto. Si è fatto uomo per morire. È morto per risorgere.
È risorto ed è vivo e glorioso per sempre. Ha vinto la morte ed è vittorioso per sempre.
Così ci ha amati del suo amore infinito fino a farsi come noi in tutto, fino a morire come tutti e per tutti: “non c'è amore più grande di chi dà la vita per la persona amata”.
Potevamo avere un Salvatore più grande? Una vocazione più alta? Una prospettiva più luminosa e santa?
Viviamo allora la Pasqua, fratelli.
Cos'è la Pasqua? Che cosa sa della Pasqua il mondo che ci circonda? La festa della primavera? La festa della natura che si risveglia, dell'uovo nel suo simbolo di vita? Un'altra occasione di schiavitù nella nostra società dei consumi? Una tradizione religiosa – certamente importante - ma di cui non si conosce il contenuto e di cui non interessano le conseguenze perché ci sembra più opportuno continuare a vivere solamente per i soldi, per gli affari, per i piaceri in una concezione materialistica della vita?
Occorre ridare alla Pasqua la sua autenticità, il suo respiro, la sua verità cristiana.
Pasqua è un termine che significa: passaggio, liberazione.
La Pasqua del popolo ebraico è stato il grande passaggio dalla schiavitù dell'Egitto alla libertà e alla gioia della terra promessa.
La Pasqua di Cristo è il passaggio dalla sua morte di croce alla sua resurrezione.
Gesù di Nazaret, condannato a morte, chiuso in un sepolcro, risorge, è vivo ed è vivo per sempre. Condannato per la novità che proclamava, suggella e conferma il suo messaggio con la risurrezione. Aveva affermato di essere il Figlio di Dio: la resurrezione ne è la prova più grande.
La pasqua del cristiano, inserito nel movimento di liberazione del Cristo, è il passaggio dal male al bene, la liberazione da ogni forma di schiavitù, di male, di limite e la realizzazione delle opere stesse di Dio in una vita rinnovata e diversa. “Se siete risorti con Cristo, scrive S. Paolo, cercate le cose di lassù, non quelle della terra, pensate alle cose di lassù”.
Il cristiano è chiamato ad essere il testimone della resurrezione, della resurrezione di Cristo e della resurrezione degli uomini.
Ci crede e porta questa fede agli altri. Crede a Cristo vivo per sempre, crede che tutti gli uomini, vivranno - al di là della morte - per sempre.
Il cristiano è chiamato a credere alla resurrezione già su questa terra, impegnandosi per la liberazione totale dell'uomo, per la costruzione di una vita completamente nuova, diversa, impostata su rapporti nuovi. “Questo è il mio comandamento: amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati”.
Il mondo è vecchio perché è nel peccato, perché vive secondo l'egoismo. La novità è l'amore. Dio è novità assoluta e perenne, Cristo è novità, la Chiesa è novità, il cristiano è novità. Perché tutto è amore.
Questa novità si esprime in un comportamento e uno stile di vita che è radicalmente rivoluzionario: la rivoluzione dei consigli evangelici, la rivoluzione delle beatitudini:
«beati i poveri, i miti, i puri, i costruttori di pace, i perseguitati...».
Il cristiano trova la forza di costruire la novità, cioè la pasqua di Cristo nella sua vita, attraverso i Sacramenti pasquali che Cristo ha offerto agli uomini: l'Eucarestia, il sacerdozio, il perdono nella confessione.
Siamo invitati a vivere i sacramenti pasquali, a vivere le beatitudini evangeliche, vivere la risurrezione, cioè a costruire la nostra esistenza in pienezza.
E Cristo Gesù, risorto e vivente per sempre, è il nostro salvatore, la nostra forza e il nostro sostegno ogni momento. In particolare Cristo è nostra forza e nostra salvezza nell'Eucarestia.
“Rimani con noi Signore”, “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”.
Cristo Risorto è vivo e presente con noi, in mezzo a noi nel sacramento dell'Eucarestia.

giovedì 6 marzo 2008

9 Marzo 2008 - V DOMENICA DI QUARESIMA

Io sono la risurrezione e la vita…
L’ultima opera del Messia è stata l’illuminazione del cieco: ci ha aperto gli occhi sulla realtà, mostrando la verità di Dio e dell’uomo. Ora ci dà la libertà davanti al nostro limite ultimo: la risurrezione di Lazzaro ci apre gli occhi sulla morte, ipoteca di tutta la vita. Guardare negli occhi la morte e scrutarne il mistero, è necessario per vivere. Altrimenti la nostra esistenza rimane una fuga, coatta e inutile, da ciò che sappiamo essere il sicuro punto d’arrivo.
L’uomo è l’unico animale cosciente di morire: sa di essere-per-la-morte. Per questo, di sua natura, è cultura. La cultura infatti è una «macchina di immortalità»; ogni nostro sapere e potere è finalizzato ad affrancarci dalla morte e avere più vita. E una macchina splendida e imponente. Ma anche assurda ed impotente: non potendo vincere, cerchiamo di rinviare e rimuovere, o, nel migliore dei casi, interpretare l’appuntamento ineluttabile. La morte comunque, finché viviamo, ci costringe al suo gioco e ci tiene sempre in scacco, che, presto o tardi, è matto. Salvarci da essa è il desiderio che detta ogni nostra mossa, ma sappiamo già in anticipo che sarà frustrato. Non siamo liberi di perseguire la nostra aspirazione: ci sentiamo incantati e dominati dal Fato, che vanifica ogni nostra opera. Restiamo in attesa che sia reciso il tenue filo che ci tiene sospesi nel vuoto, per ricadere nel nulla, noi e ogni nostra fatica. L’esistenza è una condanna. A pensarci bene, l’unica libertà che abbiamo è quella di chi deve essere giustiziato da un momento all’altro, con la tortura di non sapere quando.
Gesù ci salva non «dalla» morte. È impossibile: siamo mortali. Ci salva invece «nella» morte. Non ci toglie quel limite che ci è necessario per esistere, né la dignità di esserne coscienti; ci offre però di comprenderlo e viverlo in modo nuovo, divino. Ogni nostro limite, compreso l’ultimo, non è la negazione di noi stessi, ma luogo di relazione con gli altri e con l’Altro. Invece di chiuderci in difesa o in attacco, possiamo aprirci alla comunione e realizzarci a immagine di Dio, che è amore.
Gesù non ci offre una ricetta, menzognera, per salvarci dal comune destino; ci fa invece vedere come si può vivere l’amore fino a dare la vita. Questa, come il respiro, non possiamo possederla e trattenerla: morremmo subito. Siamo però liberi di spenderla nell’egoismo o investirla nell’amore, sapendo che «chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (12,25). Noi conosciamo una vita che è per la morte; Gesù ci rivela una morte che è per la vita.
Siamo all’ultimo dei «segni», che rivelano la gloria del Figlio di Dio. Dopo questo racconto seguirà la sua passione, che realizza il significato di tutta la sua azione: Gesù è il Figlio perché comunica la propria vita ai fratelli, e la comunica perché è il Figlio.
Gesù, come Lazzaro e ogni uomo, muore. Egli però ha il potere di offrire la vita e di riceverla di nuovo. Anzi proprio perché la offre, la riceve come Figlio uguale al Padre, datore di vita. Questo è il «comando» ricevuto dal Padre (10,18), che lo costituisce Figlio e lo rende nostro fratello.
Quest’ultimo segno richiama il primo: rivela la gloria del Figlio dell’uomo (vv. 4.40; cf. 2,11!), donata a ogni figlio d’uomo. E quella gloria che apparirà sulla croce:
la gloria dell’Unigenito dal Padre (1,14b), che dà, a chi lo accoglie, il potere di diventare figlio di Dio (1,12).
Gesù, dando la vita a Lazzaro, sarà condannato a morte (v. 53). Chi dona vita, riceve morte; ma, proprio ricevendo morte, dà vita. E il paradosso della croce, ormai all’orizzonte. Essa esprime l’apice sia del male che è nell’uomo, sia del bene che Dio gli vuole: manifesta la «sua gloria», amore senza limiti, che si fa carico di ogni nostro limite. Nel piano di Dio il nostro male è assunto come luogo in cui egli si rivela pienamente e ci salva.

Betania:
Ci si arriva uscendo da Gerusalemme, scendendo nell'avvallamento del Cedron per poi risalire sulla collina, attraverso i polverosi sentieri che solcano i poderi coltivati del Monte degli Ulivi.
Tre chilometri che Gesù percorre spesso per incontrare Lazzaro, Marta e Maria.
Betania, per chi ama Cristo, è un nome fortemente evocativo.
A Betania, dai suoi tre amici, Gesù si rifugiava quando, col cuore gonfio di tensione e d'incomprensione, lasciava la Gerusalemme che uccide i profeti per trovare un angolo di serenità. Betania svela il volto di un Dio che sente il bisogno di essere amato, che si disseta della fede della Samaritana, cercatrice di Dio. Betania è l'icona dell'amicizia tra Dio e l'uomo, Betania è il segno di un approccio diverso, nuovo, al volto di Dio.
E, proprio su Betania, si abbatte la tragedia: Lazzaro si ammala gravemente. Qualcuno si prende la briga di avvisare Gesù, di dirgli: "Il tuo amico è malato".
Gesù ora lo sa, ma non fa nulla, e Lazzaro muore. Che mistero l'apparente silenzio di Dio. Che assordante silenzio, quello di Dio. Gesù non guarisce Lazzaro, ma scende a vedere, si fa presente.

Il tumulto è grande, c'è molta gente intorno a Marta e Maria, le nostre amiche sono conosciute e stimate. Sapendo che arriva il Maestro, finalmente, Marta prima e poi Maria, escono di casa e gli vanno incontro: cercano una Parola, un gesto, uno sguardo. Lazzaro è morto, Gesù era lontano.
Succede anche nelle nostre povere vite: qualcuno muore, e Gesù è lontano.
Qualcosa muore (la fede, la speranza, la fiducia) e Gesù è lontano.
Le sorelle non disperano. Amano.
Non capiscono, non urlano, non inveiscono, né piegano la testa in una rassegnata disperazione. Attendono, fiduciose. Lazzaro è morto, il loro amato fratello è morto. Ma ora l'amico è qui.
Marta e Maria piangono, la folla lo spinge a vedere, Dio viene accompagnato a vedere quanta disperazione suscita la morte, quanto dolore suscita il dolore.
Gesù vede la disperazione di Maria e il dolore dei giudei e ne è turbato. Chiede di vedere Lazzaro e la risposta è: "Vieni e vedi".
"Vieni e vedi". È la stessa frase che egli aveva rivolto, tre anni prima, ai suoi primi due discepoli, Giovanni e Andrea, che gli avevano chiesto dove abitasse: "Venite e vedrete" (Gv 1,39).
I discepoli (e noi) erano invitati a mettersi in gioco, a partecipare: la fede è un "andare a vedere", un'esperienza di fuoco.
Ora è Gesù che si fa discepolo. Ora è lui che è chiamato ad andare a vedere.
A vedere quanto dolore suscita il dolore.
A vedere nel volto dei suoi amici più cari la disperazione che suscita in noi la morte.
E Dio piange. È come se Gesù, fino ad allora, non avesse ancora visto la casa del dolore, come se solo in quel momento Gesù prendesse consapevolezza della devastazione della morte.
Certo: Gesù aveva incontrato ammalati e aveva anche risuscitato dei morti, come la figlia di Giairo o il figlio unico della madre vedova. Ma erano degli sconosciuti.
Qui, ora, per la prima volta Dio vede il dolore che il dolore suscita nel cuore di persone che egli ama.
Dio impara il dolore, diventa discepolo. Divenendo uomo, lui che è l'assoluta perfezione, l'immensa totalità, impara la fragilità. Dio piange, fratelli.
Davanti a quel pianto possiamo, come la folla, lamentarci del fatto che, invece di piangere, poteva fare qualcosa prima. O restare stupiti di tanto amore.
Il cristianesimo, di fronte al dolore, si pone, impotente, davanti a questa sconcertante notizia: Dio condivide il dolore e, assumendolo, lo redime. Non lo evita, né per sé, né per noi.
Non so se preferisco un Dio che condivide il dolore con me o un Dio che mi eviti la sofferenza.
Come uno dei due ladri appesi alla croce, sento dentro di me la lacerazione di volere, da chi può tutto, che mi tolga dalla croce. Oppure, come l'altro ladro, non so se stupirmi di un Dio che soffre esattamente come me (Lc 23,39-43). Non lo so.
Forse, realisticamente, preferirei un Dio assoluto e onnipotente, che mi eviti la sofferenza, piuttosto che un Dio che muore per amore. Davanti a questo dolore inatteso, Gesù, l'amico, prende una
decisione: darà la sua vita perché Lazzaro torni alle sue amate sorelle.
Una vita per la vita: un episodio che avviene appena prima dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme.
Questo miracolo eclatante sarà la goccia che farà traboccare il vaso, la valanga che si distacca e tutto travolge, portandolo a morire.
La tensione è alle stelle, i suoi nemici si aspettano un solo microscopico passo falso per denunciarlo.
Gesù lo sa (Tommaso glielo ha detto: andremo a morire!) e accetta lo scambio.
Lo stesso scambio che, da lì a qualche giorno, farà dall'altare della croce per ciascuno di noi.
Ora che Dio conosce il dolore che la morte suscita nei cuori di chi si ama, decide di donare la sua vita.
Anche a noi, l'amico Gesù, grida: "Tu e tu e tu… venite fuori!". E allora veniamo fuori, fratelli, dalla nostra tomba, dalle nostre tenebre, dalle nostre piccole sicurezze, veniamo fuori dai nostri pregiudizi, dai nostri schemi, dai nostri egoismi. Veniamo fuori dalle nostre oscurità, veniamo fuori da tutto ciò che di freddo e di buio abita in noi, e… lasciamoci rivivere.
Crediamo, finalmente, lasciamoci raggiungere, infine.

venerdì 29 febbraio 2008

2 Marzo 2008 - IV DOMENICA DI QUARESIMA


Ora siete luce nel Signore
Quaresima tempo di desertificazione, tempo di autenticità per riscoprirci più uomini e scegliere di essere discepoli. Il Tabor ci aspetta, la bellezza di Dio è il termine ultimo del nostro cammino. Come la Samaritana, anche noi scopriamo che Dio solo può dissetare la nostra vita, e Dio ci svela che lui per primo ha sete di noi e della nostra fede. Un percorso iniziatico che in passato preparava i catecumeni a ricevere il Battesimo e che oggi porta noi a prendere consapevolezza di ciò che possiamo diventare.
Per trovare Dio occorre scoprire la sete di infinito che abita nel profondo del nostro cuore e che nulla, neppure la vita affettiva della donna di domenica scorsa, può davvero saziare.
Nel racconto del cieco nato Giovanni non si accontenta, come negli altri Vangeli, di raccontare un miracolo, ma di questo miracolo ne dona interpretazione e significato.
L'uomo è cieco, ma Dio ci vede benissimo. L'inizio del brano, che ci mostra Gesù che vede, è una provocazione alla nostra poca fede. Quante volte abbiamo l'impressione che Dio sia cieco? Che non veda la sofferenza degli uomini, che non si chini a vedere le mie difficoltà?
Dio ci vede benissimo, noi, spesso, no. La nostra miopia interiore, la nostra cecità, ci fanno esprimere giudizi affrettati, ingiusti nei confronti di Dio. Gesù ci svela il volto di un Dio misericordioso, attento, delicato, rispettoso, che conosce e guarisce le nostre miserie interiori.
Come il colloquio strepitoso con la donna di domenica scorsa, diffidente, all'inizio, che viene portata dal Maestro a guardarsi dentro con serenità, a riconoscere il proprio limite. E quando scopre, lei che non poteva entrare nel Tempio di Gerusalemme perché ebrea e non poteva entrare in quello di Garizim perché giudicata, che Dio la faceva diventare Tempio, abbandona la brocca dell'appartenenza relativa per riconoscere in Gesù il Messia atteso. Un Messia che conosce il dolore, nel suo caso il dolore di un'affettività a pezzi, e lo redime.
La cecità del personaggio di oggi è la nostra cecità, la nostra incapacità a credere, la nostra fatica a credere. Al tempo di Gesù, malgrado secoli di riflessione sulla sofferenza (Giobbe insegna), molti erano convinti che la malattia fosse punizione divina. Ragionamento corretto e implacabile: se sgarri Dio ti punisce con la malattia, se nasci malato hanno peccato i tuoi e Dio ti punisce attraverso i figli. Dio crudele ma ineccepibile.
Al tempo di Gesù. Oggi, grazie a Dio, nessuna più pensa queste cose orribili.
Gesù scardina quest'opinione: il punito, il maledetto diventa discepolo, la cecità non è più limite ma apertura ad una dimensione più profonda, più luminosa della realtà stessa. L'abbandonato, il reietto giudicato (i malati non suscitavano compassione: se l'erano cercata!) viene salvato, guarito, illuminato.
Anche noi discepoli siamo chiamati a superare la cecità, ad essere accesi e illuminati. L'uomo, così bravo a scoprire e usare le leggi della natura e del cosmo, ancora si vive come un Mistero irrisolto, si percepisce con profondità vertiginosa, non sa darsi risposta.
Manchiamo di coscienza di noi stessi. Pur conoscendoci, non riusciamo a sondare tutti gli aspetti della nostra vita, del nostro carattere; Dio, allora, ci rivela a noi stessi.
Con il dono della fede, ci illumina la vita.
Tempo fa un amico diventato credente diceva: "E' come se fossi sempre vissuto in una stanza al buio. Certo: mi orientavo, mi muovevo, ogni tanto urtavo qualche oggetto che mi provocava dolore. Poi, d'improvviso, qualcuno ha aperto le ante e la luce è entrata".
Sì: l'esperienza della fede è illuminazione interiore. A noi, solo, di non tenere gli occhi chiusi per ostinarci a dire: "E' buio".
Questa coscienza di chiarezza era così forte che in origine i cristiani chiamavano il Battesimo proprio "illuminazione". Riscoprire la fede diventa allora esigenza portante, fondamentale, per acquistare una prospettiva sulla vita e sulle cose completamente diversa.
Davanti alla vista del cieco nato, però, occorre aprire il cuore, fidarsi. I dotti del tempo di Gesù, davanti a questa guarigione si irrigidiscono, non vogliono capire, non vogliono vedere. Così i genitori del cieco hanno paura del giudizio dei Farisei: anche loro vivono nelle tenebre del pensiero altrui, dell'omologazione che impedisce di essere liberi di fronte alle scelte.
Il grande Giovanni, al solito, gioca sull'ambiguità: chi è cieco e chi ci vede dentro questo racconto? Chi credeva di vederci benissimo è, in realtà, inchiodato ai suoi pregiudizi (anche religiosi!) o al giudizio degli altri. Il cieco, maledetto da Dio secondo gli uomini è, in realtà, l'unico a vederci benissimo!
Il miracolo conduce il cieco ad un'altra luce, ben più profonda.
Le domande che Gesù gli rivolge, portano ad una conclusione: sì ora può vedere chiaramente che Gesù è il Messia, il Figlio dell'uomo.
Cosa significa camminare nella luce? Significa innanzitutto abbandonare le luci false: la luce fredda e fatua del pregiudizio contro gli altri, perché il pregiudizio distorce la realtà, falsa le proporzioni, ci carica di avversione contro coloro che giudichiamo senza misericordia, condanniamo senza appello. Non possiamo pretendere di essere luce di noi stessi. Un'altra luce falsa, perché seducente e ambigua, è quella dell'interesse personale: se valutiamo uomini e cose in base al criterio del nostro utile, del nostro piacere, del nostro prestigio, inevitabilmente non facciamo la verità nelle relazioni e nelle situazioni. Il buio del nostro cuore ci acceca: non riusciamo a vedere oltre la superficie dei fatti e delle cose; come possiamo discernere con obiettività? Tante volte poi la vista ci si appanna perché ci autocondanniamo a camminare con la luce fioca del lumicino del tran-tran quotidiano: come possiamo orientarci nel groviglio di situazioni complesse e delicate se a forza di vivere il giorno-per-giorno ci riduciamo poi a vivere alla giornata?
Camminare nella luce - ci ha detto s. Paolo - consiste "in ogni bontà, giustizia e verità"; consiste nel "cercare ciò che piace al Signore". Camminare nella luce significa saper vedere Dio alla regia di una storia che sembrerebbe condotta solo dagli uomini; significa saper leggere le tracce della sua sapienza e bontà sui sentieri a zig-zag della nostra vita; significa riuscire a decifrare i misteriosi messaggi del suo amore anche nelle pagine striate di lacrime e sangue nel nostro calendario.
Ci valga di incoraggiamento questo passaggio di s. Agostino: "Forse tu cerchi di camminare, perché ti dolgono i piedi. Per qual motivo ti dolgono? Perché hanno dovuto percorrere i duri sentieri imposti dal tuo tirannico egoismo? Ma il Verbo di Dio ha guarito anche gli zoppi. Tu replichi: Sì, ho i piedi sani, ma non vedo la strada. Ebbene, sappi che egli ha illuminato perfino i ciechi".
Non chiudiamoci quindi nei pregiudizi e nella vergogna della nostra fede: sappiamo che tutta la luce che abita nel nostro cuore è dono della tenerezza di Dio.
Accogliamo la sfida, fratelli, non opponiamo resistenza alla luce, lasciamo le dita di Gesù toccare i nostri occhi e guarirli. Che la nostra vita diventi testimonianza di quest'illuminazione.
Non abbiamo paura ma fidiamoci di Colui che, solo, può guarire la nostra cecità. Il nostro Battesimo, ancora tutto da riscoprire, ci ha aperto gli occhi della fede. Usiamoli, ora, per rileggere la nostra vita con lo sguardo stesso di Dio.

giovedì 21 febbraio 2008

24 Febbraio 2008 - III DOMENICA DI QUARESIMA


Cristo, acqua per la nostra sete di assoluto
É facile, leggendo lentamente questa pagina di Giovanni, socchiudere gli occhi ed immaginare la sassosa terra di Palestina: il sole cocente, l'aria che evapora, il caldo che si appiccica alla pelle. Mezzogiorno in Palestina equivale ad una frustata di aria calda e polverosa nei polmoni. Qui, al pozzo di Sicar, nel brullo deserto di Giuda, Dio siede, stanco. Stanco di cercarci, stanco di elemosinare attenzione dalle sue creature.
É lo strano destino di un Dio che per amore accetta la nostra indifferenza. Nel deserto cocente anche Dio prova sete. Sete della nostra fede, sete di vedere colmato il suo infinito desiderio di amare ed essere amato.
La Samaritana viene al pozzo ad attingere acqua. Un' ora inconsueta per far acqua, che rivela il suo desiderio di non incontrare nessuno. Non incontrare soprattutto gli occhi e i giudizi degli abitanti di quel minuscolo paesino che conosce e disapprova la sua frammentata vita sentimentale.
E lì, in questo affresco che Giovanni sa descrivere con grazia e pudore, avviene l'incontro. Un incontro di sete e di acqua, di attenzioni e di scoperte, d'interrogativi e di frescura che riempie il cuore. L'incontro della sete di Dio che brama di dissetarsi della fede della donna, e dell'acqua della presenza di Dio che, sola, placherà la sete di felicità di questa donna inquieta.
Gesù inizia, prende l'iniziativa, ci interpella: "Dammi da bere".
Una richiesta che rimanda ad un'altra richiesta – tragica – che Gesù farà dall'alto del legno a cui è inchiodato: "Ho sete". Sì: Dio ha sete di noi, della nostra fede, della nostra attenzione. Ci chiama, ci parla di senso e di pienezza, risveglia la nostra ricerca. La Samaritana non ci sta, non si scopre, gira intorno all'essenziale. "Chi è mai - pensa - questo sconosciuto che mi parla? Che vuole?".
Lei come noi, sta sulle difensive, come se Dio fosse un avversario, un concorrente.
Il dialogo continua, e rivela alla donna il volto di un Dio sempre meno duro, un volto sempre più attento e rispettoso. Gesù la sa condurre sapientemente, passo dopo passo, dentro a se stessa. La porta, con sbalorditiva delicatezza, a mettersi in discussione, a riconoscere il suo limite, a superarlo.

La donna ora accetta una domanda personale, che coinvolge la sua affettività e rivela la sua allergia all'incontro con i compaesani: è una donna fragile, giudicata, che incontra solo sguardi e commenti offensivi e che ora – invece – incontra uno sguardo buono sul serio, che non giudica e ama.
Anche lei ha sete, una sete tormentata che ha creduto placare offrendo amore disperatamente, usata nei suoi affetti e nel suo corpo, una sete che nessun abbraccio ha colmato, ma solo temporaneamente zittito. Quella sete, sentendo parlare quel maschio straniero che la tratta come una persona, che la guarda con amore rispettoso e virile, ora esplode nel suo cuore. Prima timidamente e con durezza (troppe cicatrici nel suo cuore), poi come un urlo tanto a lungo compresso e negato.
Imparassimo – noi educatori, genitori, insegnanti – a saper ascoltare chi ci parla, a forzare con delicatezza e rispetto il suo cammino, a fidarci della capacità di cambiare che abita il cuore di ogni uomo come fa Gesù con questa donna.
Gesù rivela un'inconsueta capacità di dialogo, di relazione, nel rispetto e nell'amore. La Samaritana passa dalla discussione accademica sulla "religione" ("E' qui che dobbiamo adorare?") alla percezione che davanti a questo sconosciuto può aprirsi, di lui può fidarsi, perché parla di Dio come mai nessuno le ha parlato.
Tace, la donna. Mai nessuno le aveva detto di essere un tempio, di essere amata. Mai nessuno l'aveva amata. Il mondo si era diviso in chi l'aveva usata e in chi l'aveva condannata. Nessuno, mai, le aveva detto di essere amata senza condizioni. Beve, ora, la samaritana, beve come se mai avesse assaporato il gusto dell'acqua, come sei mai avesse assaggiato l'acqua fresca di sorgente. Beve e sente in lei aprirsi la sorgente, spezzare la roccia del dolore, come quella che Mosè diede al popolo nel deserto.
Corre. E crede. La peccatrice diventa discepola, la donnaccia, un'opera d'arte. Il suo limite diventa il trono della gloria di Dio, la sua vita disordinata l'epifania del volto di Dio. Beve, ora, e lei stessa diventa sorgente.
Lascia la brocca - che importa ormai? - e corre dai suoi sospettosi vicini. Non ha più paura, non si vergogna, non si difende. Ha capito, ha trovato l'acqua viva, ne parla, contagia col suo stupore chi l'ascolta.
Il suo limite diventa addirittura mezzo di evangelizzazione: le persone che prima guardava con sospetto diventano persone da contagiare: lei ha incontrato qualcuno che le ha letto la vita, che sia lui il Messia tanto atteso? E in questo crescendo di grazia, l'acqua corre, come un rivolo, prima, poi sempre più energica, come un torrente in piena.
É l'acqua della presenza di Dio che da quel giorno ha sostituito il limaccioso pozzo di Giacobbe. L'acqua, la stessa acqua nella quale siamo stati immersi, il giorno del nostro Battesimo. L'acqua della Presenza di Dio, la sola che può dissetarci.
Pagina semplice, fresca, luminosa, che non necessita di troppi commenti.
A te che leggi, fratello, sorella, il Signore chiede di dargli da bere, di chiacchierare, di passare dalle belle definizioni astratte su Dio al coinvolgimento della tua e della nostra storia, anche della più oscura. Il Dio che disseta, il Dio che stanco ci attende al pozzo delle nostre giornate, il Dio che non ci giudica quando tutti puntano l'indice, il Dio che riempie e cambia la vita della Samaritana, il Dio che cambia il volto di quel minuscolo paese che spalancherà le proprie case al fiume di grazia, ti attende.
Un Dio da incontrare, alla fine del cammino del deserto, da ammirare stupiti sul Tabor, che ci cerca, stanco, per dissetarci, il Dio bellissimo di Gesù.
No, nessuna sete potrà mai essere spenta se non dall'incontenibile sguardo di Dio.

In pratica….
È questo allora il suggerimento stupendo che ci viene dalla Parola di Dio di questa domenica: per prepararci bene alla Pasqua dobbiamo lasciarci dissetare dall'acqua viva che è l'amore di Dio.
Dobbiamo tuffarci in quest'acqua viva, spruzzarci a vicenda, bere a sazietà!
E come si fa?
Chi ha già la possibilità di accostarsi al sacramento della Riconciliazione, sa perfettamente che ogni incontro con il perdono del Signore è una lunga sorsata dell'acqua viva del suo amore.
Non perdiamo le occasioni in Quaresima per tuffarci nella gioia di vivere il perdono del Padre Buono, lasciandoci sommergere dall'acqua viva del suo amore!
E poi, tutti, possiamo mantenere sempre fresca la sorgente dell'acqua viva che Dio Padre ha messo in noi con il Battesimo. Ci ha detto Gesù che anche in noi zampilla l'acqua viva dell'amore e questo zampillo è alto, limpido, fresco, ogni volta che doniamo amore.
Ogni volta che diciamo una parola gentile, un incoraggiamento, una frase che consola chi è triste, facciamo zampillare l'acqua viva dell'amore. Ogni volta che sorridiamo a qualcuno, che siamo accoglienti, che scacciamo via i musi lunghi e trattiamo tutti con bontà e simpatia, ecco che zampilla la sorgente dell'acqua viva. Tutte le volte che sappiamo essere generosi, in famiglia, a scuola, con gli amici; quando sappiamo condividere i nostri giochi, il nostro tempo, ci stiamo spruzzando allegramente con l'acqua viva.
Ogni volta che siamo capaci di perdonare uno sgarbo o una presa in giro, ogni volta che siamo capaci di non offenderci per un dispetto o una cattiveria, stiamo tuffandoci profondamente nell'acqua viva.
Adesso restiamo un istante in silenzio, ripetendo nel segreto della mente le parole della Samaritana: "Signore, dammi quest'acqua".
Sì, Signore Gesù, dacci sempre l'acqua viva che solo tu sai donare. Dissetaci con il tuo amore, o Maestro e Signore, e il nostro cuore sarà nella felicità che non finisce mai.

Meditiamo…
«La samaritana crede nel miracolo, nel miracolo più che nella felicità, come tutte le donne. Per questo, solo le donne sanno attendere, sperare e forzar la mano del Signore con parole e slanci che costituiscono una delle meraviglie del vangelo.(…) I motivi della samaritana sono buoni, ma il primo è espresso in modo sbagliato, il secondo in modo incompleto. Dio, è vero, acqueta e vince la nostra sete, ma non la spegne: non vuole spegnerla, essendo una nota sostanziale della nostra spiritualità. Come non ci toglie la croce, così non ci toglie la sete. Senza croce cesseremmo di progredire e di assomigliargli: senza sete non lo cercheremmo più. “Come il cervo cerca le fonti, così l’anima mia cerca te, o Signore”. Egli leva alla mia sete il tormento, ma me la lascia. Nell’acqua viva che egli mi dà, c’è anche di più di quanto la mia sete richieda: io però vi attingo di continuo per un bisogno che, cessando di essere un tormento, è divenuto il mio gaudio: “La mia anima ha sete di te, Dio forte e vivo”.(…) Molti pretenderebbero di ridurre la religione ad una forma assicurativa di quiete. Non mi pare che il Signore possa essere soddisfatto di gente che arrivi a lui con animo dimissionario e di pensionato.(…) l’adorazione in spirito e verità, voluta dal vangelo, c’impegna di più dopo che prima dell’arrivo. Anche la grazia di arrivare in porto non è di esclusivo godimento di colui che arriva. Ogni possesso è un dono in funzione di carità, perché anche gli altri abbiano e in maniera anche più abbondante di noi stessi. Oltre la mia sete c’è la sete dei fratelli: oltre la mia stanchezza, la loro stanchezza» (Don Primo Mazzolari).

giovedì 14 febbraio 2008

17 Febbraio 2008 - II DOMENICA DI QUARESIMA


La via del discepolo: croce e gloria

Siamo partiti per un cammino di quaranta giorni di essenzialità. Quaranta giorni alla sequela del Maestro Gesù che, nel deserto, sceglie un messianismo di basso profilo, di relazione, di profezia, rifuggendo la tentazione di una religiosità urlata e chiassosa. Quaranta giorni per convertirci alla gioia Pasquale, per lasciar crescere in noi la tenerezza del volto di Dio, per imparare o re-imparare cosa ci è davvero necessario. Digiuno dal caos e dalla rabbia, preghiera quotidiana basata sulla Parola ed elemosina per aprire il cuore (e il portafoglio) ai fratelli che camminano con noi e che vivono nella povertà, sono le tre strade che siamo invitati a percorrere per tornare all'essenziale.
Lungo come una Quaresima: nella simpatica e luminosa coscienza cristiana del passato, questa frase sintetizza bene l'atteggiamento di insofferenza verso questo tempo liturgico che ci appare come un'imposizione di (inutili) sacrifici e desueti fioretti per mortificare il corpo.
Al contrario, la Quaresima autentica non mortifica, vivifica, sapendo bene che la vita interiore è lotta radicale contro l'aspetto tenebroso della nostra coscienza e che non basta rinunciare ai dolci per convertire il cuore.
Ben più radicale è l'atteggiamento che il Maestro oggi ci chiede, non subire una serie di privazioni che ci siamo imposti, ma scegliere di scegliere, spalancare il cuore all'amore di Dio, salire sul Tabor.
“La bellezza salverà il mondo”, l'affermazione, contenuta in uno dei romanzi dello scrittore russo Fedor Dostojewski, ci introduce benissimo a questa inusuale seconda domenica di Quaresima. Vangelo poco “mortificato” e penitenziale quello che ogni anno la liturgia (saggiamente) ci propone, quasi a soffocare sul nascere la triste consuetudine cattolica di essere tristi, specialmente quando si parla di Dio.
Sbagliato: quando si parte nel deserto il cuore è allegro, perché alla fine saremo liberati dal Faraone e dal suo esercito. Quando si sale sulla montagna, malgrado la fatica, ciò che ci spinge a salire è la gioia che proveremo nello spaziare con lo sguardo oltre le cime.
Così ecco l’esperienza del Tabor: Pietro e gli altri sono esterrefatti da quanto accade: Gesù maestro, profeta affascinante, si rivela per quello che è; ed è un'esperienza travolgente, di bellezza sconfinata. Quanto dobbiamo recuperare questa dimensione della bellezza nella nostra vita cristiana!
Gli apostoli, inaspettatamente, si ritrovano a contemplare Gesù di Nazareth che si rivela loro nella sua forma più autentica di Figlio di Dio. Sembra quasi un'anticipazione della Resurrezione che, forse, nell'intento del Signore, serviva a dare agli ignari apostoli quel po' di coraggio necessario per affrontare il grande scandalo della croce. Alla fine della trasfigurazione gli apostoli non vedono che “Gesù solo”. Certo: il momento in cui raggiungiamo attraverso la preghiera e la contemplazione il volto di Gesù Risorto, vivo qui e adesso, e ci troviamo davvero scossi e scombussolati da una tale manifestazione, non vediamo che Gesù solo. Solo lui: nelle nostre scelte, nei nostri fratelli, nelle nostre giornate.
Più volte lo abbiamo detto e ancora lo ripetiamo: la fede non è semplice adesione intellettuale, è coinvolgimento radicale, esperienza misteriosa di questo Dio che è altro da noi (non sentimento, non impressione, non scelta ma manifestazione).
Di questa esperienza i cristiani parlano, a questa esperienza vogliono condurre nel misterioso intreccio delle libertà (mia e di Dio) ogni fratello che si lascia avvicinare dal Vangelo.
Nessuna apparizione, per carità (Dio ci preservi dalle apparizioni!) ma la semplice possibilità di fare esperienza interiore tangibile ed inequivocabile della bellezza di Dio.
Pietro Giacomo e Giovanni, da ora in avanti, avranno sempre e per sempre impresso quel volto trasfigurato, quel Dio ora chiaramente leggibile nella natura più profonda.
È questa forte esperienza che manca, spesse volte alla nostra tiepida fede.
Perciò molti vivono la fede come scelta necessaria, doverosa, utile anche se immensamente noiosa.
Perché senza il Tabor, il cristianesimo manca della sua dimensione essenziale: la bellezza di Dio.
Dio è bellissimo: forse dovremo recuperare questo aspetto nella nostra vita cristiana; ripartire dalla bellezza. Le nostre periferie sono orrende, orrende le città, orribili le finte vacanze che ci vengono proposte in mezzo a finti paesaggi immacolati. Orribile il linguaggio e le persone che ci raggiungono dal mondo della politica e dello spettacolo. Abbiamo urgente bisogno di bellezza, della bellezza di Dio che è verità e bene e bontà.
Non è forse questa la fragilità della nostra fede contemporanea? Non è forse questa la ragione di tanta tiepidezza della nostra comunità? Non abbiamo forse smarrito la bellezza nel raccontare la fede? Nel celebrare il Risorto? È noioso credere... È giusto – certo – ma immensamente noioso.
Il Vangelo di oggi ci dice, al contrario, che credere può essere splendido. Varrebbe la pena di recuperare il senso dello stupore e della bellezza, l'ascolto dell'interiorità che ci porta in alto, sul monte, a fissare lo sguardo su Cristo. Facciamo delle nostre messe dei luoghi di bellezza: il silenzio, il canto, la fede, il luogo in cui preghiamo, può riportare un briciolo di bellezza nella nostra quotidianità.
Ma questa inaudita e straordinaria esperienza, ci ammonisce Paolo scrivendo a Timoteo, non è merito nostro o nostra conquista: è dono totale e gratuito di Dio che ci “dona ogni cosa” nel suo figlio Gesù.
Fidiamoci, partendo, come Abramo che segue l'invito di un Dio di cui non sa nulla. Partire significa credere in questo Dio di cui mi fido e che mi invita a compiere gesti che a volte non capisco in profondità, rinunciando ai miei progetti per accogliere il suo Progetto.
É il salto della fede, il fidarsi ciecamente di qualcuno su cui ho scommesso tutto. Abramo non capisce, stenta, tentenna, obbietta. Ma si fida.
E questo fidarsi, dura prova nella sua vita, lo fa morire ai suoi progetti per diventare, secondo la promessa, padre di una moltitudine: i credenti, appunto, che, dopo di lui, rifanno questo percorso di fiducia per arrivare fino a Dio. Il Tabor, quindi, come meta della nostra Quaresima. Per non vedere che “Gesù solo”, occorre fidarsi come Abramo, rinunciare al proprio egoismo, salire (faticosamente!) dietro al Maestro per riconoscerlo come Messia. Questa mortificazione-vivificazione ha in gioco la presenza stessa di Dio!

L’obbedienza.
L'obbedienza non è cosa facile da spiegare. Tendiamo a pensare all'obbedienza solo come un atteggiamento implicante il mero controllo della libertà. È un'imposizione che restringe l'espressione della propria volontà. Essa comporta la presenza di un'autorità, di qualcuno che prende decisioni arbitrarie riguardo alla nostra vita. Presuppone timidezza e debolezza di carattere, da parte di coloro che non sono in grado o non vogliono determinare da soli la direzione della propria esistenza. Porta a rinunciare ai propri pensieri, alle proprie idee e alla propria autonomia.
Forse è questa la caricatura di obbedienza che spontaneamente rifiutiamo. La realtà è ben diversa. A livello umano ci sono molte cose cui obbediamo volentieri, perché ci rendiamo conto che ci sono buone ragioni per farlo, perché mi accorgo che il bene comune lo richiede, o perché riconosco che c'è chi ne sa più di me o chi è in una posizione migliore per decidere di qualcosa. Obbediamo e acconsentiamo anche alle persone che amiamo, perché vogliamo soddisfarle. La nostra obbedienza è attiva e di tutto cuore. Desideriamo obbedire, anche se, a volte, ci costa. L'obbedienza può portarci a frenare un nostro desiderio, ma accettiamo questa limitazione per qualcosa che per noi è più importante.
Ci sono anche delle buone ragioni per l'obbedienza religiosa. Le vie di Dio che oltrepassano l'umana comprensione, la fiducia religiosa verso i rappresentanti e i ministri di Dio fondata sulla Parola Rivelata, l'autorità della santità, la nostra stessa esperienza del riconoscimento della verità di Dio presente nel prossimo.
L'obbedienza non dovrebbe essere confusa con il conformismo (umano o religioso), che è mera adattabilità esteriore del nostro agire. Questa implica un atteggiamento passivo, di inerzia. Le proprie facoltà interiori non vengono coinvolte, ma si lascia che tutto avvenga e vada per il suo corso, unicamente perché è più facile e comodo che fare il contrario. Il conformismo può essere indotto anche da una sottovalutazione della capacità delle persone di accettare liberamente e con amore la verità.
Dobbiamo intendere meglio la vera natura dell'obbedienza religiosa, quale luce necessaria nell'oscurità dell'esistenza umana. Ciò richiede un riesame del senso del proprio scopo nella vita, del proprio grado di apertura all'esperienza della verità religiosa, della capacità di confidare e di affidarsi all'altro (FR), del senso del bene altrui, della propria capacità di amare, di essere in grado di adattarsi all'altro.
Così facendo, possiamo apprezzare meglio quella semplice frase della Genesi: “Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore”.

Il silenzio
Il silenzio è mitezza: quando non rispondi alle offese, quando non reclami i tuoi diritti. quando lasci a Dio la tua difesa e il tuo onore.
Il silenzio è magnanimità: quando non riveli le colpe dei fratelli, quando perdoni senza indagare nel passato, quando non condanni, ma intercedi nell'intimo.
Il silenzio è pazienza: quando soffri senza lamentarti, quando non cerchi consolazioni umane, quando non intervieni, ma attendi che il seme germogli.
Il silenzio è umiltà: quando taci per lasciare emergere i fratelli quando celi nel riserbo i doni di Dio, quando lasci che il tuo agire sia male interpretato, quando lasci ad altri la gloria dell'impresa
Il silenzio è carità: quando fai parlare l’altro, quando umilmente ascolti le sue lamentele, quando offri a Dio le sofferenze del fratello, condividendone il peso.
Il silenzio è fede: quando taci perché è Lui che agisce, quando rinunci alle voce del mondo per stare alla sua presenza, quando non cerchi comprensione perché ti basta essere conosciuto da lui.
Il silenzio è saggezza: quando ricorderai che dovremo rendere conto di ogni parola inutile, quando ricorderai che il diavolo è sempre in attesa di una tua parola imprudente per nuocerti e uccidere.
Infine il silenzio è adorazione: quando abbracci la croce, senza chiedere il perché, nell'intima certezza che questa è l'unica via giusta.

La nostra trasfigurazione.
Il vangelo della trasfigurazione è un vero itinerario quaresimale: una strada di vita cristiana per tutti noi.
Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni li condusse in disparte. su un alto monte... Gesù invita noi suoi discepoli a momenti di distacco dalle cose e dagli impegni consueti, invita a cercare il silenzio, la riflessione, la preghiera. Effettivamente abbiamo bisogno di trovare pace e interiorità nelle nostre giornate piene di impegni, di preoccupazioni più o meno valide, di stanchezza, di stress. In un'altra occasione Gesù dirà: Venite, riposatevi un po'. Gesù sale sulla montagna. La montagna è sempre un luogo di particolare rapporto con Dio. Dio sceglie i monti per le sue rivelazioni, i suoi doni di amore: ricordiamo il Sinai, l'Oreb, il Tabor, il monte delle beatitudini, il calvario, il monte dell'ascensione.
E' importante anche cercare il luogo adatto alla preghiera, il luogo dove si può accogliere nella maniera più viva la presenza di Dio.
Nelle nostre giornate e nei nostri propositi quaresimali, riusciamo a programmare momenti di preghiera (“il nostro stare con Gesù in disparte”) e qualche esperienza forte in uno dei tanti luoghi dove siamo aiutati per un incontro vero con il Signore?
Gesù fu trasfigurato davanti a loro, il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la neve. Gesù si fa vedere in tutta la gloria di Figlio di Dio e i suoi possono contemplarlo, possono percepire qualcosa della sua grandezza e bellezza infinita. E' un'esperienza talmente grande che Pietro esclama: E' bello per noi stare qui.
Anche noi siamo spinti a coltivare l'esperienza della contemplazione del volto di Dio, dell'amore di Dio, della sua grandezza e della sua vicinanza. Ci viene in mete tutto quello che il S. Padre nella lettera per il millennio ci ha scritto per la contemplazione del “Suo” volto. “Lo sguardo resta più che mai fisso sul volto del Signore”. “Solo l'esperienza del silenzio e della preghiera offre l'orizzonte adeguato in cui può maturare e svilupparsi la conoscenza più vera e coerente di quel mistero che è il Figlio di Dio, venuto ad abitare in mezzo a noi”. “Nel volto di Cristo la Chiesa contempla il suo tesoro, la sua gioia”.(TMI)
Chiediamoci: È bello per noi stare con il Signore? Nei momenti di preghiera, nella Messa, nelle liturgie, nel silenzio della nostra camera?
A Cristo Figlio di Dio, Messia Salvatore, danno testimonianza Mosè ed Elia, cioè tutta la storia sacra dell'Antico Testamento. Cristo è il Messia atteso nei secoli; Cristo diventa il centro del cosmo e della storia, l'unico Salvatore del mondo, il Salvatore dell'universo.
Una nube luminosa li avvolse e si udì la voce: Questo è il mio Figlio prediletto, nel quale mi suo compiaciuto. Ascoltatelo! La nube ci ricorda la presenza protettrice di Dio nel cammino del popolo ebraico ed esprime ora quella stessa presenza. La voce è la voce del Padre. Aveva parlato in molti modi attraverso Mosè e i profeti; aveva dato sul monte le tavole della legge (i dieci comandamenti); ora parla attraverso Gesù, il Figlio, che ci darà la nuova legge, le beatitudini e il comandamento nuovo dell'amore. Per questo Cristo va ascoltato.
Com'è la nostra fede in Gesù Salvatore? Come lo ascoltiamo? Conosciamo la sua parola, i suoi insegnamenti, li seguiamo?
Verranno anche per noi momenti difficili, in cui proveremo crisi e tentazioni. Ma il Signore Gesù è Lui, sempre. È con noi, sempre. Trasforma ogni sofferenza e ogni morte in risurrezione, in vita. Dice uno scrittore: È importante non dimenticare nei momenti delle tenebre, ciò che abbiamo visto nei momenti della luce. Anche a noi il Signore dà tanti momenti di luce, come sul Tabor; quando vengono i giorni difficili, dobbiamo ricordare la bontà del Signore, credere alla sua fedeltà, unirci alla sua sofferenza, per essere uniti poi con Lui per sempre nella pienezza della vita.

giovedì 7 febbraio 2008

10 Febbraio 2008 - I DOMENICA DI QUARESIMA



Essenzialità
Lasciate le barche per seguire Gesù nel territorio di Zabulon e Neftali, ai confini della storia, accolta la sconcertante notizia di un Dio che è povero e misericordioso, siamo chiamati a diventare sale che dona sapore all'insipido mondo, luce che indica la strada ai cercatori di beatitudine.
Ma, lo sappiamo, la strada è in salita e il vento pungente della disperazione rischia di spegnere la flebile fiamma della fede.
Abbiamo bisogno di convertirci alla gioia, abbiamo bisogno di tenere stretto in mano lo spago che si dipana nel delirio quotidiano per condurci alla pace interiore.
Inizia la Quaresima, fratelli, inizia il deserto.
Quaranta giorni alla sequela di Gesù che inizia la sua vita pubblica nell'assordante silenzio del deserto, là dove l'essenziale emerge. A imitazione del popolo di Israele che vaga quarant'anni nel deserto del Sinai prima di entrare nella terra promessa, Gesù prende estremamente sul serio la sua missione, e cerca nel silenzio e nel digiuno il percorso da seguire. Gesù, vero uomo e vero Dio, ha di fronte a sé delle scelte da compiere: come eserciterà il suo ministero? Userà prodigi e miracoli? Scuoterà il cielo e farà piovere il fuoco dal cielo? Cavalcherà la connaturale idea di Dio che portiamo nel cuore per stupirci e intimorirci?
Il colloquio fatto con l'avversario è pieno di umano buon senso: bisogna sostenersi fisicamente per affrontare il faticoso compito dell'annuncio, bisogna usare qualche prodigio per attirare l'attenzione, occorre tenersi buoni i potenti della terra per avere appoggio nella missione.
Proposte sensate che Gesù rifiuta, usando la Parola (che conosce bene) per discernere cosa deve fare.
Gesù sceglie quale Messia essere: un Messia dimesso e misericordioso, non ricorrerà ai prodigi, né alla forza; Dio vuole essere amato per ciò che è, non per ciò che dà.
Gesù sceglie ispirandosi alla Parola, riesce a dribblare le trappole dell'avversario tenendo nel cuore la Scrittura, decide alla luce di Dio Padre come compiere la sua missione.
E noi fratelli, sorelle, abbiamo deciso quale uomo, quale donna diventare?
Il nostro carattere, la nostra educazione, le esperienze della vita hanno profondamente influenzato il nostro percorso, determinato ciò che siamo; ma c'è nel nostro cuore un immenso spazio di libertà che possiamo gestire, orientare, portare a maturazione: è ciò che ci rende simili a Dio.
Ci sono dati quaranta giorni di deserto nella città, quaranta giorni per tornare all'essenziale, per chiederci, una volta all'anno, se ciò che siamo è ciò che abbiamo scelto e, se non abbiamo potuto scegliere, se la vita che viviamo la viviamo nella tenerezza di Dio.
Quaresima è il tempo della concentrazione e della verifica, per essere capaci di accogliere la straordinaria gioia della resurrezione di Gesù. La gioia è l'obiettivo ultimo della Quaresima, tempo in cui aprire il cuore alla conversione.
Per molti di noi occorrerà mortificarsi: togliere dai piedi ciò che c'impedisce di essere liberi, ciò che ci distrae e ci fa vivere nella dimenticanza.
Per molti di più occorrerà vivificarsi, lasciare la tristezza, abbandonarla, non amarla, per convertirsi, infine, alla gioia.
La quaresima, in ogni caso, diventa il tempo in cui rimettiamo un centro nella nostra vita.
Quaresima, palestra che ci diamo una volta all'anno, esercizio per ritrovare l'unità, tempo di deserto, sull’esempio di Gesù che seguiamo e che - come noi - ha voluto fare l'esperienza di deserto per scegliere come vivere, per far ordine intorno alle sue scelte.
Mercoledì abbiamo iniziato il cammino con un gesto simpaticamente tragico: l'imposizione delle ceneri con il monito: “Ricordati che sei polvere…”
Ce lo ricordassimo quando ci scanniamo per questioni di eredità o scaliamo la scala sociale! Se lo ricordassero i super-iper-tutto dell'umanità che qualche anno dopo la loro serena dipartita saranno polvere! Ce lo ricordassimo quando – senza patemi o tristezze – indaghiamo sul senso della storia e della vita!
Il delirio di onnipotenza che - talora - prende la nostra umanità verrebbe guarito da questa semplice considerazione: siamo polvere.
Ma polvere che Dio illumina e trasfigura, accende e rende capolavoro e meraviglia...
Quali le strade della desertificazione? Ne indichiamo tre soltanto: il digiuno, sia simbolico, ad esempio spegnere la tivù, dedicare più tempo a sé e alla famiglia, allentare le tensioni, che reale, alleggerendo la cucina per solidarietà con i poveri e per liberare cuore e corpo dalle tossine; la preghiera, intesa soprattutto come esercizio quotidiano (un quarto d'ora, come minimo) di silenzio, di meditazione, di lettura della Parola col desiderio autentico di comunicare con Dio; l'elemosina, come rinuncia ai beni superflui per sostenere chi vive nella miseria. Tre itinerari che, se percorsi con cuore sincero, ci possono condurre alla vicinanza con Dio.

Quaresima, tempo per fare “giustizia”.
Gesù nel grande discorso della montagna, ci indica qual è la “nuova giustizia del Regno”, la nuova sedaqah ossia il vero modo di vivere il nostro rapporto con Dio e con i fratelli.
Il termine ebraico sedaqah non indica tanto l’obbedienza ad una norma, quanto la condizione ottimale che ciascuno deve avere nei suoi rapporti interpersonali e con Dio. Significa rispondere adeguatamente e in giusta misura all’amore di Dio. Il giusto, quindi, che osserva la torah, realizza la sua fedeltà a Dio e al popolo: in altre parole fa giustizia, pareggia i conti, fa sedaqah.
Il Nuovo Testamento ha ripreso questo concetto veterotestamentario di giustizia, conferendogli una nuova valenza: dikaiusìne, una giustizia-comportamento che è grazia di Dio, che è un dono, e che quindi non può essere considerato né un vanto né una conquista umana, perché come dice Paolo, in Rom 3,26 è Dio che è “giusto e giustificante” (dìkaion kai dikaiùnta”); è Lui che con la sua grazia, con il suo amore, con il suo sostegno, rende “giusto” l’uomo, gli consente di “pareggiare” il conto con una adeguata risposta nei confronti di Dio e del prossimo.
Ecco perché la sedaqah-dikaiusìne che deve animare le tre pratiche fondamentali del cammino cristiano - la preghiera, l'elemosina e il digiuno – non può essere considerata un merito personale di cui vantarsi, di cui andare fieri (come ci mette in guardia il vangelo).
Gesù infatti, proprio qui, ricorda lo spirito che ci deve guidare nel nostro percorso di perfezione, quale la molla interiore che deve animare le nostre opere, se vogliamo che la nostra sedaqah-dikaiusìne, il nostro rendere giustizia a Dio, sia l’espressione di un sincero e autentico rapporto di amore con Lui.
Gesù parla a ragion veduta: è fin troppo evidente che anche oggi il comportamento di molti - quando pregano, fanno carità e digiunano - è ben lontano dallo spirito della autentica sedaqah: lo fanno semplicemente “per essere ammirati”, “lodati”, “visti”, “per apparire”.
E Gesù conclude: “hanno già avuto la loro ricompensa, non avranno altro”.
Allora riflettiamo un momento, fratelli: esaminiamoci nell’intimo del cuore, per stabilire se qualche volta anche noi nel fare le nostre pratiche religiose, non cadiamo nella tentazione di cercare la nostra gratificazione. Perché in questo caso, di fronte a Dio le nostre opere di conversione non servono a nulla, sono sterili.
Domandiamoci umilmente e in tutta sincerità “a quale frutto miriamo”, a quale ricompensa aspiriamo, quale gratificazione cerchiamo nel nostro vivere da cristiani.
E dunque, seguendo l’insegnamento che Gesù qui ci ha lasciato, evitiamo che il bene che facciamo, diventi uno strumento di soddisfazione personale, un mezzo di autoaffermazione, una strada per arrivare alla nostra auto-celebrazione.
In questo modo però la nostra ricompensa sta già nel sentirci bravi, buoni, a posto, giusti.
Invece, fratelli, la nostra vita deve mirare soltanto a Dio, perché è Lui la vera ricompensa, perché è per lui, per Lui solo, che noi dobbiamo fare sedaqah, essere operatori di “giustizia”.
E senza pretendere nulla in cambio: non siamo nella condizione di poterlo fare… perché è lui il dìkaion, il giusto, che per primo fa il dikaiùnta, il “giustificante”, nei nostri confronti.
Allora accettiamo riconoscenti quello che Lui vorrà darci, affidiamo semplicemente a lui il frutto del nostro impegno.
Non sappiamo come questo frutto si concretizzerà, ma sappiamo con certezza che esso ci sarà; sarà un frutto di salvezza, di amore, che il Padre continuerà ad effonderci a piene mani e che, se ci pensiamo bene, altro non è che la stessa essenza divina dell’Amore, il suo stesso Spirito vivificante e consolatore, che Egli ha inviato ad inabitare nei nostri cuori.
Solo così ci sentiremo completamente soddisfatti, forti, convinti, umili, sinceri, innamorati di Dio: solo così saremo beati, i “makarioi” delle beatitudini, perché sentiremo dentro di noi la tranquilla, dolcissima sicurezza di aver fatto sedaqah, di aver risposto con dikaiusine all’infinito amore di Dio nei nostri confronti.