giovedì 19 maggio 2011

22 Maggio 2011 – V Domenica di Pasqua

«Io sono la via, la verità e la vita».
Il vangelo di oggi ci riporta alle ore immediatamente precedenti la passione di Gesù. Siamo nel cenacolo, durante l’ultima cena. Dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù fa un lungo discorso di addio: egli sta per andarsene, e lascia ai suoi il suo testamento spirituale, dice le cose più intime, le cose più profonde e care. Giuda è già uscito per tradirlo, e quindi tra non molto le guardie verranno ad arrestarlo; il tempo stringe, tutto ormai è pronto per il “consummatum est” finale. Il fantasma della croce proietta già la sua ombra sinistra lassù, sulla cima del Golgota. Gesù dunque ha ancora molte cose da dire ai suoi: soprattutto vuol far capire bene la portata della sua missione terrena, vuol spiegare ancora una volta il rapporto intimo e indissolubile che esiste tra lui e il Padre. I concetti sono piuttosto difficili; i discepoli annaspano, non capiscono, come appare evidente dai loro interventi: Pietro ha appena finito di dire “Darò la mia vita per te” che Gesù lo raggela predicendogli il suo ripetuto tradimento. Tommaso vorrebbe maggiore chiarezza: “Ma Signore se non sappiamo dove vai, come facciamo a conoscere la strada per raggiungerti?”. Filippo, dal canto suo gli dice: “Signore mostraci il Padre e questo ci basta”. Poveri discepoli! Sono pieni di confusione, di paura. Hanno capito che qualcosa di molto grave sta per accadere, sentono il pericolo; la paura per la vita di Gesù, e per la loro, è ormai palpabile. Un tumulto di domande assilla il loro cuore: “Che ne sarà di noi? Cosa ci accadrà? Dove andremo a finire? Finirà tutto? Ci siamo sbagliati a credere in Gesù?”. Domande più che giustificabili, per le quali si aspettano risposte chiare, rassicuranti: vogliono certezze: “Indicaci la strada; dicci come fare; dacci regole chiare su dove andare, come fare, cosa essere, e noi lo faremo”. Sono proprio spaventati. Il verbo greco tarassw (turbare), indica una profonda agitazione, sono sconvolti: “Gesù tu eri tutto, avevamo messo tutto in te, ci avevi appassionato il cuore... e adesso?”
Dobbiamo capire questi poveri uomini. Non è giusto infierire su di essi, come fa qualcuno, interpretando le loro parole come mancanza di fede, come volontà di prendere le distanze da Gesù, di disconoscerlo, di mettere in discussione gli anni passati insieme con lui. Lo Spirito che illuminerà le loro menti è ancora lontano, e quindi si comportano come possono. Gesù li tranquillizza: “Io me ne vado e voi sarete un po' tristi. Ma tranquilli: vado a prepararvi un posto. Non scappo. Ci rivedremo. Vado e poi torno a prendervi”. In altre parole: “Avete paura perché tutto sembra finire. Sembra: ma non è così. Dietro al buio si nasconde una luce più grande”.
Ecco fratelli miei: questo in sostanza dice Gesù ai suoi, e questo continua a dire a noi ogni giorno. Capite quanto sono importanti per noi queste parole? I pericoli sono tanti, le contrarietà, le sconfitte, il dolore, la paura, sono le nostre compagne di viaggio. Purtroppo non possiamo sottrarci alla paura; non possiamo evitare il dolore. Possiamo però affrontarlo confidando nelle parole di Gesù, perché ogni paura nasconde nel suo profondo una certezza più grande e ogni dolore una gioia più abbondante.
Le parole di Gesù devono rappresentare per noi la nostra ancora di salvezza: in ogni momento difficile della nostra vita, dobbiamo ricordarci chi siamo e chi è nostro Padre. Così, quando non siamo capiti e ci sentiamo attaccati da tutte le parti, facciamoci coraggio e diciamoci: “Niente paura, Lui sa”. Anche se gli altri non ci comprendono, Lui ci comprende, sempre: e questa è una certezza. Quando ci guardiamo allo specchio della nostra anima, e ci succede di vergognarci per quello che siamo o per quello che abbiamo fatto, diciamoci: “Non temere, sei figlio di Dio”. E capiremo che, per quanto in basso siamo caduti, non dobbiamo perdere la speranza del riscatto: possiamo e dobbiamo ripartire, dobbiamo ricominciare, nella certezza del suo amore paterno e materno.
Quando c'è tempesta nel nostro cuore e non sappiamo dove andare o cosa fare, rassicuriamoci: “Non aver paura, c'è Lui”. E con Lui raggiungeremo il porto sicuro. Quando dobbiamo affrontare il giudizio di un superiore, di un capo, di una autorità, che può modificare in parte o anche completamente la nostra vita, dobbiamo ripeterci: “Sei figlio di Dio: egli ti ama, nessuno può farti del male, abbi fiducia in Lui, egli è tuo Padre, ti aiuterà comunque”. E avremo nel cuore una grande pace.
Tutto questo, credetemi, funzionerà! Perché in certi momenti particolarmente forti e difficili abbiamo bisogno anche noi di certezze: dobbiamo allora gridare non una, ma due, dieci, cento volte la nostra fiducia in Dio, di metterci nelle sue mani: a volte lo faremo piangendo, a volte cantando o al ritmo del respiro. E questo, fratelli, è preghiera, questo significa pregare.
Certo la preghiera non è una “bacchetta magica” che ci risolve tutti i problemi: i problemi, sicuramente rimangono, ma in compenso ci dà la certezza che se anche tutto dovesse crollare, anche se dovessimo sbagliare tutto, Lui c'è sempre; e di Lui, di Dio, noi ci fidiamo.
“Nella casa del Padre ci sono molte dimore” dice Gesù; c’è posto per tutti. Ognuno ha il suo posto: un posto personalissimo che non è uguale a quello di nessun altro. Spesso molti si sentono soddisfatti, si sentono nel giusto, in perfetta regola, solo perché fanno quello che fanno gli altri. Dovrebbero invece sentirsi male: perché Dio non crea nessun doppione, nessun duplicato; non esiste un comportamento standard, uguale per tutti. Ogni fotocopia di vita è una vita sbagliata, non realizzata in proprio, non osata. Dio, in ciascuno di noi, è diverso da chiunque altro. Certo dare il buon esempio è importante: abbiamo sicuramente bisogno di vedere e di guardare gli altri per imparare, per capire; ma il Dio che si fa vedere da noi, che si manifesta in noi, che nasce in noi, è altro. Sì, è vero: Egli ci ha creati tutti a sua immagine e somiglianza; l'immagine, un marchio di fabbrica identico per tutti; ma è la “somiglianza a lui”, quella che ciascuno deve costruire in sé, che è per tutti diversa da chiunque altro. È qualcosa di unico, di originale, di personalissimo, un qualcosa mai scoperto prima. Sbagliano quindi quelli che ritengono una “divisione” una “separazione”, il cammino alternativo, diverso dal proprio, per raggiungere la stessa meta; sono cammini che rispondono a chiamate diverse. Come pure sbagliano quelle persone che per “comunione” intendono una assoluta uniformità, un totale appiattimento gli uni gli altri; questa è solo omologazione.
Lo slogan di Dio è: “Ognuno al suo posto perché ognuno ha il suo posto”. Ciascuno ha il suo compito. Ciascuno ha la sua strada: ogni cammino, ogni esperienza, ogni vita, sono unici, è l'originale: non possiamo confrontarli. Viviamo ciò che siamo e troviamo il nostro posto, unico, in questo mondo, perché ognuno è “unico” agli occhi di Dio.
Le vie dunque per arrivare a Dio sono molteplici: c'è chi arriva a Dio attraverso una vita consacrata, monastica e religiosa, e chi arriva attraverso la vita laicale; chi arriva attraverso il lavoro di una diocesi, di una parrocchia, di un monastero, di un istituto e chi arriva attraverso il lavoro di una famiglia; c'è chi arriva attraverso la conoscenza di sé in una vita contemplativa spesa a servizio di Dio, e c'è chi arriva attraverso la dedizione di sé in una vita attiva spesa a servizio degli uomini. C'è chi arriva rinunciando all’amore terreno, amando e unendosi unicamente Dio, e c'è chi arriva amando e unendosi a un altro essere umano, con la benedizione di Dio. E infine c'è anche chi non sceglie nessuna strada, perché non gli interessa arrivare a Dio, non ne ha voglia, pensa di farne a meno: beh, tranquilli: perché in questo caso è Dio che arriva a lui! È lui, il Pastore, che va a riprendersi la sua pecora smarrita.
Evitiamo, fratelli miei, di fare confronti antipatici, quando si tratta di vita di preghiera e di esperienze di fede. Dio non guarda mai la forma, ma il contenuto del cuore.
Se giudichiamo e disprezziamo gli altri per la strada che percorrono, convinti che è la nostra quella giusta, già siamo sulla strada sbagliata, ci siamo messi su una strada che non porta sicuramente a Dio.
Gesù dice: “Io sono la via... la verità... la vita!”; osserviamo l’ordine con cui le nomina, perché non è casuale: Gesù è la via che conduce alla verità, perché solo nella verità una vita è piena, sensata, realizzata, e merita di essere vissuta.
Gesù non dice: “Io ho la strada buona”; dice solo: “Io sono la strada”. Gesù non ha bisogno di darci altre regole, codici, indicazioni stradali da seguire: dobbiamo semplicemente seguire Lui. Gesù è tutto, è il cammino, l'unico, che ciascuno deve percorrere.
A quanti gli chiedevano cosa fare per avere la vita eterna, cosa fare per essere felici, cosa fare per andare al Padre, Gesù a tutti ha sempre detto: “Seguimi”. E questo compendia tutto.
Gesù non dice: “Io ho la verità”, ma dice: “Io sono la verità”. “Io”, soltanto Io.
Ci sono invece molte chiese, molte religioni (o pseudo tali), molti santoni o guru (sul tipo del recentemente scomparso Sai Baba) che si arrogano il diritto di dire: “Io ho la verità, io sono Dio, seguimi e ti farò “avatar” (incarnazione) di Dio”. Siamo seri, non indulgiamo alle stupidaggini! La verità non la si può possedere: la si può soltanto vivere. Non si può mai “avere” la verità; si può al massimo essere veri. La verità per queste persone equivale ad un pacco di conoscenze da applicare a proposito e a sproposito. Per Gesù invece, Verità (lÐqeia, togliere il velo) è scoprire quello che si è, è scoprire la propria realtà intima così com'è.
Gesù non dice: “Io ho la vita”, dice: “Io sono la vita”. Gesù non è una assicurazione stipulata per campare tranquillamente, senza sbalzi o problemi. Gesù è la Vita che dobbiamo vivere, che dobbiamo conquistare: “Vuoi vivere? Vivi!”. Ma non c'è altra possibilità per godere una vita piena, che buttarsi dentro Dio e viverla in Lui.
Sbaglia chi confonde la “vita” con il fare molte cose, con l'avere un sacco di esperienze, con il viaggiare molto: “vivere”, per il Vangelo, non è buttarsi allo sbaraglio, dove capita: ma è sentire, percepire, sperimentare la “Vita” che vive in noi.
E concludo con le parole di Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta!”. Facciamo nostra questa preghiera, fratelli. Facciamo nostro questo accorato invito perché Gesù ci renda partecipi della abbondanza di bene e di amore che il Padre rappresenta. Approfittiamo per sgomberare la nostra mente da tutte quelle immagini fasulle di Dio, che nel corso della nostra vita ci siamo creati per soddisfare il nostro egoismo. Smettiamola, fratelli, di credere in un Dio qualunque, in un Dio imprecisato e vago, in quel Dio addomesticato, di cui tutti più o meno ci siamo fatti un'idea: dobbiamo credere unicamente nel Dio di Gesù. Non facciamo come quelli che sono convinti di credere nel Dio di Gesù, e invece continuano a credere in divinità misteriose e inquietanti, costruite su misura. Il Dio di Gesù è un Dio adulto che ci tratta da adulti; un Dio che non ci allaccia le scarpe, né ci risolve i problemi: ci aiuta ad affrontarli, questo sì: ci spiega anche che molti dei nostri problemi non sono poi così fondamentali da doverli superare ad ogni costo, che la vita ha comunque dei tesori nascosti che siamo chiamati a scoprire. Il Dio di Gesù è un Dio vittorioso nella risurrezione, che ha un piano per la salvezza dell'umanità; che ha un sogno, la Chiesa, i suoi discepoli, che sono chiamati non a salvare il mondo, ma a vivere da salvati, costruendo quel Regno che lui è venuto ad inaugurare; un Regno di giustizia e di pace, di amore e di luce, di sguardo verso l'altrove e verso l’altro che ci vive accanto. Un Dio che continua a venire là dove la sua Chiesa si raduna, un Dio che si rende presente nei Sacramenti e nell'amore che i discepoli si scambiano. Un Dio adulto, dunque, splendido, affascinante, lontano e vicino, accessibile e misterioso, seducente e libero, che svela a ciascuno in particolare, nel profondo, chi siamo e qual è la nostra Via, cos'è la Verità, cos'è la Vita. Ecco, fratelli: cerchiamo di conoscere il Dio che ci ha conosciuti, che ci ha amati da sempre, singolarmente; cerchiamo di non sfuggirgli, di essere attenti quanto più possibile, alle sottili sfumature del suo Spirito, ai sussulti che ci trasmette nell'anima, all'essenziale della nostra esistenza terrena. Mettiamoci umilmente alla scuola del Maestro Gesù, chiediamogli se il Dio in cui crediamo, il Dio che professiamo, che celebriamo,  è veramente il Dio vivificante che Egli ci ha svelato. E non stanchiamoci mai di ascoltare e di meditare la sua Parola, fratelli: misuriamoci con essa; e che essa ci illumini, ci guidi, ci aiuti, ci converta. Amen.


venerdì 13 maggio 2011

15 Maggio 2011 – IV Domenica di Pasqua

«Io sono la porta delle pecore».
Gesù, per spiegare le grandi verità di Dio, usa le semplici immagini del suo tempo. Il recinto era una specie di muretto che circondava uno spazio utilizzato da più pastori. Alla sera ognuno vi conduceva le pecore, che di notte erano guardate da un unico custode. Al mattino il pastore tornava, chiamava le proprie pecore per nome e queste, riconoscendone la voce, lo seguivano fuori dal recinto. Ecco il perché del buon pastore e delle pecore: era quello che succedeva ogni giorno e che tutti conoscevano. Le pecore conoscevano la voce del loro pastore perché tutto il giorno stavano con lui: lui le proteggeva, lui le difendeva, lui le portava al pascolo. Si creava tra di loro un rapporto di conoscenza e di relazione. Oggi a noi, figli della civiltà industrializzata, questa immagine del pastore dice poco: ma a quel tempo riproponeva una situazione molto comune, chiara e comprensibile.
Le parole di Gesù del vangelo di oggi, inoltre, a noi sembrano dolci, tranquille, rassicuranti, zuccherine: forse perché le colleghiamo alle tante immagini di un buon pastore molto patinato, con barba curatissima e capelli fluenti, un grazioso agnellino sulle spalle, il bastone in mano, che precede, con sguardo sognante, un numero sparuto di pecorelle belanti e mansuete.
Ma non è proprio così: le sue sono parole dure, critiche, di aperta denuncia; parole pronunciate in un clima di particolare tensione, in un clima di feroce avversione nei suoi confronti: una situazione molto difficile che, tuttavia, non riesce a condizionarlo; Gesù non si lascia intimidire, non usa guanti di velluto, non parla per mezzi termini, non ha esitazioni, ma colpisce giù, dritto nel segno.
Siamo in prossimità di una delle porte del Tempio, di quella chiamata “Porta delle pecore”; un particolare che sicuramente ha offerto a Gesù lo spunto per parlare di greggi e di pastori. Davanti e intorno a lui c’è schierata tutta la classe religiosa, forte, arrogante, particolarmente agguerrita, sentendosi nel proprio ambiente, in quel nuovo e grandioso tempio ricostruito da Erode: sono gli scribi, conoscitori della scrittura e della Legge, i sacerdoti, detentori di quel che rimaneva del potere giudeo, i farisei, gli ultras della fede, i puri e duri.
E Gesù, con voce tonante, in sostanza dice loro: Avete imprigionato il popolo in un recinto fatto di prescrizioni, di lacci e di lacciuoli, di regole e di interdizioni. Lo avete ridotto a un gregge di pecoroni, costretti ad obbedire senza riflettere. Avete scordato l'essenziale, il volto amorevole del Dio di Israele. E lo avete fatto perché avete tutti il vostro tornaconto in termini di potere, di denaro, di influenza politica, di dignità recuperata. Non vi importa nulla di come e di cosa vive la gente, la giudicate e basta, la usate. Ma la gente non vi ascolta più, parlate due lingue diverse, non ha più fiducia in voi. La gente aspetta un nuovo re-messia, come quel Davide che da pastore è diventato condottiero, senza mai montarsi la testa, senza mai scordarsi la sua origine e la sua missione.
Questo dice Gesù: consapevole della gravità delle sue parole, cosciente della durezza del suo giudizio. La gente è stanca di mercenari. La gente vuole ascoltare altre parole, parole dette con amore, dette con passione, dette con la forza della verità. Le sue parole, appunto. La gente vuole ascoltare il suo messaggio, il suo “Vangelo”. E cosa dice Gesù, il messia-pastore? Che Lui è l’unico pastore in grado di far uscire le pecore dal recinto in cui sono rinchiuse e portarle al Padre. Perché egli solo è il “buon” pastore: anzi egli solo è “
é poimÑn é kalçv
”, come dice il testo greco: “il pastore quello bello”, quello integro, quello capace di amare da adulto, di servire l'umanità, di prendere sul serio il proprio ruolo perché profondamente appassionato del bene dell'uomo. Gesù è il pastore che conduce verso la vita, verso il pascolo, verso il nutrimento; è colui che difende, che protegge dagli attacchi esterni, che aiuta nei momenti di difficoltà; è il riferimento per sapere dove andare e quale strada percorrere.
Gesù è il pastore che chiama le pecore una ad una; immagine bellissima: il suo essere pastore passa attraverso l'intimità del nome di ciascuno di noi. Sembra quasi dirci che per Lui non contano i numeri, i grandi numeri; per Lui contano i nomi, i singoli. I grandi numeri sono belli, danno soddisfazione, ma significano anonimato, estraneità. Gesù conosce ognuno di noi per nome; ognuno viene chiamato individualmente, ognuno si sente conosciuto per nome, amato, convocato, curato, affidato. Ognuno di noi entra nella sua intimità e conosce la sua voce: una intimità così profonda da individuare la sua voce tra migliaia di altre voci.
Per Gesù non contano i ruoli, gli uffici, le gerarchie; per Gesù conta la relazione con lui, conta il riconoscere la sua “voce”. Attenzione: per una volta l'evangelista Giovanni non dice qui “Verbo”, “Parola”, per indicare il Signore, ma semplicemente “Voce”; forse perché si è reso conto che una terminologia più impegnativa poteva confonderci; egli sa perfettamente ciò di cui abbiamo bisogno; l’uomo ha l’assoluto bisogno di sentire la vicinanza costante di Gesù, ha bisogno della sua presenza: e non c'è altro modo che testimoni di più questa presenza, che udirne la sua “voce”.
Per questo, fratelli miei, è così importante l'incontro personale, il conoscere la voce, il dare del “tu” al Signore: per questo dobbiamo recuperare l'importanza della nostra dimensione spirituale, la dimensione affettiva nel nostro cammino di fede: dobbiamo risentire il nostro cuore ardere d’amore, un cuore che, come abbiamo visto domenica scorsa per i due di Emmaus, può riscaldarsi e bruciare soltanto in un rapporto diretto di conoscenza, di desiderio, di fiducia, di amore.
Gesù dunque è venuto a chiamarci per nome, per condurci al Padre. Egli è la porta: e noi dobbiamo passare attraverso di lui, dobbiamo attraversare Gesù per entrare e uscire. Notate bene: egli non dice di essere la “porta dell'ovile”, ma la “porta delle pecore”. Gesù si presenta come colui che noi pecore possiamo incontrare, attraversare, come colui che ci dona accesso ad un mondo “altro”, ad un modo di vedere noi stessi e gli altri completamente diverso. Gesù chiama le pecore per nome e le pecore riconoscono la sua voce, perché è una voce che parla direttamente al cuore, che salva, che riempie, che consola, che scuote, che dona energia, che perdona, che inquieta, che sconcerta, che porta a verità, alla Verità tutta intera.
“Attraversare” Gesù, significa passare per una porta stretta, lo sappiamo; per farlo, dobbiamo essere autentici, essere indifesi come agnelli, essere nudi ma fiduciosi in lui.
Gesù ci chiede di configurarci a lui, di dilatare il nostro cuore, di allargare i nostri orizzonti, di fuggire la piccineria, fosse anche santa e devota; ci chiede soprattutto di perdere la nostra vita per donarla agli altri, come egli ha voluto e saputo fare.
È bello allora che questo Pastore ci conduca fuori. Gesù non è uno che chiude la porta, non è uno che rinchiude dentro, che imprigiona; è il Pastore che fa entrare ma anche uscire. Quante volte, fratelli miei, Gesù ci chiama per nome per farci uscire da quelle situazioni particolari che mortificano la nostra vita, per farci uscire dal nostro io, dalla nostra “chiusura ermeticamente protettiva”, per aprirci agli altri, per guardare all'altro come a un fratello, a una sorella; ci fa uscire dall’eccessiva attenzione per noi stessi, dall’eccessivo ripiegamento su di noi, per aprirci alla gratuità, alla solidarietà, allo spenderci di più per gli altri e un po' meno per noi.
Ma dobbiamo stare in guardia; è Gesù che ci mette in guardia dai ladri e dai briganti: “Stai attento, dice, perché sono molti quelli che vengono in nome di Dio e in nome dell'amore. Molti dicono di venire per il tuo bene: stai attento perché sono briganti e ladri!”.
È questo l’avvertimento del buon pastore, il principio che deve essere fondamentale per la nostra vita: “Chi tenta di rubarci l'anima è un ladro. Chi tenta di rubarci ciò che abbiamo dentro è un brigante. Chi ci imprigiona è un impostore. Non facciamolo entrare! Difendiamoci, se possiamo, oppure scappiamo”. Il vero pastore (genitore, coniuge, prete, confratello, consorella, o amico che sia) entra in noi solo per darci vita, entra perché possiamo crescere, fiorire, evolverci, divenire. Se non fa questo è un ladro: viene per prendere, per sottrarci, per legarci a sé. Il pastore ci invita, ma non ci impone mai nulla, non usa mai la forza; ed è sempre presente nel momento del bisogno; non fugge via come il mercenario. Il ladro invece impone, usa violenza, colpevolizza, ci lega a sé e ci ruba la vita che abbiamo dentro. Il pastore ci conduce alla nostra verità, alla Verità; il ladro ci porta alla sua verità, facendoci credere falso ciò che è vero e vero ciò è falso.
Chi non pratica la carità e la bontà, è un brigante; se qualcuno ci fa sentire cattivi, sporchi, sbagliati, è un brigante; se ci fa sentire idioti, cretini, stupidi, è un brigante; se ci usa per il suo piacere fisico o per i suoi interessi, è un brigante; se ci ruba la gioia di vivere, la nostra personalità e la nostra vitalità, è un ladro.
La vita deve vivere. La vita vuole espandersi. La vita vuole dilatarsi. Noi siamo fatti per crescere sempre più, per realizzarci sempre più, per divenire sempre più ciò che Lui ha pensato per noi. Il pastore è appunto colui che fa rifiorire questa nostra vita; vuole che la nostra vita si espanda, cresca, si realizzi, fiorisca: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza».
Ogni volta che noi non ci difendiamo dai ladri, che non ci proteggiamo, che non lottiamo per noi stessi, che non combattiamo per la nostra vita, che permettiamo agli altri di fare di noi quello che vogliono, noi sviliamo noi stessi, ci trattiamo come se non avessimo valore, come se fossimo una nullità, un oggetto che tutti possono manipolare a loro piacimento.
In certi momenti invece bisogna alzare la voce, farsi forza e lottare con tutte le nostre forze. Dobbiamo difenderci da ladri e briganti, soprattutto se camuffati da pastori.
È un classico: se non lo custodiamo per bene, il nostro tesoro ci verrà inevitabilmente rubato. Ladri e briganti entreranno dentro di noi e calpesteranno tutto ciò che di bello trovano. Guardiamoci intorno, fratelli miei: quanti derubati ci sono nella nostra società; persone che hanno permesso al proprio partner, all’amico, a colui che esse ritenevano un pastore, un fratello, di rubare la loro anima, la loro vita soprannaturale, la loro vitalità, il loro slancio, la gioia di amare Gesù e di essere da lui riamati, il dono preziosissimo della loro vocazione, a cui un tempo erano così tanto legati!
È quindi soltanto su Gesù che dobbiamo contare: è di Lui solo che dobbiamo fidarci, perché è lui l’unica porta del nostro cuore, la porta che dobbiamo oltrepassare per entrare dentro noi stessi e per uscire incontro ai fratelli: perché chi è in contatto con sé stesso è in contatto anche con i fratelli, e chi incontra Gesù, incontra se stesso e gli altri.
Gesù è la porta per entrare in lui, per incontrarlo; ma nel momento stesso in cui lo incontro, egli mi manda fuori, mi fa diverso, mi trasforma, mi cambia, mi manda là dove c’è bisogno della mia presenza; mi apre porte di me che non conoscevo; mi spalanca tutte le stanze della mia anima e del mio cuore, mi apre orizzonti e incontri che prima neppure sognavo.
C’è un metodo per vedere se uno ha incontrato veramente Cristo? Sicuro: se uno rimane sempre lo stesso, insensibile verso gli altri, ottuso e incartapecorito, certamente non ha incontrato Cristo. Se uno è di vedute ristrette, egoistiche, e non va mai oltre se stesso, non ha incontrato Cristo. Se uno va regolarmente a Messa, segue attentamente la liturgia, si accosta alla Comunione, partecipa a tutte le funzioni, ma non è capace di perdonare al coniuge, ai figli, al confratello, alla consorella, agli amici, non ha incontrato Cristo. Quelli che si comportano in questo modo sono persone che vogliono entrare nell'ovile da un'altra porta che non è quella di Gesù e di questi il Signore dice: “Sono ladri e briganti; anche se sono Pastori emeriti, Dottori della legge, Teologi, Preti, Frati, Suore, Laici impegnati, sono tutti ladri e briganti!”.
Gesù dunque è la porta: e allora approfittane, esci passando attraverso di Lui, vai, apriti, incontra, impara, non fermarti, non temere, grida, annuncia la sua Parola: Vangelo vuol dire “buona nuova”. È buona proprio perché è sempre “nuova”, non è mai la stessa. Gesù fu ucciso non perché portò un messaggio buono, ma perché portò un messaggio nuovo. Il nuovo ci terrorizza, ci fa paura? Il nuovo ci toglie le sicurezze che avevamo prima? Vuol dire che non passiamo attraverso Cristo. Se uno non diventa nuovo, non si rinnova, è già vecchio in partenza, ha già smesso di vivere. Il Qohèlet dice: «Tutto invecchia». O ti rinnovi o muori. La gioventù non è un'età della vita, ma è una dimensione dell'animo. Ci sono giovani già vecchi e ci sono vecchi sempre giovani. Chi non si rinnova invecchia
[...impara, Mario!]
. Anche una Chiesa, anche una parrocchia, anche una comunità religiosa, possono diventare vecchie. Come? Se i loro componenti sono “vecchi”: se predicano cose che non interessano a nessuno, se non toccano l’anima delle persone, se non parlano al loro cuore, se danno soltanto risposte inutili a domande che nessuno pone, se non sanno rinnovarsi, se non sanno lasciarsi sollecitare dal presente; ecco, fratelli miei: allora abbiamo una chiesa, una parrocchia, una comunità religiosa vecchia, destinata ad estinguersi.
Bisogna lasciarsi interrogare dai tempi, dialogare, confrontarsi, saper cogliere i veri problemi, i veri bisogni del nostro tempo. Lo ha fatto Gesù, lo hanno fatto i Santi, dobbiamo farlo anche noi, con il loro stesso spirito, sempre e comunque passando per la famosa “porta”.
Dobbiamo metterci continuamente in gioco, fratelli miei, senza presunzione; dobbiamo avere il coraggio di far vivere in noi ciò che deve vivere, di far nascere ciò che deve nascere, ciò che è nuovo, con tutta la fatica e il travaglio che comporta. E dobbiamo avere il coraggio di far morire ciò che deve morire, di porre fine a ciò che è finito, di dichiarare concluso ciò che non ha più senso di esistere, ciò che rischia di frapporsi tra noi e il buon pastore, occludendo il passaggio attraverso la “Porta”. Ci vuole molto coraggio per entrare nella porta del tempo presente! Ma se entriamo attraverso di Lui, attraverso Cristo nostra Porta, allora tutto diventerà più semplice.
E saremo felici, fratelli: sì, perché allora ci sentiremo non pecoroni, non beoti, non rassegnati, non storditi dal delirio della contemporaneità, ma amati e chiamati per nome, portati a salvezza e libertà dall'Unico che ci conosce! Perché allora ci sentiremo veramente Chiesa di Dio, sogno del risorto, passione dell'incarnato, tormento dei discepoli! Ci sentiremo Chiesa, capace di Dio, chiamata a vegliare con sincero amore il gregge dell'umanità, guardiana non mercenaria, ansiosa di indicare il Cristo a chi cerca la vita in abbondanza!
In questa domenica siamo chiamati anche a pregare per i nostri pastori: il papa, i vescovi, i sacerdoti: perché possano essere sempre di più a servizio della Chiesa, avendo come modello Gesù che ha dato la sua vita per tutti. Stiamo loro vicini con il nostro affetto, con la nostra preghiera, sapendo che, come noi, anche loro sono persone in cammino. Preghiamo poi in particolare per le vocazioni di speciale consacrazione a Dio: il Signore tocchi i cuori dei giovani perché sappiano ascoltare e rispondere con generosità alla Sua chiamata. Amen.



mercoledì 4 maggio 2011

8 Maggio 2011 – III Domenica di Pasqua

«Resta con noi, Signore, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto».
Quello di oggi è uno dei brani più conosciuti e più belli dell'intero vangelo. «In quello stesso giorno, il primo della settimana....»; un giorno ricco di grazia, che ha riproposto più volte la realtà del Cristo risorto. Dopo la sconvolgente esperienza di Maria di Magdala e la corsa di Pietro e Giovanni al sepolcro, ormai vuoto; dopo il misterioso ingresso del Signore risorto nel cenacolo, a porte chiuse; dopo il dono dello Spirito e della pace, in quello stesso giorno, Gesù risorto, non più soggetto a condizionamenti spazio temporali, raggiunge lungo la strada due discepoli incamminati verso Emmaus. Si allontanano dalla città che uccide i profeti. Sono scoraggiati, tornano a casa loro, scappano. Sono tristi, i discepoli, e parlano delle loro disgrazie. Meglio, si lamentano, si caricano a vicenda. La tristezza è palpabile, la delusione e l'amarezza sono profonde, insostenibili, terribili. C'è un crescendo nel parlare: dallo sfogo lamentoso, attraverso l'approfondimento degli eventi, fino al dibattito acceso, alla vera e propria discussione con Dio. Gesù si avvicina e cammina con loro. Ma essi non lo riconoscono; del resto, come potrebbero? Non alzano mai lo sguardo da loro stessi per poter incrociare quello del Signore. Sono talmente pieni del loro “sacrosanto” dolore da non accorgersi che il motivo della loro sofferenza non esiste più! Sono totalmente incapaci di uscire dalla spirale vorticosa di quel loro nulla, in cui sono precipitati dopo la scomparsa di ogni loro sicurezza.
Quante volte, fratelli miei, succede lo stesso anche a noi: siamo depressi, ci lamentiamo di tutto e di tutti, niente ci sta bene: invecchiando poi, non sopportiamo più nulla; perfino le chiacchiere amichevoli, lo scambio di qualche impressione, l'amabile conversare del nulla, la vacuità del dire, ci irritano enormemente; nulla di soddisfa. Con Dio, poi, è un disastro. Diventiamo pretenziosi, quasi insolenti. E Lui, di fronte alla nostra idiozia e al nostro vuoto assordante, tace. Tace suo malgrado, perché Dio ama la discussione con noi; egli stesso la modera, vuole che ci lasciamo coinvolgere nella riflessione, ci chiede di indagare. Dio, rispettoso e discreto, ci considera capaci di conoscere, di arrivare a conclusioni ragionevoli e positive; ci chiede di essere audaci nell'interrogarci. Egli non ci vuole cristiani beoti: vuole gente convinta, battagliera. Ma noi ─ non appena egli si mette al nostro fianco lungo il percorso della vita, quando con tutta la sua amorevolezza cerca di farci capire che in fondo il nostro dolore non è poi così insuperabile ─ diventiamo immediatamente ombrosi, insofferenti; ci offendiamo: “ma come si permette Dio di mettere in discussione il nostro dolore? Che ne sa lui della nostra situazione attuale? Delle nostre preoccupazioni, dei nostri problemi? Che ne sa lui delle condizioni in cui siamo costretti a vivere oggi? della disoccupazione, della difficoltà di arrivare a fine mese, del tirare su dei figli, della situazione internazionale, delle guerre, del terrorismo, della crisi economica, della fame, del malcostume generale che ci fagocita? Perché mai vuole scuoterci da questo nostro dolore? In fin dei conti il dolore ci rassicura, ci dona identità, ci identifica… e in questo nostro percorso di autodistruzione folle, finiamo col costruirci una nuova identità. Finiamo col coltivare il dolore per se stesso: “Ho perso un figlio. Sono un infartuato. Ho il cancro. Mio marito mi ha lasciata...”. Il dolore diventa il nostro segno di riconoscimento: così ci presentiamo, così vogliamo che ci riconoscano, sperando dagli altri, magari, un cenno di benevolenza, un gesto di compassione…  Siamo degli illusi, fratelli miei. Quando finalmente capiremo che dobbiamo fuggire il dolore come la peste? Il “sepolcro” deve essere abbandonato; deve essere  superato, non usato come segno di riconoscimento.
“Cosa è successo?” Chiede il risorto. È mai possibile che questo intruso sia tanto “svanito” da non conoscere, almeno per sentito dire, quel che è successo a Gerusalemme?
Sono offesi, frastornati, i discepoli; e ne hanno tutti i motivi, poveracci. Sono rimasti improvvisamente orfani della loro guida, su cui avevano riposto ogni speranza. E gli parlano della passione, della croce, della morte di Gesù: ma nulla; Lui, che li ha affiancati, sembra non ricordarsene; Lui che ha superato tutto questo, sembra non sapere  nulla.
“Che è successo?” ripete. Eh sì, “noi speravamo”... speravamo in un futuro di libertà….
“Speravamo”. La speranza si riferisce sempre ad un futuro: declinarla al passato, come fanno loro, significa ammetterne il totale fallimento. Purtroppo è sempre difficile accettare un fallimento: il fallimento di un progetto, di un'azienda, di un gruppo parrocchiale, della propria vocazione, della propria vita. Il fallimento della speranza porta inevitabilmente alla morte interiore. La delusione, poi, è la punta estrema del dolore: è un dolore sordo, che suscita rabbia, che aggiunge alla sofferenza la consapevolezza dell'inganno; un dolore che ci rimette completamente in discussione, fin nel più profondo, che ci destabilizza, che ci impedisce di riprendere coraggio. Delusioni, speranze abbandonate ad agonizzare, senza che nessuno riesca ad abbreviare tale sofferenza. Eppure lì, proprio lì in fondo, alla soglia dell'annientamento, Dio ci ascolta e ci aspetta, cammina con noi.
“Noi speravamo” insistono i discepoli: ma siamo stati proprio degli stupidi a voler seguire il Nazareno, a credere che fosse lui il Messia! Che ingenui! “Noi speravamo”: ma ci siamo illusi, siamo stati degli idioti abissali, non abbiamo giustificazioni! La nostra speranza è morta su quella maledetta croce. È morta e sepolta con Gesù, nel suo sepolcro.
Ebbene, fratelli: quanti ne abbiamo incontrati di discepoli come questi, tristi e rassegnati! “Noi speravamo”, continuano a ripetersi. E intanto non si accorgono che il Signore, creduto morto, cammina con loro.
Si aspettano comprensione, i discepoli, da questo compagno occasionale: si aspettano compassione, condivisione. Ottengono invece uno schiaffone in pieno viso.
Stolti e tardi di comprendonio”, dice loro lo straniero; “Stupidi e idioti! Ignoranti!”.
La sua provocazione li scuote, li costringe ad alzare lo sguardo. È ora di capire, loro come noi, che non sempre chi ci dà una carezza ci vuole bene; non sempre chi ci dà uno schiaffo ci vuole male. A volte una bella scrollata ci distoglie dal dolore e ci aiuta a vedere le cose in maniera diversa. Essi si scuotono ma continuano a non capire: “cosa sta dicendo questo sconosciuto? Come si permette?”
Sciocchi e incapaci di capire le Scritture”, insiste lui. E giù a spiegare il senso di quella sofferenza, della Sua sofferenza, della sua passione e morte, aiutandoli a rileggere gli ultimi eventi in una chiave diversa, più ampia, a leggere il dolore alla luce del grande disegno di Dio. I discepoli del risorto, non possono, non devono fermarsi alla croce, alla morte!
Le parole del vangelo di Luca sono qui taglienti, quasi insostenibili: il problema, fratelli, il problema vero, non è l'assenza di Dio, il fatto che Dio improvvisamente sia mancato al nostro sguardo, ma la nostra incapacità di riconoscerlo, la nostra tragica miopia. Siamo tutti talmente concentrati su noi stessi, sui nostri problemi, da non essere in grado di riconoscerlo neppure quando cammina accanto a noi, quando ci aiuta ad attraversare la strada, ad evitare le buche e i pericoli del percorso.
Si, fratelli, perché egli è costantemente con noi; Egli cammina sempre accanto a noi: e ci spiega pazientemente l’incomprensibile: ossia come Dio abbia accettato di cambiare, di adeguarsi, di abbandonare la rassicurante eternità, la perfetta autosufficienza, l'immobilità beata, per sporcarsi le mani con noi; per questo Egli cammina, si è messo in viaggio; un viaggio lunghissimo: dall'eterno al finito, dall'essere Dio al diventare uomo, dalla perfezione assoluta all'incarnazione. E tutto ciò per amore, soltanto per amore. Dio non è un masso granitico, immobile e compatto, ma soffre, cambia idea, decide. Ama e, si sa, l'amore è sempre in movimento; l'amore chiede sempre sofferenza.
Gesù dunque spiega loro le Scritture, apre loro l'intelligenza; e, attraverso la Parola, essi possono finalmente capire cosa è veramente successo... È un momento di grande tensione, questo: i due ─ pur essendo stati amabilmente insultati ─ ascoltano col fiato sospeso. Non fanno gli offesi, anzi... percepiscono che questo tale li sta aiutando ad interpretare gli eventi, a capirli in profondità. Il cuore di questi tiepidi discepoli finalmente si scalda. Poi il tepore divampa, e diventa fuoco incontenibile.
Lo conosciamo anche noi a volte questo fenomeno, vero, fratelli? La Parola meditata si insinua dentro di noi, ci inquieta, ci apre, ci obbliga alla verità. E più troviamo argomenti contrari a questa verità che avanza, più i nostri granitici pregiudizi vacillano, scricchiolano, finché alla fine dobbiamo arrenderci! Il nostro dolore, che paradossalmente ci gratificava, viene spazzato via dalla Parola che ci riscalda e illumina. Allora tutto acquista senso, tutto acquista una nuova dimensione. La nostra vita, riletta alla luce del grande progetto di Dio, assume un valore completamente diverso. È come se Gesù ci dicesse: “Non cercatemi nei fatti straordinari. Non inseguite continuamente ciò che sembra magico e miracoloso, perché non mi trovereste. Cercatemi piuttosto lungo i percorsi quotidiani, nei gesti elementari, nelle piccole cose. Fermiamoci insieme sulle Scritture, figli miei; fidatevi della mia Parola, non di quelle degli uomini... a volte forse non succederà niente, ma a volte sentirete un turbamento profondo, un ardore improvviso che infiammerà il vostro cuore. Ebbene, quel turbamento sono io a crearlo, perché sono io che parlo nel vostro cuore”.
Ecco, fratelli, Gesù ci educa così; ci insegna a non rivolgere la nostra fede allo stupore dei miracoli, ma al fascino che nasce da ogni parola e da ogni gesto che trasmette un messaggio d'amore. E allude proprio a questo quando, chiedendogli di restare con noi, ci mette in condizione di superare la tristezza, la solitudine, il vuoto, la delusione...
Arrivati intanto al villaggio, Gesù con un sorriso saluta i discepoli. Ma essi, ancora incerti e impauriti, vengono presi nuovamente dal panico: “Come, te ne vai già? Resta con noi, è buio, fermati!”. E il Signore si ferma, e resta con loro. Si ferma, e resta con noi. Il Signore non ci abbandona, fratelli: il Signore si ferma eccome! Egli vuole fermarsi, Egli vuole restare con noi: è sufficiente che noi glielo chiediamo!
E Gesù entra con loro; Gesù entra con ciascuno di noi: entra nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nelle nostre chiese, nelle nostre comunità, nei nostri cuori martirizzati.
E qui, all'interno, avviene il miracolo: durante la cena, allo spezzar del pane, gli occhi dei due si aprono, e lo riconoscono! «Ma egli sparì dalla loro vista».
No, Signore, non andartene. Non ora. «Mane nobiscum Domine, quoniam advesperascit, et inclinata est iam dies ─ Rimani con noi Signore, perché si fa sera e il giorno sta per finire!». Non lasciarci mai soli, Signore, soprattutto quando il giorno della nostra vita sta per concludersi!
È proprio così, fratelli; il Signore non ci può abbandonare, non può lasciarci soli, mai! Lo ha promesso: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo(Mt 28,20).
Cristo risorto, vivo, cammina infatti al fianco di ogni uomo, gli parla con le parole della Scrittura, si dona a lui nell'Eucaristia, lo nutre, lo illumina, lo guida attraverso tutte le Emmaus del mondo, verso quella salvezza che non conosce più sere, perché illuminata perennemente dalla luce del mattino di Pasqua, l'unica luce che non tramonta. Crediamoci, fratelli, e comportiamoci di conseguenza.
E termino con le parole del Beato Giovanni Paolo II: «Quando si è fatta vera esperienza del Risorto, nutrendosi del suo corpo e del suo sangue, non si può tenere solo per sé la gioia provata. L'incontro con Cristo, continuamente approfondito nell'intimità eucaristica, suscita nella Chiesa e in ciascun cristiano l'urgenza di testimoniare e di evangelizzare... Il congedo alla fine di ogni Messa [l’Ite missa est] costituisce una consegna, che spinge il cristiano all'impegno per la propagazione del Vangelo e l'animazione cristiana della società. Per tale missione l'Eucaristia non fornisce solo la forza interiore, ma anche, in certo senso, il progetto. Il cristiano che partecipa all'Eucaristia apprende da essa a farsi promotore di comunione, di pace, di solidarietà, in tutte le circostanze della vita». (Lettera apostolica “Mane Nobiscum Domine”, 2004, nn. 24.25.27, passim).
Questa dei due è la nostra esperienza, questa è la nostra vita. Confusi e scoraggiati, quando meno ce lo aspettiamo, ci succede qualcosa. Qualcuno si fa nostro compagno di viaggio e ci aiuta a comprendere, ad interpretare, a vedere e a saper ascoltare. Nel nostro cuore si accende di nuovo la fiamma della speranza, lo zelo per il Signore, il fuoco dell'amore.
Fermiamoci allora, fratelli, e mangiamo tutti insieme il Pane del banchetto; condividiamo l'amore; muniamoci del mantello e del bastone, e di nuovo incamminiamoci per portare ad altri l’amore del Risorto!
Donaci per questo, Signore, occhi che possano scorgere la tua presenza, che vedano la bellezza della vita, anche tra le mille difficoltà e delusioni della vita; donaci orecchie che sappiano ascoltarti e che possano riconoscere la tua voce tra i tanti rumori quotidiani; donaci ogni giorno compagni sinceri, guide sicure con cui condividere il nostro cammino; donaci, Signore, di riconoscerti in ogni momento della nostra esistenza e, dopo le nostre Eucaristie, di contagiare chi ci circonda con la gioia incontenibile e l’amore ardente che solo l'incontro con Te può dare. Amen.

martedì 26 aprile 2011

1 Maggio 2011 – II Domenica di Pasqua

«Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Ad una settimana dalla risurrezione, dobbiamo deciderci di abbandonare il sepolcro e tutto ciò che ci parla di morte. Come Maria e le donne, che per annunciare la risurrezione di Gesù, hanno dovuto abbandonare in fretta il luogo della sua sepoltura; hanno dovuto superare il loro dolore, la consapevolezza della loro impotenza di fronte al violento incalzare degli eventi che hanno decretato la morte del loro Maestro. Come gli apostoli che hanno dovuto smettere di pensare alla morte, per guardare al Risorto e convertire il loro cuore. Ecco, così anche noi, con la stessa determinazione, dobbiamo abbandonare i nostri "sepolcri", quelle tombe di morte che rinchiudono i nostri cuori: quelle tombe che purtroppo ci sono così tanto care, così curate, così vezzeggiate. È questo il presupposto, fratelli, è questo il punto di partenza della nostra nuova vita di cristiani, risorti con Cristo. Piangere sulla tomba di Gesù morto, e fermarsi lì, non facciamo certo un piacere a Gesù: non è il sepolcro che va amato, fratelli; ma è Cristo il risorto, che va amato, è il Cristo vincitore sulla morte! È a lui che dobbiamo guardare, a lui dobbiamo pensare, in lui dobbiamo credere, come hanno fatto Pietro e Giovanni nel trovare soltanto un lenzuolo svuotato, afflosciato.
Ed oggi, ecco la conferma di quella risurrezione: «Pace a voi! Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore». Oggi, radunati nel cenacolo, I discepoli hanno ritrovato finalmente il loro maestro. Vivo. Una gioia incontenibile.
Ma Tommaso non era con loro. «Tommaso, abbiamo visto il Signore! È vivo!» Tommaso indietreggia: «No, se non lo vedo, se non vedo le sue ferite io non crederò!». Ha ragione, il buon Tommaso. Lui, il santo “tosto”, il santo “tutto d’un pezzo”, il santo degli “impiccioni”, dei “ficcanaso”, non si lascia coinvolgere tanto facilmente: non capisce, non sa farsene una ragione, soffre terribilmente in silenzio, ma per nostra fortuna, resta al tuo posto. Senza sentirsi migliore, senza considerarsi più obiettivo e più intelligente degli altri, resta lì, umilmente e basta. E ha fatto bene.
Otto giorni dopo, infatti, il Maestro torna apposta per lui. Eccolo qui, dunque, il Risorto. Leggero, splendido, sereno. Sorride, emana una forza travolgente. Gli altri lo riconoscono e vibrano. Tommaso, ancora titubante, lo guarda: la gola secca, senza riuscire a spiccicare una parola. Viene verso di lui ora, il Signore; gli mostra le mani, trafitte. «Tommaso, so che hai molto sofferto. Anch'io ho molto sofferto: guarda qui». E Tommaso allora crolla, cede. La rabbia, il dolore, la paura, lo smarrimento si sciolgono come neve al sole. Si butta in ginocchio ora, e bacia quelle ferite: la tensione di tutti quei giorni improvvisamente si tramuta in un pianto liberatorio: e piange, Tommaso, e insieme ride felice: «Mio Signore! Mio Dio!». Riviviamo la scena, fratelli, immaginando di essere anche noi lì presenti! La stessa commozione assalirebbe anche noi; noi, gli increduli di duemila anni dopo, ai quali lo stesso sentimento di Tommaso ancora oggi riesce a serrare la gola, a far riempire di lacrime gli occhi. Del resto, come è possibile rimanere impassibili e indifferenti, meditando queste righe del vangelo? Poche righe, è vero, ma assolutamente determinanti per la nostra fede, per la nostra vita spirituale. L’assenza di Tommaso, quella volta, è stata veramente salutare, soprattutto per noi: per noi discepoli “che non abbiamo visto”, che facciamo ancora tanta fatica a metabolizzare completamente il messaggio della risurrezione; per noi, gli incoerenti della Chiesa di oggi.
Ma Gesù ci ama troppo per lasciarci in preda ai dubbi, al dolore, alle incertezze; egli, il Vivente, rassicura in maniera inoppugnabile, attraverso l’incredulità di Tommaso, la nostra incredulità, con lo stesso amore di allora. E lo fa per tutti: sia per gli entusiasti, gli innamorati folli, che lanciano eroicamente il loro cuore ad di là di qualunque ostacolo, che aderiscono senza esitazione alcuna a Cristo, come per quelli come noi, i più deboli, per quelli che hanno sperimentato sulla propria pelle il fallimento della loro vita di fede; per quelli che si sentono scandalizzati dall'incoerenza della Chiesa, per quelli che sono stati feriti dalla spada del pregiudizio e della calunnia; per i crocifissi e gli oltraggiati di oggi: e per tutti Tommaso è l’invito a non farsi sopraffare dalla fragilità di una fede distratta, ma a fissare coraggiosamente lo sguardo sullo splendore del Risorto; è l’invito a restare sempre più legati, fedelmente e convintamente, al grande sogno del Maestro che è la Chiesa: anzi a contribuire noi stessi alla sua conversione, partendo dalla nostra personale conversione.
L'atteggiamento di Gesù verso Tommaso e gli altri discepoli, come appare evidente, è un atteggiamento straordinario di amicizia, di perdono, di amore: un perdono per tutti, che è iniziato già sulla croce, quando tra i tormenti ha gridato: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” (o che si fanno tra loro!). Si, fratelli: Gesù Cristo è il perdono stesso di Dio fatto persona!
Ma torniamo al testo. In Giovanni leggiamo: «La sera di quello stesso giorno (della Resurrezione), il primo dopo il Sabato, Gesù venne, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi». In un altro Evangelista leggiamo: «Pace tra voi», come se Gesù volesse sedare una accalorata discussione. E di cosa mai potevano discutere gli Apostoli tra di loro, radunati nel Cenacolo dopo la morte di Gesù, avendo sentito che Gesù era risorto? Forse, dopo essersi ripresi dallo smarrimento dei primi giorni, nel rivivere ed analizzare i momenti più convulsi del dramma che aveva tragicamente distrutto ogni loro prospettiva per il domani, saranno sicuramente volate parole grosse, delle accuse reciproche, dei rinfacciamenti impietosi. Sappiamo infatti che i dodici non erano un “cuore solo e un'anima sola”: ognuno di loro aveva il suo carattere, ognuno la pensava a modo suo, ognuno considerava l'altro come un possibile concorrente... Eppure Gesù in tutta la sua predicazione, ma soprattutto nell'ultima cena, aveva sempre insistito su un punto: “Io voglio che vi vogliate bene; che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi; voglio che stiate insieme superando tutti i vostri singoli interessi...”.
Nonostante ciò Gesù, arrivando da loro dopo la risurrezione, si limita a dire con grande dolcezza: “Pace a voi!, pace tra voi!”. Invece di reagire, invece di perdere la pazienza con tanti zucconi, invece di essere lui stesso a rinfacciare, giustamente, le magagne di ciascuno, dice soltanto: “Pace tra voi”! E Gesù ne aveva di motivi da “rinfacciare”, eccome! Poteva per esempio “rinfacciare” a Pietro il fatto di aver sfoderato la spada, contro le sue raccomandazioni; poteva rinfacciargli il rinnegamento davanti alle portinaie, nonostante glielo avesse predetto per filo e per segno, e lui, gradasso, avesse spergiurato che lui, no, non lo avrebbe mai tradito...
Poteva “rinfacciare” ai tre che erano vicini a Lui nell'Orto degli Ulivi di essersela data a gambe levate, appena avevano visto la mala parata! E proprio uno di loro, Giacomo, aveva chiesto apertamente di potersi sedere alla sua destra nel Regno; e alla domanda di Gesù: “Potrai bere questo calice?” aveva risposto immediatamente: “Sì!”; salvo poi, al dunque, scappare e rendersi anche lui latitante come gli altri. E Giovanni? Che dire di quel Giovanni, il prediletto di Gesù, che lo aveva sì seguito sul calvario insieme a Maria, ma che, durante la cena, pur avendo perfettamente capito chi fosse il traditore, non è intervenuto immediatamente per fermare Giuda, senza neppure informare gli altri perché almeno loro lo facessero? Anche Giovanni aveva le sue colpe: evidentemente, forse con un po’ di egoismo, aveva scelto la parte che gli era più congeniale, quella più “soft”, quella cioè di stare accanto a Gesù, piuttosto che adottare un comportamento deciso, coraggioso, di rottura, esponendosi in prima persona pur di fermare il traditore e scongiurare in qualche modo la crocifissione: eppure Gesù non rimprovera neppure lui.
E gli altri Apostoli? Sono tutti fuggiti di nascosto, senza avvisare nessuno, senza neppur tentare di organizzare alla meglio quella parte di popolo che amava Gesù, e che sarebbe sicuramente insorta a Suo favore. Quegli apostoli che invece di reagire, hanno preferito starsene al sicuro, e guardare da lontano gli eventi: né più né meno di come hanno imparato a fare oggi tanti “discepoli” della sua Chiesa, tanti che promettono, promettono solennemente, con grandi celebrazioni e giuramenti, ma che poi alla prima difficoltà, con magistrale faccia tosta, non mantengono la parola, si rimangiano tutto!
Purtroppo la storia della Chiesa si ripete nei tempi; per alcuni versi è sempre uguale. Gesù del resto ci ha messo in guardia anche su questo: «I figli delle tenebre sono più scaltri dei figli della Luce»: mentre cioè i figli della Luce dormono o, meglio, vivono in “attesa” di non si sa che cosa, tranquilli e sicuri di sé, gli “altri” si danno da fare; e quando verrà il giorno della fioritura si domanderanno: “Ma come! Noi abbiamo seminato solo il grano, perché è cresciuta anche la zizzania?”.
Eh sì, fratelli miei: spesso noi cristiani facciamo la figura di quelli che non si accorgono di nulla! Dormiamo, soprassediamo, aspettiamo l’iniziativa degli altri; nel frattempo il nemico semina la zizzania del male, delle offese, dei litigi, insinua dubbi, getta fango sui nostri principi, sulla nostra fede; con il risultato che arriviamo a chiudere la stalla quando i buoi sono già fuggiti!
Ma torniamo ancora una volta al vangelo: Gesù dunque, arrivando nel Cenacolo, avrebbe avuto mille motivi per fare un sacco di rimproveri a tutti, ma invece che fa? Dice: «Pace a voi, pace tra voi». Gesù non rinfaccia niente! Non lo fece allora e continua a non farlo oggi: Gesù (fortunatamente per noi) non rinfaccia mai niente! Egli sa che ciascuno di noi ha un grande bisogno di sentirsi amato, perdonato, di sentirsi incoraggiato: egli ci conosce profondamente, sa tutto di noi: egli conosce di noi cose che nessun altro può e potrà mai conoscere: cose che soltanto noi e Lui conosciamo. E lui, nonostante tutto, ci ama veramente; continua ad amarci, sempre!
Capite l’importanza di questo atteggiamento? Per noi, fratelli, essere certi del suo perdono, del suo amore, è vitale; perché in tal caso vengono a cadere tutte le nostre scuse, le nostre attenuanti, di qualunque natura esse siano: come quelle di riconoscerci realmente colpevoli, di ammettere le nostre responsabilità, le nostre debolezze, i nostri peccati (oggi molto fuori moda!), di non ricambiare l’amore viscerale di Dio. Ma è soprattutto fondamentale, perché in questo modo la sincera consapevolezza del nostro peccato si fonde nel cuore di Gesù, viene superata, vinta dalla certezza del suo costante perdono. Ecco, fratelli: questo sentimento, questo convincimento, deve essere alla base della nostra religiosità; in particolare in questi tempi di “modernità”, in cui la società del consumismo ha eliminato completamente ogni concetto di peccato contro Dio; oggi il “peccato” morale non esiste più; è stato sostituito dal surrogato di “colpa”, legata alla trasgressione di leggi umane, la cui gestione è affidata soltanto alla giustizia umana, spesso parziale e corruttibile. Noi cristiani invece siamo sintonizzati su un altro livello; sappiamo bene che qualunque cosa facciamo contro il nostro prossimo, chiunque esso sia, lo facciamo anche contro Dio: «Quello che hai fatto a tuo fratello lo hai fatto a me». E parlando ai suoi discepoli, insiste dicendo: “Continuate ad amare i peccatori, a dir loro che il perdono di Dio è grande; perdonate anche voi come ho perdonato io. A voi affido questo incarico, difficilissimo per un uomo: quello di perdonare; ecco, quello che voi stentate a fare, io vi chiedo di farlo per conto di Dio!”.
Ecco, questa è la nostra fede, fratelli, e da questa fede dobbiamo trarre le nostre certezze, quelle fondamentali, quelle che devono sorreggere la nostra vita; dobbiamo credere sempre, ciecamente, con tutto il cuore. Certo, questo atteggiamento non è automatico, non lo si può pretendere da nessuno, magari condizionandolo al fatto che oggi viviamo in un contesto tradizionalmente cristiano, pieno di Chiese e celebrazioni. Non basta dire “io credo, io ho conosciuto il Signore, io sono stato salvato da lui, ecc.” per ottenere che anche gli altri credano come noi. E nemmeno possiamo pretendere di convincere gli altri sbandierando ai quattro venti quel poco che facciamo, osannandoci da soli, magari facendolo in funzione della loro ammirazione e approvazione. Agli occhi degli altri possiamo anche sembrare delle persone di fede autentica, granitica, persone con una vita profondamente coerente. Ma è davvero così? È così che siamo realmente, fratelli? Facciamo attenzione però, perché con Dio non possiamo bluffare! Noi sappiamo bene invece, fratelli miei, che non sempre quello che appare è tutto bello, facile, gradevole, coerente! Spesso dubbi atroci assalgono anche noi; spesso tutto ci sta per crollare addosso, tutto viene messo in discussione. Tanto da doverci chiedere onestamente: “Ma quello che faccio è volontà di Dio, oppure è soltanto una mia scelta di vita: “mia” e non “di Dio”? Non è che a volte il mio desiderio di “apparire” compromette tragicamente, il mio “essere” reale?
Quante volte infatti, fratelli miei, siamo portati a contrabbandare per volontà di Dio quello che invece siamo solo noi a volerlo, quello che fa comodo soltanto a noi! A chi non è capitato? A chi non continua a capitare?
Allora prendiamo in mano la nostra vita, fratelli. Impariamo da Tommaso l’umile e sincera adesione al Risorto. Tocchiamo anche noi le Sue ferite, segno indelebile della Sua passione, del Suo sacrificio cruento per noi: siano esse sicurezza, forza, vitalità, conforto. Siamo disponibili anche noi, come Tommaso, a metterci continuamente in gioco, a radicare nell’amore del Suo cuore trafitto le nostre certezze, a rinforzare in esso la nostra troppo debole fede.
Non esibiamo false certezze, fratelli; non temiamo di dimostrare la nostra debolezza, la nostra insicurezza, la nostra vulnerabilità: evitiamo l’arroganza e la presunzione del mondo, dimostriamo invece di essere dei discepoli che si pongono ancora tante domande, che devono fare i conti ogni giorno con dubbi ed errori. E soprattutto nutriamo sempre tanta, tanta fiducia in Lui: certi che nel momento del bisogno, egli continuerà a mostrarsi a ciascuno di noi, invitandoci a toccare quei terribili e indelebili segni del Suo amore infinito per l’umanità. Siamone certi: Egli continuerà a rivelarsi, a tutti singolarmente, e lo farà nei tempi e nei modi più opportuni: come solo Lui sa fare. Amen.


mercoledì 20 aprile 2011

24 Aprile 2011 – Pasqua di Risurrezione del Signore

«Egli doveva risorgere dai morti».
Maria di Magdala, colei che aveva così tanto amato Gesù durante la sua vita da non poter accettare l’idea della sua morte, di prima mattina, quando era ancora buio, si reca al sepolcro. È frastornata, Maria. Nella sua mente sono ancora vive le immagini di una morte straziante, la morte del suo Gesù. Arrivata al sepolcro, ancora assorta nei suoi pensieri, vede da lontano che la pietra che chiudeva l’ingresso del sepolcro non c’è più: è stata tolta. Rimane sbalordita: non pensa, non controlla, non ragiona; la sua reazione è immediata; il suo cuore batte all’impazzata ma corre, corre veloce, trafelata e piangente, da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quel Giovanni che Gesù prediligeva. Tra i singulti di pianto, non si fa capire molto; ma di fronte a tanta disperazione, i discepoli si rendono conto che qualcosa di grave doveva essere successo, e corrono; corrono anch’essi affannosamente, seguiti da Maria, nel silenzio di una città ancora immersa nel sonno.
Il sole inizia pigramente a fare capolino sull’orizzonte, rischiarando appena la pietra color ocra dei fabbricati.
I mercanti più mattinieri stanno iniziando pigramente ad esporre le loro merci sui banchi, dopo il giorno di riposo del sabato.
I tre non se ne curano e continuano a correre in fretta: lasciano al loro fianco la cava di pietra in disuso, quel Golgota che i romani avevano destinato come luogo per le esecuzioni capitali e le crocifissioni; i pali verticali, come alberi rinsecchiti, svettano sinistramente in alto, aspettando nuovi condannati. Il sangue rappreso di Gesù tinge ancora di rosso il legno scuro.
Nulla li distrae, corrono sempre, senza sosta; ormai il fiato manca; la tunica impaccia la corsa. Pietro, meno giovane, in debito di ossigeno, rallenta un po’, mentre gli altri scendono rapidamente oltre la cava. I soldati romani di guardia sono spariti, la tomba di Giuseppe di Arimatea effettivamente è aperta: la pesante pietra che ne bloccava l'ingresso è ribaltata, rotolata di lato.
Giovanni, giunto per primo, si ferma e aspetta; le tempie gli pulsano, ansima rumorosamente: Maria aveva ragione: e ripensa, socchiudendo gli occhi, a come, con il volto sconvolto e la voce singhiozzante, lo avesse tirato giù dal letto. Arriva anche Pietro. Giovanni lo guarda lungamente e, in segno di rispetto, gli cede il passo: abbassano entrambi la testa ed entrano. Nulla. Non c’è nulla. Gesù è veramente scomparso. Solo il lenzuolo, come sgonfiato, afflosciato, e il sudario, il telo che fasciava la testa; giacciono entrambi abbandonati, esattamente al loro posto, come se il corpo di Gesù si fosse dissolto. Nient’altro. Gesù è scomparso e nessuno sa che fine abbia fatto! Ma loro, i discepoli, lo sanno bene: è risorto come aveva detto loro.
Ecco: questa è la Pasqua cristiana, fratelli. Gesù, nostra Pasqua, è veramente risorto. Quella lunga corsa verso Cristo, quella tomba inesorabilmente vuota, sono le icone della giornata di oggi. E quella tomba vuota, è ancora lì, a Gerusalemme, muta testimone della risurrezione di Cristo. Vi hanno costruito sopra un'immensa basilica, oggetto di continui pellegrinaggi per oltre due millenni. A più riprese uomini miscredenti hanno tentato di distruggerla, pezzo per pezzo. Ma non ci sono mai riusciti: è ancora lì al suo posto. Ricoperta di marmi preziosi, divisa e contesa (idiozia degli uomini) tra mille confessioni cristiane che ne rivendicano la proprietà. Ma la stoltezza degli uomini non ci deve interessare, fratelli. Quello che più importa è che quella tomba è sempre lì: esattamente dove la trovarono Maria, Pietro e Giovanni. Ed è ancora vuota.
«Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» Egli chiederà poi ai discepoli che lo piangono.
Questo è il punto, fratelli  e sorelle: perché anche noi ─ che ci riteniamo suoi discepoli ─ ci ostiniamo a cercarlo tra i morti?
Se veramente vogliamo trovarlo, dobbiamo cercarlo là dove Lui c’è! Di sicuro non tra i morti... tra coloro che uccidono la speranza con il pregiudizio; tra coloro che inquinano la vita e le relazioni umane; tra gli indifferenti, gli egoisti e i pessimisti; non lo troveremo certamente tra coloro che si nutrono solo di beni e non di amore, tra gli incapaci di perdonare e tra chi cerca la vendetta; non lo troveremo tra coloro che non hanno speranza e non credono in un futuro di pace per tutti. Non lo potremo mai trovare tra i morti...
Egli è vivo! È nel pane spezzato insieme, è nella parola amica che ridona coraggio a chi si sente escluso, è in un gesto di carità anche semplice, è in un parola di perdono; è in un povero che ci invita ad amarlo, è in un piccolo che cerca la nostra mano, è nella pace che a piccoli passi cerchiamo di costruire attorno a noi; è nei nostri confratelli e nelle nostre consorelle che, grazie alla sua Parola, costruiscono giorno per giorno il Regno di Dio...»
Egli è morto e risorto, fratelli. E con la Sua morte e risurrezione, Egli ha sconfitto anche la nostra di morte, ha sconfitto qualunque morte. Lui, Vita immortale, Dio nudo, appeso, osteso, evidente, Dio sconfitto e straziato, Dio crocifisso, morto e deposto sulla fredda pietra di una tomba, lì non c’è più, è risorto, è il vincitore.
Dico “risorto”, fratelli. Non rianimato, non ripresosi, non vivo nel nostro ricordo, o pie amenità del genere. Gesù è davvero vivo, risorto, presente per sempre, in carne ed ossa.
Non è facile credere a questa notizia, lo so bene. Avremo modo, in questi prossimi cinquanta giorni, di verificare la fatica che hanno fatto gli stessi apostoli per convertire il loro cuore a questa sconcertante verità. Se non capiamo, però, almeno crediamo fermamente: perché un giorno di sicuro saremo in grado di capire tutto.
Nell’attesa di quel giorno, in questa nostra difficile vita, apriamoci dunque alla gioia della risurrezione. Facciamolo con i nostri fratelli. Gioiamo con loro!
Soprattutto crediamo con loro, perché è la fede che ci aiuta a superare qualunque nostro dolore, qualunque nostra difficoltà; soltanto la fede può aiutarci a gioire, ad aspirare alla vera gioia immortale. Condividere il dolore è più semplice, perché nel dolore l’uomo compie le sue esperienze; è nella sofferenza che tutti troviamo un conforto naturale nella vicinanza di qualcuno, nella vicinanza di un consolatore, di uno che ci capisce e che ci dimostra il suo amore, la sua compassione (da “cum pati”, soffrire insieme, la condivisione della sofferenza). Ma gioire no; gioire è un’altra cosa; non lo sappiamo fare tutti; gioire è difficile, perché significa uscire dal proprio dolore, dalle proprie difficoltà, uscire dal proprio io: non amarlo, ma superarlo, abbandonarlo: spersonalizzarsi per condividere la gioia dell’altro con l’altro.
La gioia va conquistata attraverso la croce, attraverso la risurrezione: soltanto tra i vivi, con i vivi. Perché Cristo, nostra gioia, è tra i vivi. Smettiamola dunque di cercarlo ancora tra i morti: quante facce tristi nelle nostre celebrazioni, quando ci isoliamo nella tomba del nostro egoismo; quando non le condividiamo e viviamo con la comunità dei fratelli; quante preghiere e devozioni infelici nelle nostre comunità, perché consumate senza amore, con la morte nel cuore! Coraggio fratelli: siamo discepoli di un Dio vivo! Siamo discepoli di un Dio che ha fatto esplodere d'amore il suo sepolcro! Non siamo più schiavi della morte, non siamo più prigionieri senza scampo: Gesù è risorto! Gesù è vivo! Tiriamola fuori questa gioia,  facciamo che la nostra vita diventi occasione di incontro di altri uomini e donne consapevoli che il loro Dio è vivo, palpitante d'amore! Sì, perché il Signore è risorto anche per te: per te che quest’anno fai Pasqua da sola, senza tuo marito, recentemente scomparso; per te che ti consumi nella preghiera perché tuo figlio lotta ancora tra la morte e la vita. È risorto per te che stai su una carrozzella, perché un ubriaco ti ha investito. È risorto proprio per te che dopo anni di fatica e di sofferenze, regali a quanti ti amano i tuoi sorrisi più belli. È risorto per te che fai Pasqua lontano dalla tua famiglia, lontano dai tuoi cari; e anche per te, che una famiglia non ce l'hai più o non l’hai mai avuta. È risorto per te che in tutta la tua vita non l’hai mai cercato, ma che oggi sei qui, davanti a Lui; forse non lo sai, ma Gesù è vivo e se anche tu ti sei dimenticato di Lui per tanto tempo, Lui non si scorda mai di nessuno.
«Scimus Christum surrexisse a mortuis, vere! ─ sappiamo che Cristo è risorto dai morti, veramente! ». Risorto perché tutti potessimo risorgere: «Agnus redémit oves: Christus ínnocens, Patri reconciliávit peccatóres ─ L’Agnello ha redento le pécore: Cristo innocente, ha riconciliato i peccatori al Padre» (Cfr. Sequenza).
Se siamo convinti di questo, capiremo allora che la Pasqua  al di là delle uova di cioccolato e delle campane a festa è la vittoria dell'amore, la pienezza della vita.
E concludo: fratelli miei, la scommessa terribile, di un Dio incatenato, percosso, deriso, morto crocifisso, vittima sacrificale che ha offerto la propria vita per la redenzione delle sue creature, è finalmente superata, vinta. Tutto si è compiuto: la morte è stata annientata dalla Vita «in un furibondo duello»; Cristo è risorto! A noi, ora, di credere, di vivere da risorti, di seguirlo, come i discepoli, “nella Galilea” del nostro mondo.
Noi, discepoli affannati nella corsa, discepoli sempre in ritardo rispetto alla forza dirompente di Dio, dobbiamo ora accettare la sfida della fede; dobbiamo smetterla di cercare il corpo del Cristo tra i morti; dobbiamo smetterla di piangerci addosso e di lamentare un Dio assente. Gesù è risorto fratelli. È qui, ora è sempre al nostro fianco! Gioiamo allora, e viviamo, cantiamo, preghiamo, testimoniamo di fronte a tutto il mondo Cristo, nostra Pasqua! Amen.

Buona Pasqua a tutti, amati fratelli.
Buona Pasqua a chi mi sta leggendo, in qualunque parte del mondo si trovi.
Buona Pasqua ai tanti consacrati e consacrate che hanno scelto di servire Dio: non siate calcolatori, non risparmiatevi, non accontentatevi di fare solo il dovuto: tuffatevi nell’amore infinito e gratuito del Risorto, attingetene a piene mani e riversatelo sui cuori aridi di chi non capisce o non vuol capire…
Buona Pasqua agli amici che conservano la fede in queste orribili città moderne che divorano e omologano tutto e tutti.
Buona Pasqua ai tanti cercatori di Dio, così diversi eppure tutti toccati dalla stessa Parola che ci cambia.
Buona Pasqua a chi ostinatamente ama senza risultati.
Buona Pasqua a chi sta crescendo dei figli, tra tante fatiche e sacrifici, conservando comunque il buonumore.
Buona Pasqua a chi è in lutto, a chi ha perso una persona amata, senza la quale nulla in questa vita sembra avere più alcun senso.
Buona Pasqua a chi sente di avere sbagliato tutto nella vita. Ricominciare non è mai troppo tardi.
Buona Pasqua a chi lotta per la vita e sa che, forse, questa è l'ultima, prima che la malattia lo sconfigga.
Buona Pasqua a tutti voi, discepoli del Maestro che, come me, siete fragili e un po’ distratti: coraggio, Gesù è davvero risorto. Ascoltiamolo! Seguiamolo! Amiamolo!

Questo è il mio augurio per tutti voi.


mercoledì 13 aprile 2011

17 Aprile 2011 – Domenica delle Palme

«Osanna, benedetto colui che viene nel nome del Signore».
Domenica delle Palme. Domenica dell’ingresso solenne di Gesù in Gerusalemme, accolto da una folla festosa e plaudente. Una domenica in cui la Chiesa rivive la gloria, il rivelarsi di Dio, che sul dorso di un asinello, animale di pace, entra in ogni Gerusalemme umana, ed il suo compromettersi totale, drammatico, che si concluderà sulla croce, per liberarci da ogni male. Dovrebbe quindi essere una domenica di gioia, di festa, di partecipazione attiva; invece che tristezza certe processioni di oggi: un ripetitivo copione annuale di un corteo sgangherato, carico di parlottii e risatine, tragica esibizione di incredulità e di indifferenza (pure ‘sta parata ci voleva alla messa di oggi!), in cui lo sventolio dell’ulivo “miracoloso” (a me dammene tre rami perché non si sa mai!) costituisce purtroppo la massima espressione di una fede rattrappita e asfittica, oggi ahimè troppo diffusa.
Del resto anche noi, che abbiamo scelto di seguirlo più da vicino, anzi, che siamo stati scelti da una sua specifica chiamata, che ci professiamo suoi amici, forse, siamo talmente abituati alla morte di Dio, talmente riempiti di formali riflessioni e meditazioni, di stanche prediche sulla salvezza, di svogliate “lectio” quaresimali male assorbite, che ci siamo convinti di avere tutto chiaro, tutto colto, tutto imparato. Non ci serve null'altro. E assistiamo ancora una volta al dono supremo di Dio come se fosse una cosa dovuta, un evento banale, quasi abitudinario, presente sì nei nostri cuori, ma debole, scontato, inutile.
Peggio: ci fermiamo alla crosta, ascoltiamo e diciamo parole di cui non conosciamo veramente il significato, che ci scivolano addosso, che non ci toccano più di tanto.
Gesù è morto per noi. Ma nessuno sente più il bisogno di questa salvezza.
Egli è morto per i nostri peccati. E noi stiamo attenti solo a sottolineare i peccati degli altri.
Ha donato se stesso per noi. E noi non sappiamo che farcene di questo dono.
Avessimo almeno il coraggio di tornare a quei giorni, di riviverli, di lasciarci interrogare e scuotere! Avessimo il coraggio di penetrare dentro i nostri Vangeli, di toglierli dalla patina di incenso e di pura esteriorità che li avvolge, per guardare fisso negli occhi il Nazareno che ha deciso di donarsi fino in fondo per ciascuno di noi!
Oggi ci viene riproposto quello spettacolo: tutto è pronto, i protagonisti sono al loro posto. Ha inizio la morte di Dio.
Domani inizia la grande settimana, la più grande. La settimana piena di stupore e di sangue, di amore e di emozioni. Inizia la settimana Santa.
Anche quest’anno ci siamo arrivati, fratelli, come ogni anno. Pronti o meno, consapevoli o meno: è finito il deserto, il percorso della nostra “conversione”, il tempo dell'essenziale, il tempo della riscoperta di un Dio bellissimo, che non punisce, ma che come un Padre straordinario non giudica, anzi fa festa con noi. Un Dio diverso, un Dio difficile da accettare, un Dio esagerato.
Siamo arrivati: e – come ogni anno – ci fermiamo davanti all'inaudito, all'inimmaginabile: giorno per giorno, in questa settimana, vivremo le ultime ore di vita del Maestro, ne celebreremo i sentimenti, ci siederemo a guardare, a stupirci, ad ascoltare.
Dio muore, fratelli, Dio muore. Dio muore proprio per me, per noi!
E oggi ci accostiamo a una delle lezioni più belle che l'umanità abbia mai avuto: prepariamoci a rabbrividire!!! Gesù ci spiega, donando la sua vita, morendo sulla croce, cosa vuol dire amare. Amare: radice del verbo morire! No, non mi sono sbagliato! Gesù lo ha dimostrato al mondo: amare è morire.
Ma andiamo con ordine.
Oggi dunque Gesù entra a Gerusalemme trionfalmente. La gente applaude, agita in alto i rami strappati dalle palme e dagli ulivi, stende i propri mantelli al passaggio del Rabbì di Galilea. Piccola gloria prima del disastro, fragile riconoscimento prima del delirio. Gesù sa, sente, conosce ciò che sta per accadere.
Troppo instabile il giudizio dell'uomo, troppo vaga la sua fede, troppo ondivaga la sua volontà.
Ma che importa? Sorride, ora, il Nazareno e ascolta la lode rivolta a lui e che egli rivolge al Padre. Messia impotente e mite, energico e tenero, affaticato e deciso.
Non entra a Gerusalemme a cavallo di un puledro bianco, non ha soldati al suo fianco che lo proteggono, nessuna autorità lo riceve: entra in città cavalcando un ridicolo ciuchino, ricordando a noi, malati di protagonismo, che il potere è tale solo se collegato al “servire”, che la gloria degli uomini è inutile e breve.
Osanna, figlio di Davide, Osanna nostro incredibile Dio, nostro magnifico re.
Osanna dai tuoi figli poveri e illusi, feriti e mendicanti, Osanna re dei poveri, protettore dei falliti, Osanna!
Oggi la tua Chiesa innalza a te il grido di lode; santa e peccatrice, riconosce in te l'unica ragione di vivere, l'unica ricerca, l'unico annuncio, Osanna maestro amato.
Matteo si cala nel racconto, descrive meticolosamente la passione, racconta le ultime ore di battaglia, racconta dello scontro titanico tra il Dio rifiutato e la tenebra incombente che suggerisce a Gesù (a ragione?) di abbandonare l'uomo al suo destino.
Dopo, tutto diventa miracolo. È piena di inattesa dolcezza la morte di Dio.
Chiudiamo gli occhi, smettiamo di leggere e pensiamo.
Sono molti i personaggi che affollano questo racconto e si muovono intorno a Gesù arrestato, processato e condannato...
Ci sono dentro anch'io: mi riconosco un po’ in tutti questi comprimari. Non ne vengo fuori bene: la nitida verità, così come appare, mi riporta nell’anima il gusto acre e salato del rimorso. Mi sento coinvolto prima di tutto come “credente”. È vero, sono un credente tiepido, un credente del “quando mi fa comodo”, del “quando mi serve”: tuttavia mi risulta impossibile considerare questa come una storia qualunque, una storia del "c'era una volta...” una storia insomma in cui alla fine, senza far nulla, tutto si risolve in mio favore, “e vissero felici e contenti”. No, fratelli. Non è così. Questa è una storia straordinaria che ci deve coinvolgere in pieno, drammaticamente: nella mente, nel cuore, nella vita; oggi, domani, sempre: lo vogliamo o non lo vogliamo; ci sia o non ci sia la sua immagine a ricordarcelo: perché il Cristo in croce è marchiato a sangue nel nostro cuore!
Sono un “apostolo”. Uno di quelli che Gesù chiama a preparare e vivere la sua ultima cena per poi continuarla anche quando lui non ci sarà più. Ma mi dimentico che è la cena dell'amore e della condivisione, e mi perdo a discutere quanto valgo, nella continua ricerca di essere il primo, il più grande... Mentre Gesù mi ricorda che il vero potere è servire, e la vera grandezza è farmi piccolo tra i piccoli, povero tra i poveri.
Sono Pietro. Ho tanta voglia di credere e di rimanere fedele alla promessa fatta a Gesù. Ma basta il cenno di una serva qualsiasi per farmi prigioniero della paura. Basta poco e mi dimentico che Gesù ha bisogno di me. Lui con il suo sguardo mi riempie gli occhi di lacrime, e la mia faccia indurita cercherà poi di sciogliersi nell'emozione profonda del suo perdono.
Sono Giuda. Quante volte con un bacio ho tradito Gesù. Tradisco la sua fiducia, tradisco il suo amore di Padre; e nel momento in cui gli sono più vicino con il corpo, nell’Eucaristia, gli sono ancora lontanissimo con il cuore... C'è ancora spazio di perdono per me?
Sono Pilato. Anche se cerco di liberare Gesù perché qualcosa mi dice che è innocente..., mi lascio condizionare dal mondo. Non ascolto più la mia coscienza (che è il luogo vero dell'incontro con Dio) ma ascolto solo quello che viene da fuori di me, dalla gente, dal potere, dai pregiudizi...
Sono uno della folla che grida "Crocifiggilo, crocifiggilo". Quando invece qualche giorno prima ero li a osannarlo per chiedergli una guarigione e un miracolo. Come sono veloce a cambiare idea! Come sono facile a farmi influenzare dalla mentalità comune e dai "si dice...". Ma Gesù sulla croce, invece di maledirmi, dirà: "Padre, perdonalo, perché non sa quel che fa..."
Sono il Cireneo. Preso per caso e senza preavviso, aiuto Gesù a portare la sua croce che per un piccolo tratto diventa come mia. Mi servirà per imparare ad essere disponibile sempre, ogni volta che qualche derelitto ha bisogno di un sostegno, anche momentaneo? È vero, non gli risolverò il problema, ma almeno gli farò sentire una vicinanza amica...
Sono il buon ladrone, crocifisso vicino a Gesù. Sento che questo disgraziato è li per me e io con lui. Quando verrà il giorno in cui il dolore e la caducità della mia carne piegherà la mia illusione di immortalità, ti prego, Gesù, fammi sentire quella stessa promessa, fammi sentire nel cuore e nella mente la tua vicinanza e la tua pace. Il dolore non vince, anche quando è grande. Ma tra le tue braccia di Padre, sentirò il paradiso vicino a me...
Dunque Pietro, uno degli apostoli, uno della folla urlante, Giuda, Pilato e via dicendo...: sì, fratelli, dobbiamo riconoscere, purtroppo, che noi tutti siamo un pò questi personaggi.
Allora, riusciremo ancora a stupirci in questa Pasqua?
O sarà per noi soltanto la celebrazione di una vecchia storia sepolta nel passato?
Accetteremo con entusiasmo l'invito di Gesù di entrare e di accompagnarlo nella sua storia di salvezza?
Ebbene, fratelli cari, non c'è altra strada per risorgere, che ricominciare: sempre. Ogni anno, ogni mese, ogni giorno, ogni ora. Ogni nuova caduta deve essere occasione per dare nuovo senso alla nostra vita, una nuova dimensione, un nuovo percorso. Dobbiamo farci carico delle nostre difficoltà, delle nostre sconfitte, delle nostre debolezze: è la nostra croce. Dobbiamo farcene carico senza lasciarci schiacciare; dobbiamo abbracciarla questa croce; dobbiamo superare tutta la sua drammaticità, e trasformarla in occasione di salvezza, di felicità, per entrare come nuovi nella nuova dimensione di vita per Cristo, in Cristo, con Cristo.
Allora capiremo, fratelli e sorelle: allora capiremo che è così che siamo amati, che è così che siamo accolti. Approfittiamo di questi giorni per meditare con maggior intensità la passione di Gesù: non rendiamo inutile il nostro pensare, non riduciamoci ad essere famelici di piacere, di evasione, gente senza valori, senza riferimenti. Non sradichiamo la nostra fede per seminarvi sogni privi di speranza. Guardiamo con fiducia a Lui e capiremo che è Lui l’unica strada da percorrere, l’unica strada in grado di cambiare il mondo.
Meditiamo la sua passione: e non potremo che restare ancora una volta allibiti, costernati: perché assisteremo ancora una volta allo spettacolo della morte di un Dio, che si dona totalmente a noi.
Venerdì, inginocchiandoci davanti al crocifisso, sussurriamogli nel silenzio del nostro cuore:
"Signore eccomi, sono qui. Ti prego, fammi capire.
Come posso rimanere cieco e sordo di fronte a tanto tuo amore?
Come posso rimanere indifferente davanti a tanta tua sofferenza?
Come posso pensare che questa tua morte non mi salvi, che sia stata inutile?
Grazie, Gesù, per tanto amore.
Io credo, Signore, che tu sei il mio Dio di salvezza.
Io credo, Signore, che imparare ad amare significa, anche per me, imparare a morire per l'altro".
Buon cammino dunque fratelli e sorelle, in questa settimana santa.
Santa, perché tutti dobbiamo uscirne un po’ più santi, nella gioia del Cristo risorto. Amen.

giovedì 7 aprile 2011

10 Aprile 2011 – V Domenica di Quaresima

«Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?»
Bella domanda. Come siamo messi in fatto di fede? Riusciamo a superare il significato di morte corporale, di dolore, di separazione, di privazione, nella prospettiva di un’altra vita, una vita di contemplazione beatifica di Dio, di unione eterna con Gesù? È questo il punto. Perché oggi, ultima tappa della nostra conversione quaresimale (tra 15 giorni saremo insieme al Cristo risorto, vincitore della morte), il vangelo ci parla proprio di morte, di vita, di amicizia, di commozione, di tristezza, di dolore, di “silenzio di Dio” di fronte alle nostre tragedie.
Giovanni descrive, come al solito, con grande ricchezza di particolari, quanto è successo a Betania, ai suoi amici Marta, Maria, Lazzaro. Un testo chiaro, comprensibile, che offre via via anche la spiegazione di quello che Gesù fa e dice.
Accennavo più sopra alla “conversione”. Ed è proprio in questa chiave che dobbiamo fare una prima lettura del testo, perché non si può parlare di conversione, di una conversione duratura, se non si va alla radice, se non rivediamo il nostro modo di pensare, le nostre convinzioni, il nostro modo di porci di fronte alle realtà ultime dell’umana esistenza. Dobbiamo andare oltre alla paura che l’idea della morte corporale proietta nel nostro intimo: perché c’è un’altra morte, meno esteriore e appariscente, meno scenografica, ma altrettanto e forse più traumatica: una esperienza di morte che ci paralizza nell’anima, che la ingiallisce, che vanifica ogni nostro slancio di vita; una grande ubriacatura di “presente”, di mondo, di falsa libertà, di egoismo, di divertimento, che ci inocula “nausea” per il passato e fatua “esaltazione” per il futuro, portandoci ad un progressivo allontanamento da Dio; una grave disaffezione nei suoi confronti, una indifferenza che ci porta a disertare le chiese e a riempire piuttosto i centri commerciali, per saziarci esclusivamente di “avere”, di “ora e subito”, di immediato, di godibile, avendo ormai perso ogni percezione del nostro “essere” con Lui. Purtroppo, quando ce ne rendiamo conto, quando ci “convertiamo”, il nostro grido a Gesù ─ come nel vangelo ─ è quasi espressione di rabbia: “se tu fossi stato qui con me, non ci sarebbe stata morte!”. Un grido ad un Dio ritenuto assente, ad un Cristo considerato impotente ormai a soccorrerci. Capite a quali conseguenze ci porta la nostra cieca ingratitudine? Quanta prosopopea e quale ignoranza mettiamo nelle nostre recriminazioni!
Abbiamo calpestato i suoi consigli, abbiamo ignorato il suo amore, non abbiamo tenuto conto della sua Parola, che ci diceva: “Io sono la risurrezione e la vita”. Nel nostro delirio di perdizione e di disinteresse lamentiamo pretestuosamente un Dio lontano, un Dio assente, gettandogli quasi una sfida: condizionando il nostro ritorno a Lui, il nostro ripensamento, la nostra conversione, ad una sua “visibile” compartecipazione al nostro pianto: vogliamo vederlo piangere sul nostro pianto, vogliamo sentirlo dire: “togliete la pietra”, vogliamo sentirlo gridare: “vieni fuori!”.
È vero: Gesù davanti alla morte di Lazzaro si commuove, piange, si unisce al dolore e al lutto delle sorelle. Egli non può accettare tanto dolore e disperazione per la scomparsa dell'amico e compie il miracolo della risurrezione. Poteva dire a Marta ed a Maria: «Non piangete. Ritroverete vostro fratello nella vita eterna». Invece no. Lui che aveva il potere di farlo, lo risuscita. Certo, con lui al nostro fianco è tutto più facile. Veramente. Ma è “più facile” solo nella misura in cui noi rispondiamo alla sua domanda iniziale: “Credi questo?”. Quindi nessun diritto, come vorremmo noi; nessuna pretesa, nessun merito vantato; ma fede, tanta fede. Tutto il resto è fatua ebbrezza di personalismo.
La risurrezione di Lazzaro è un segnale forte per la nostra fede, per la nostra speranza. Anche noi risorgeremo, sicuramente. La vita che viviamo è un rapido passaggio, e la nostra stessa morte non è definitiva, in quanto destinati ad una vita che non tramonta, alla vita eterna. Nella Pasqua ormai imminente celebriamo infatti Gesù che risorge dalla morte e ci apre il passaggio a questa visione di eternità. Anche noi risorgeremo e saremo immortali, in seno al Padre, nel tripudio dell’amore.
Ecco perché non dobbiamo guardare alla morte, in tutta la sua tragicità, come all’unico motivo della nostra angoscia, del nostro pianto, delle nostre preoccupazioni, della nostra commozione. Gesù non si è commosso soltanto di fronte alla morte di un amico. Si è commosso anche per le folle che non avevano da mangiare: ed ha moltiplicato i pani ed i pesci. Si è commosso di fronte ai lebbrosi, ai paralitici, ai ciechi, ai sordi, agli zoppi, agli indemoniati: e li ha guariti. Si è commosso davanti alla donna adultera che stava per essere lapidata: e l'ha salvata. La morte fisica è pertanto soltanto il simbolo di numerose altre morti altrettanto dolorose che incombono anche oggi sull'uomo.
Di conseguenza, il nostro discorso cristiano di fronte a tante tragedie, non può limitarsi ad essere semplicemente consolatorio. Il Vangelo non ci dice: «Rassegnati, tanto non puoi farci nulla». Gesù si impegna a fondo per ogni sofferenza dell'uomo, né più né meno come per l'ultima e definitiva, la morte: Egli infatti comanda a Lazzaro di risorgere, per dimostrarci che, con l'aiuto di Dio, non esistono limiti al nostro impegno di solidarietà contro qualunque tipo di morte. C'è un dovere di compartecipazione: il dolore dei nostri fratelli non può lasciarci indifferenti. Dobbiamo avere «un cuore grande»: perché nulla di quanto succede nel mondo deve essere estraneo ai discepoli, a coloro che seguono le orme di Cristo. Soltanto se ci commuoviamo e facciamo quel che possiamo per gli affamati, i disoccupati, i malati, i sofferenti, i bambini abbandonati, le famiglie senza casa, solo allora potremo credere a buon diritto che anche noi risorgeremo dai morti. Altrimenti la nostra speranza è abusiva. È la fede che ci deve restituire in pieno all'uomo, ci deve porre sul sentiero delle sofferenze umane con maggiore solidarietà e speranza. Guai se la fede nella nostra risurrezione dai morti ci portasse ad avere minor compassione e solidarietà con i vivi. Non sarebbe più fede, non sarebbe la fede che aveva Gesù. Credere nella vita eterna, ci deve portare ad amare la vita, a lottare per la vita, affinché il diritto alla vita sia riconosciuto a tutti, ad ogni livello. Vivere, è un dono di Dio; e Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi. Cristo è la risurrezione e la vita. È la mia risurrezione, è la mia vita. È la forza della risurrezione per me e per tutti.
Questo vangelo, in definitiva, è un inno alla vita; ci dice che la vita è più forte di tutto. Perché la vita vuol vivere, vuole esprimersi, vuole espandersi, non si rassegna mai e non si dà mai per morta. Quando tutto sembra finito, la vita ci crede ancora; quando tutto sembra esaurito o morto, la vita è capace di nascere e di sbocciare nella maniera più incredibile o inaspettata. Gli alberi sono fatti per crescere per svilupparsi; le gemme sono fatte per germogliare e per fiorire; gli uomini sono fatti per crescere come persone, per esprimere tutto il loro potenziale interiore e l'amore che contengono. La vita vuole venire fuori, vuole uscire, vuole esplodere, “vuole vivere”. Quando ci sentiamo piegati dal peso del dolore, dell’affanno, delle colpe, dei giudizi taglienti delle persone; quando in certe giornate nere tutto ci sembra negativo, il malessere sembra dilagare, il tormento della malattia, della morte sembrano soffocarci, allora ascoltiamo quella voce, lontana ma autoritaria, che ci dice dentro di noi: “Vieni fuori, non lasciarti schiacciare”; “Vieni fuori, non permettere che ti impediscano di vivere”. “Vieni fuori dal sepolcro in cui ti hanno posto, vivi la vita”. Quando vediamo la primavera che ritorna dopo la morte dell'inverno, e la vita si riapre come per meraviglia e per incanto, e dove quello che era brullo torna a riempirsi di colori, noi ci rendiamo conto che la vita è più forte della morte. Quando percepiamo dentro di noi la vicinanza, la presenza protettiva e concreta delle persone care che sono già morte, noi comprendiamo che la vita è più forte. Quando vediamo le persone che cambiano, che diventano diverse, che evolvono, che diventano mature, che stanno in piedi sulle proprie gambe, che ritornano ad essere felici dopo esperienze tragiche, noi sentiamo che la vita è più forte. Si, fratelli, la vita è indistruttibile. Perché è l’amore che la dona, è l’amore che la alimenta.
Ma attenzione, dobbiamo stare molto attenti, perché se è vero che l’amore dà vita, è anche vero che c’è un “amore” che può dare morte, che può uccidere la “vita”. Dire sempre “Io lo faccio per amore”, talvolta può essere pericoloso: potrebbe non avere alcuna garanzia di amore. Perché? Perché per un presunto amore si può anche distruggere, picchiare, umiliare, prendere in giro, tormentare una persona; perché c'è un amore che fa vivere e uno che uccide, c'è un amore che rende liberi e autonomi e un amore che incatena.
Quando amiamo troppo egoisticamente, in maniera esagerata, senza compostezza mentale, il più delle volte non amiamo affatto: perché inconsciamente siamo dominati dalla paura di rimanere soli, di non essere a nostra volta degni di amore, di non valere niente, di essere ignorati. Le nostre paure, in nome dell’amore, ci portano ad attaccarci morbosamente all'altro, ci convincono che senza di lui non potremmo vivere; e non ci accorgiamo che intanto l’altro soffoca. Quando per esempio il marito sorveglia strettamente la moglie ed è geloso all'inverosimile, non la fa vivere, ma morire. Quando il papà pretende in nome dell’amore di sostituirsi al figlio in tutto e per tutto, non fa sicuramente bene al figlio, perché lo rende insicuro. Quando una mamma dice: “Lo faccio io, ti preparo io, vengo io, ci sono io, ci penso io”, dimostra di non amare il figlio, perché lo rende un incapace, un disadattato. La mamma che vuole sapere per filo e per segno ogni passo della figlia, legge di nascosto il suo diario, fruga nei suoi cassetti, non la fa assolutamente vivere; la fa morire, perché le toglie la sua dignità di persona. Chi interviene continuamente dicendo cosa fare o non fare, cosa è bene o non bene, come va fatto o non fatto, non agisce per amore, ma uccide nell’altro qualunque possibilità di espressione personale. L’amore non consiste nel voler fare tutto, nel dare tutto, nell’imporre continuamente la nostra presenza: l’amore è amare, senza esibizionismi, in silenzio, sempre pronti a intervenire, senza imporre la nostra personalità, senza prevaricare sull’altro. Sempre solleciti, ma nella discrezione. Perché se il nostro amore lega, costringe, ingabbia, si sostituisce, imprigiona gli altri, non è amore vero, ma è un amore che uccide.
E concludo: a tutti i “Lazzari”, a tutte le vittime dell’ignoranza, della violenza, dell’odio, del peccato, dell’egoismo, delle proprie debolezze, delle proprie paure irrazionali, Gesù dice: “Uscite fuori”. Cioè: “Non siate rinunciatari passivi, non permettete a nessuno di ridurvi come morti, di costringervi in situazioni da sepolcro, in cui la vostra anima e la vostra vita possono soltanto marcire”. “Non vi accartocciate nelle vostre insicurezze, nei vostri fallimenti umani”.”Venite fuori”. “Dovete trovare il coraggio e la forza di sottrarvi a questo lento morire quotidiano, a questa rinuncia graduale ma inarrestabile che porta alla morte”. “Venite fuori... venite fuori... venite fuori...”.
Di fronte a tanto amore, a tanta sollecitudine, dobbiamo avere il coraggio di non nascondere le cose: se abbiamo sbagliato, riconosciamolo francamente, cambiamo rotta, modifichiamo i nostri atteggiamenti; se c'è qualcosa da portare a galla, facciamolo, con fiducia, senza paura, senza sentirci delle schifezze o essere distrutti dalla vergogna. Amare non è non sbagliare mai, essere sempre al top, irreprensibili, senza ombre di morte nei nostri cuori; amare è accorgersi e riconoscere che certi nostri stili di vita non portano vita, ma fanno morire la vita.
Lasciamo allora che questa nostra riflessione diventi preghiera:
«Gesù, noi sappiamo che sei il nostro Salvatore. Come già Lazzaro, vorremmo tanto anche noi sentire il tuo grido che ci invita a uscire dalle nostre tombe. Fa risorgere la nostra speranza che muore tutte le volte che non riusciamo ad affrontare il dolore e il sacrificio; fa risorgere la nostra fede, sempre troppo debole per capire la tua grandezza e il tuo amore. Fa che avvertiamo nitida la tua presenza quando siamo tentati di accusarti di essere assente e di lasciarci soli. Fa che udiamo distintamente le tue parole di risurrezione: “Vieni fuori dalla tua tomba, dalle tue tenebre, dalle tue insicurezze; vieni fuori dai tuoi pregiudizi, dai tuoi schemi mentali distorti, dai tuoi egoismi; vieni fuori dal peccato, vieni fuori da tutto ciò che di freddo e di buio abita in te, perché io sono la tua Luce, la tua Risurrezione, la tua via, la tua verità, la tua Vita”». Parole meravigliose, fratelli, che ci devono ridare nuovo slancio, nuovo vigore; parole che ci devono far rinascere a nuova speranza, a nuova vita: ascoltiamole queste parole, usciamo dalle nostre tombe, abbandoniamo le tenebre della morte e del peccato e torniamo a vivere nella luce di Cristo, nostra Pasqua”. Amen.