mercoledì 6 luglio 2011

10 Luglio 2011 – XV Domenica del Tempo Ordinario

Nel capitolo 13, Matteo racconta tutta una serie di parabole. C'è quella del seminatore di oggi (13,1-23), quella della zizzania (13, 24-30), quelle del granello di senapa e del lievito (13,31-33), quelle del tesoro, della perla e della rete (13,44-50). Sono quasi tutte parabole che parlano di crescita, affermano l'esistenza di un qualcosa che, se ce ne prendiamo cura, può crescere e piano piano, giorno dopo giorno, diventare ciò che deve diventare.
Nella vita tutto avviene con gradualità, senza che noi ce ne accorgiamo, giorno dopo giorno.
La “cura”, la “crescita” sono gli elementi decisivi della vita. La cura è il tempo, l'attenzione, la presenza che noi dedichiamo a ciò che è importante, è il nostro esserci fisicamente e con il cuore. Dove c'è cura le cose crescono. Dove non c'è cura le cose crescono pure, ma disordinatamente, sganciate dal nostro controllo, senza una direzione, come la celebre vigna di Renzo di manzoniana memoria.
È per questo che si prega ogni giorno: perché la nostra anima non muoia. È per questo che si mangia ogni giorno: perché il nostro fisico non muoia. È per questo che fa bene leggere un libro o partecipare ad un incontro, perché la nostra mente non si sclerotizzi. Dove c'è cura tutto cresce e fiorisce e diventa fecondo. Dove non c'è cura tutto cresce, ma si inselvatichisce.
«Quel giorno Gesù uscì di casa e si sedette in riva al mare». Il vangelo dà una serie di piccole annotazioni prima della parabola. In riva al mare di solito c'è un po' di vento e si sta bene. Il mare è evocativo, ti fa pensare, ti fa riflettere. Il mare è come quel terreno di cui Gesù parlerà subito dopo: sembra che non ci sia niente dentro e invece è pieno di vita.
Gesù esce da solo, ma subito attorno a lui si raccoglie una grande folla. Chi ha qualcosa di vero, di autentico, di grande, da comunicare, chi vive qualcosa di serio e importante, raccoglie spontaneamente tanta gente attorno a sé, è rincorso dalle persone, dovunque vada. È invece chi non ha nulla di interessante da esprimere che deve rincorrere le persone, deve affannarsi per farsi ascoltare. E questo, fratelli miei, dovrebbe già portarci ad una prima considerazione: ci siamo mai chiesti come mai alle nostre messe vengono così in pochi? Come mai nessuno ci chiama e solo qualcuno ci cerca? Forse perché oggi non ci sono più buoni cristiani? Forse perché la gente non ci stima? Forse perché non ci conosce? O non dipende piuttosto dal fatto che siamo noi poco convincenti, che siamo noi a non esprimiamo niente di “vissuto”, di convintamente sentito, di spiritualmente efficace?
Di fronte alla gran folla Gesù si distacca e si mette a sedere. Le cose importanti hanno bisogno di tempo materiale, di distacco, di silenzio intorno a noi. Non si può pregare in profondità,con il cuore, mentre siamo di corsa, impegnati in altre cose; non possiamo parlare con Dio di ciò che abbiamo dentro, di ciò che viviamo nell'anima, dei nostri problemi vitali, guardando la tv, ascoltando la radio, lavorando o facendo qualcos'altro. Per esprimerci consapevolmente dobbiamo fermarci, sederci, guardarci negli occhi del cuore. Non si possono risolvere problemi complessi, difficoltà grandi, con un discorso superficiale, fatto al volo, pensando ad altro. Ci vuole serenità, una mente libera dal frastuono, guardare la questione da tutti i punti di vista, dedicargli tempo e spazio. È vero che l’importante è il “come” si fanno le cose; è vero che non è tanto la “quantità” quanto la “qualità” del tempo che è decisiva nel nostro dedicarci alle persone e alle cose. Ma è altrettanto vero che se a priori non “abbiamo tempo”, se non ci fermiamo, se non abbiamo materialmente neppure qualche minuto da dedicare, allora non c'è neppure nessun “come”. A monte ci deve essere la nostra disponibilità temporale; così se non non ci siamo mai con i figli per ascoltarli, con la famiglia per aprirci, con la comunità, con i confratelli e le consorelle per fare condivisione, con la nostra anima per darle forza e vigore, voi capite che è inutile che ci preoccupiamo del “come” fare tutte queste cose, perché senza un “quando”, il “come” purtroppo non ci sarà mai. Da qui l’importanza del nostro tempo.
Alle folle radunate davanti a lui, Gesù parla in parabole. Ora, la parabola ha un doppio valore: è una favoletta stupida, se la prendiamo superficialmente, se non vogliamo capirla, se non vogliamo lasciarci coinvolgere; ma è profondissima se ci entriamo dentro con il cuore. È fondamentale questo, perché la parabola ci parla e ci convince, in funzione della nostra apertura di cuore. Se non la capiamo è perché il nostro cuore è chiuso, è ottuso. La parabola serve per chi vuole capire, per capire meglio: “Chi ha orecchi intenda”, dice Gesù; per chi vuole vedere c’è tanta luce, ma per chi non vuol vedere, il buio ottenebra il suo cuore-
Per ascoltare il vangelo, il messaggio della Parola, dobbiamo dunque fare proprio come faceva Gesù: sedersi, dedicare tempo, avere calma e pace nel cuore e nell'anima. Dobbiamo distaccarci dalla ridda di pensieri, di preoccupazioni, che normalmente ci accompagna, dal quel “frullatore” che è la nostra mente e concentrarci sulle parole che abbiamo davanti, ascoltare cosa esse ci dicono dentro. In quelle Parole dobbiamo entrarci con il cuore, con la vita, se vogliamo coglierne il valore pratico, essenziale per la vita dello spirito.
La parabola di oggi è molto semplice. C'è un seminatore che fa il suo lavoro, ma il seme che egli sparge, finisce col cadere su quattro diversi tipi di terreno. L’allusione è chiara: Gesù qui ci indica i nostri diversi modi di reagire di fronte al Suo messaggio. Di fronte ad una stessa situazione, ad una stessa persona, ad un medesimo evento, noi tutti reagiamo in modo diverso: non è tanto l’evento, ciò che accade, che rende tristi, depressi e vuoti (anche se ha la sua importanza), ma è il modo in cui noi interpretiamo questo evento, il senso che noi gli diamo. Siamo noi che facciamo, di ciò che ci accade, una tragedia o una commedia, una occasione per ridere o per piangere e disperarsi.
Dunque: il primo terreno su cui cade il seme, è la strada: un terreno duro, impenetrabile. Nella strada non nasce niente (negli altri terreni almeno all'inizio qualcosa nasce!). Alcuni uomini spiega Gesù nella “esegesi” che lui stesso fa di questa parabola hanno la coscienza così indurita che nulla li mette in discussione. Sono duri come la pietra, hanno “il pelo sul cuore”. Il loro atteggiamento di chiusura totale fa sì che non nasca nulla. Nessuna creatività, nessun sentimento, nessuna ricettività. Tutto è bloccato dentro. Non può nascere nulla. Con persone così è meglio aspettare tempi migliori. È inutile discutere, è inutile confrontarsi. Purtroppo è meglio lasciar perdere, è meglio rivolgersi altrove.
Il secondo terreno è una pietraia, un luogo sassoso, dove non c’è molta terra: il seme cade, germoglia, anche se la terra è poca, ma non appena il sole è alto, i germogli si bruciano, si seccano, poiché non hanno radici profonde. Un terreno di “facili entusiasmi”, il classico fuoco di paglia. Il seme cade e nasce. Ma non c'è una sufficiente consistenza, non ci sono risorse, non c'è profondità e convinzione nelle scelte e tutto finisce. Non può che essere così. Sono le persone volubili, incostanti, quelle che si entusiasmano in un attimo, ma poi, sempre in un attimo, scompaiono. Il sole rappresenta le difficoltà, le prime crisi e i primi ostacoli che si presentano. Non essendoci consistenza dentro queste persone, tutto si dissolve. È il calore della prova che scioglie tutto. Quanti matrimoni, quante vocazioni, quanti propositi iniziano con le migliori intenzioni! In essi c’è sincerità, c’è generosità, ma non c'è profondità. E così nel tempo, dopo qualche anno, tutto si spegne, tutto si appiattisce e,quando va bene, si “tira avanti”. Basti pensare alle tante persone che passano per le nostre parrocchie: animatori entusiasti, pieni di energia, di simpatia e di risorse: ma basta una difficoltà, basta una delusione, un primo scontro, e lasciano. Non riescono a tenere, non hanno risorse per affrontare l'afa, la calura, la pesantezza del momento e si sciolgono come neve al sole. Quante persone, fratelli miei, hanno iniziato cammini veri e profondi con grande entusiasmo: “Andrò fino in fondo; non lo mollerò mai; è la svolta della mia vita”. Ma poi non hanno resistito. La forza di un uomo è la costanza: più che nel fare certe scelte, il merito è nel sostenerle! È nel non arrendersi, nel non piegarsi, nel non mollare quando arriva la difficoltà; il valore di un comportamento è nell’adattarsi, nel combattere, nel credere fermamente.
Il terzo terreno è quello pieno di rovi: il seme cade sulle spine, cresce, ma le spine più numerose e fitte lo soffocano: sono le condizioni esterne troppo soffocanti. Vivere in certi contesti culturali, in certi paesi, diventa per l'anima motivo di soffocamento. Quando si vive in contesti dove “tutto è male, tutto è proibito; questo no perché è peccato, quello no perché non sta bene; stai attento a cosa dirà la gente; non ti esprimere troppo...” allora ci si sente soffocare, non si riesce più ad esprimersi. Quando si vive in un ambiente come la nostra società attuale dove non c'è rispetto né per le persone né per l'ambiente, dove si fa tranquillamente ciò che è illecito, dove il consumo e l'apparire sono i valori principali, è ovvio che l'anima soffoca. Per l'anima, non è la stessa cosa vivere nell’onestà, nella verità del proprio lavoro oppure vivere arraffando a più non posso, passando sopra tutto e tutti! Per l'anima non è la stessa cosa vivere il piacere sessuale con il proprio partner o con tanti altri occasionali! Per l'anima non è la stessa cosa abortire o no, far nascere o far morire una vita! Spettegolare e malignare in continuazione, fare solo discorsi stupidi e banali, invece che impegnarsi nella vicendevole conoscenza, in cose profonde, serie, valide.
Il quarto terreno, finalmente, è quello buono: qui il seme cade sulla terra buona e dà il suo frutto: dove il cento per cento, dove il sessanta, dove il trenta.
Tre terreni negativi, dunque, (strada, sassi, spine) e uno positivo con tre tipologie di resa: il cento, il sessanta, il trenta. Quindi con una differenza, che non è solo quantitativa ma anche qualitativa; cioè: ognuno porta frutto a modo suo, come può; e questo è senz’altro positivo. Il frutto dipende dall'albero, è vero, ma la fecondità dell’albero dipende esclusivamente da ogni singolo terreno, da come è stato lavorato: “Dai frutti li riconoscerete”, diceva Gesù. La responsabilità è individuale, è nostra; non possiamo scaricare sempre la colpa sugli altri e sulla società. Siamo noi che nella società, nella famiglia, nel nostro ambiente dobbiamo preparare adeguatamente il terreno: in un frutteto, è difficile che ci siano alberi selvatici. L’ambiente è favorevole allo sviluppo, e in questo caso, “un albero buono fa frutti buoni”. Guardiamo alla nostra famiglia, guardiamo ai nostri figli, guardiamo le persone delle nostre comunità: sono tutti “alberi da frutto” potenzialmente buoni; se il terreno in cui si sviluppano è “lavorato”, fertile, i frutto arriveranno di conseguenza. Il terreno è come noi viviamo, è la coerenza con cui viviamo, le nostre parole, le nostre scelte, i nostri comportamenti; da ciò dipendono i frutti degli altri alberi. Lo specchio della nostra vita irradierà luce e calore per la vita degli altri.
Soltanto se ci lasciamo trasformare, se permettiamo al seme di fecondarci, di cambiarci, di farci diversi, di farci nuovi, di farci crescere, saremo a nostra volta l’humus vitale per altri uomini e donne dai grandi frutti. Ecco perché, per accogliere nuovo seme, dobbiamo essere disponibili, accoglienti, soffici, profondi. Vedete, la creatività, la fecondità, la felicità non si possono produrre autonomamente, né si possono pretendere. Solo se siamo aperti alla vita, se siamo ricettivi, se ci lasciamo trasformare, allora, e solo allora, lei, la Vita, ci raggiunge: e scopriremo di poter essere ancora molto di più, per noi stessi e per gli altri.
Penso, fratelli, che tutti ci ritroviamo in questa parabola: la sentiamo di grande conforto dentro di noi, anche per altri motivi. Alludo alle varie percentuali di produttività, quando cioè ci accorgiamo di non aver prodotto il cento per cento. A tutti infatti può capitare di fare un bilancio della propria vita e di trovarla un vero disastro, un fallimento, una delusione; ebbene, questa parabola ci dice che la nostra vita ha comunque un senso, pur avendo mancato il top della produzione, pur avendo prodotto poco frutto. L’importante è che sia buono! Questa parabola in altre parole ci insegna che possiamo essere un buon terreno anche se poi non siamo arrivati a produrre il cento per cento.
Gesù ci accoglie e ci ama sempre e comunque, anche se la nostra vita non ha avuto una produzione ottimale. Gesù ci ama anche se siamo stati inadeguati, anche se in alcuni periodi siamo stati alquanto aridi. L'importante è guardare avanti, cercare comunque di migliorare, di essere sempre più accoglienti; senza poi angosciarci se i risultati non sono sempre eccellenti, nonostante la nostra buona volontà. Il Signore ci ama per quello che siamo: l’importante è che siamo determinati, umili, che agiamo con rettitudine e sincerità.
Anche solo col trenta, possiamo guardarci dentro senza arrossire e non buttarci via. Dobbiamo capire che la nostra vita ha comunque un senso, ha un significato, ha uno scopo al di là dei nostri fallimenti, dei nostri insuccessi e delle nostre aridità. Perché anche una piccola fecondità, dice questo vangelo, vale una enorme fecondità. Purché coerente con le reali possibilità del terreno. Amen.


venerdì 1 luglio 2011

3 Luglio 2011 – XIV Domenica del Tempo Ordinario

Tendenzialmente tutti soffriamo di vittimismo; le ingiustizie sofferte, vere o immaginarie, sono il nostro pane quotidiano; siamo normalmente portati a ricordare più le cose brutte che quelle belle, preferiamo soffermarci più sul negativo, che guardare al positivo, alla gioia, al bene, alla fortuna, all'amore che c'è vicino a noi. Questa è la natura umana: ma noi cristiani non possiamo ingigantire e amplificare continuamente le disavventure, le disgrazie, le avversità, che purtroppo ci sono, e non accorgerci mai di tutta la luce e l'amore in cui siamo immersi. Equivarrebbe a non voler vedere, a non voler ammettere l’evidenza: una assurdità.
È questo, in estrema sintesi, il senso della preghiera di Gesù che il vangelo di oggi ci propone: più che una preghiera il suo è un grido di giubilo, uno slancio del cuore, un inno di gioia.
Gesù si lascia andare, si lascia trasportare dalla gioia, dall’entusiasmo, dalla felicità, dallo stupore che ha dentro il suo animo, e lascia trasparire la sua vita piena di forza, di passione, di vitalità.
Non è una preghiera classica come la intendiamo noi. È una preghiera nel senso che Gesù sa distinguere l'agire di Dio, ben diverso dall'agire umano: Dio si beffa dei grandi e dei potenti, egli si cura dei piccoli, dei poveri, degli umili.
Gesù inizia dicendo: “Ti benedico”. Ma in greco benedire, rendere grazie (™xomologšw), vuol dire anche “riconoscere”. Allora qui potremmo tradurre: “Ti riconosco, Dio, quando tieni nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le riveli ai piccoli...”.
Ti riconosco, so che sei Tu. Ti riconosco, e so che non sei Tu, quando i sapientoni di questo mondo, con tutta la loro scienza e i loro sforzi pretendono di parlare di te senza possederti, senza averti dentro, senza sentirti vibrare nel loro cuore; io me ne accorgo, perché le loro sapienti parole sono vuote e inutili.
Ti riconosco, so che non sei Tu, quando dotti preti, frati, teologi, con tutto il loro parlare e disquisire di Dio, ti rendono confuso, difficile, complesso, riducendoti ad un potente da temere, ad un Dio di cui aver paura. Ti possiedono nelle loro parole ma non nel loro cuore.
Ti riconosco, so che sei Tu quando, dopo aver visto milioni di laureati, di specialisti, di esperti, guardo al più umile dei tuoi santi, di quei saggi che sanno poco o nulla di cultura umana. C'è chi nel cuore ha la scienza e chi ha l'amore.
Ti riconosco, so che non sei Tu, quando vedo le persone importanti, famose, quelle degli autografi, “i grandi” che nel loro intimo sono agitati, inquieti, vivono nell’ansia e non lo possono confidare a nessuno, perché loro sono grandi, hanno un’immagine da difendere.
Ti riconosco, e so che sei Tu, quando vedo che, di fronte alla morte, anche i tiranni, i re, i potenti, la gente senza cuore, quelli che feriscono e che uccidono, sono uguali alle loro vittime.
Si, o Dio, perché Tu ti riveli solo a chi ha il cuore umile, a chi è servo, a chi è discepolo, a chi cioè sa di non sapere e vuole imparare. Tutti gli altri, con tutta la loro gloria, non ti vedranno, non ti accoglieranno, non ti avranno.
Chi è attaccato ai soldi, fa fatica ad accettare Gesù. I ricchi, i politici, le potenze economiche, fanno fatica ad accettare Gesù. Chi lavora soltanto, perché deve produrre ricchezza e benessere senza guardare in faccia nessuno, fa fatica ad accettare Gesù. Chi non vuole cambiare, chi non vuole mettersi in gioco, fa fatica ad accettare Gesù. Per essi Gesù è ridotto a qualche preghiera, a qualche incontro, a un pellegrinaggio, a una bella liturgia, a qualche bel gesto di bontà. Un incontro “vuoto”, senza alcuna rilevanza né per se stessi, né per gli altri; fare qualche azione religiosa, ma non seguire Gesù, non è accettarlo; Gesù ti chiede tutta la vita, ma ti offre in cambio la vera vita, la vita profonda, di unione intima con Lui, la vita che non finisce. Chi vuole seguirlo, senza lasciarsi coinvolgere da Lui, vedrà solo vincoli e costrizioni.
L'invito odierno di Gesù è: “Lasciati stupire dalla vita, lasciati meravigliare, lasciati colpire serenamente dall’imprevisto”, perché la presenza di Dio si trova molto più nelle cose impreviste, spontanee,  che in quelle previste, programmate.
Noi abbiamo una mente logica: programma, organizza, pianifica, tende a “cum-prendere” tutto, a mettere tutto insieme, ad abbracciare tutto. Ma ha i suoi limiti. Per legge fisica sappiamo che un contenitore grande può con-tenere una cosa piccola, ma non l’inverso. Dio è più grande della nostra mente. Come possiamo pretendere di “contenerlo”? Eppure molti falsi sapienti vorrebbero controllare Dio, vorrebbe possederlo, averlo “logico” nella mente. Può mai un bicchiere contenere l'acqua dell’oceano? A volerlo fare saresti uno sciocco perditempo: nuota, invece, gustati l'acqua, ammira l’azzurro del cielo che si fonde all’orizzonte col verde del mare, immergiti e lasciati cullare dal dondolio delle onde, ma non pretendere l’assurdo. Così nella vita di ogni giorno: vivi, canta, assapora, stupisciti e loda Dio, sappi che Lui è più grande di qualunque cosa, è l’incontenibile, ma soprattutto Dio non è programmabile non é prevedibile, perché egli è l'imprevisto. Gli ebrei aspettavano un Messia con gli eserciti, ed è arrivato Gesù. Imprevisto! Maria aveva programmato la sua vita ma è rimasta incinta inaspettatamente. Imprevisto! Gli apostoli conducevano tranquillamente la loro vita, poi un giorno è passato uno e ha fatto loro una proposta scandalosa. Imprevisto! I discepoli di Emmaus se ne vanno tristi perché credono di aver perso Gesù; ma... imprevisto! Le persone incontrano un uomo di nome Gesù e le loro malattie scompaiono. Imprevisto!
Ecco perché, fratelli, dobbiamo cambiare la nostra testa razionale, di adulti; per incontrare Dio, dobbiamo essere aperti all'imprevisto. La chiamata di Dio non è mai frutto di logica, di calcolo, di ragionamento mentale. È frutto di amore, è lo slancio di fronte a qualcosa che ti “ha preso l'anima”.
Chi non vuole o non può sperimentare quest'innamoramento, questo stupore, ben presto non ha più energia per andare avanti nel cammino di fede, le sue vie respiratorie e vitali si occludono. Molti vivono trincerati in loro stessi e temono troppo di lasciarsi andare, chiudono ogni porta, ogni spiraglio, perché hanno paura anche solo di sentire qualcuno o qualcosa. Tutto deve essere sotto controllo. Non piangono mai né si commuovono perché è imbarazzante; non si meravigliano mai; e così facendo credono di essere grandi, di saper gestire le situazioni; non hanno mai slanci troppo grandi, sono sempre misurati e pacati nelle loro cose: e ciò lo chiamano equilibrio; non fanno trasparire nessuna emozione, temono di diventare vulnerabili; sono sempre ingessati, non si lasciano mai andare a “qualcosa di pazzo”, ad un abbraccio forte, ad una “risata galattica”, ad un urlo di felicità, liberatorio e rinfrancante, non si abbandonano alla gioia intensa del sentirsi amati; non si stupiscono di fronte alla natura, al sorriso dei bambini, al volto degli uomini. E poiché l'esperienza e la chiamata di Dio sono un qualcosa di incontrollabile, di imprevedibile, Dio non avrà mai spazio in loro.
Dio è un tornado; Dio è un fiume in piena: non ci sono argini che tengano. Dio è uno tsunami che travolge tutte le tue idee precedenti: quando lo incontri, tutti i tuoi discorsi su di lui fanno semplicemente ridere. Dio è un fulmine che si abbatte sulla tua esperienza e “ti brucia”. Dio è un terremoto che mette la tua esistenza sotto sopra, a soqquadro, distrugge la tua vita. Dio è emozione pura che ti travolge e ti sconvolge. Dio ti fa innamorare e ti porta dove vuole Lui. Per questo prima di voler incontrare Dio dobbiamo prepararci seriamente, dobbiamo chiederci se siamo pronti, se siamo disposti a fare questa esperienza unica; perché chi incontra Dio, fratelli miei, non sarà mai più lo stesso.
L'incontro con Dio è così forte, potente e destabilizzante da provocare talvolta paura e sgomento, può far piangere o star zitti per giorni; nulla ha più importanza, tutto sembra inutile; in una parola ci può destrutturare.
L'esperienza di Dio è così grande che l'unico sentimento adeguato è lo stupore. Non ci sono parole. “Mistica”, in greco, vuol dire proprio questo: “Non ci sono parole, è troppo grande”. Lo stupore è fare l'esperienza che c'è un di più che ci supera e lasciare che ci entri dentro. Non è il saperlo con la mente, ma è il lasciarsi coinvolgere con il cuore. Il bambino vive di questo. Il bambino non sa che la mamma lo ama, lo sente.
Se tu lasci che il volto e il cuore di una donna ti entrino dentro, allora è amore.
Se tu lasci che il cielo o le stelle ti entrino nel cuore, allora è pienezza di vita.
Se tu lasci che la passione per una causa giusta ti invada, allora è avere significato.
Se tu ti lasci toccare dalle parole del fratello, allora è comunione.
Se tu ti lasci toccare dal pianto, dalla sofferenza del fratello, allora è umanità.
Se tu ti lasci toccare da ciò che vedi, da ciò che senti, da ciò che succede, non capirai Dio, perché nessuno lo può capire, ma saprai che c'è.
Se tu vivi così, ricevendo, accogliendo, imparando, la tua vita sarà ricca, sarà piena, sarà colma, sarà leggera; e per te vivere sarà veramente bello!
Gesù si rivolge a tutti gli affaticati e gli oppressi.
Gli affaticati e gli oppressi erano all’epoca tutta la povera gente che non riusciva a sostenere il culto pesante della legge ebraica con tutte le sue prescrizioni e le sue decime (per i poveri era impossibile essere bravi religiosi).
“Oppressi”: da quelle regole che ci incatenano, che non ci lasciano amare, che dopo certi errori ci condannano inesorabilmente. Invece anche se tutte le regole del mondo ci dovessero condannare, Gesù ci ama, ci chiama, ci accoglie per andare da lui. Lui aspetta proprio noi.
“Oppressi”: per molti è il non riuscire a venir fuori da certi tunnel; “oppressione” è il pretendere da sé stessi l'impossibile: quando ci sentiamo così, andiamo da Gesù. Lui ci accoglie sempre e da Lui possiamo trovare quella che ci rinfranca l’anima. Andiamo da Gesù: a Lui possiamo urlargli tutto il nostro sdegno; andiamo da Lui e sfoghiamo tutta la nostra rabbia; urliamogli che il nostro peso è insopportabile, piangiamo il nostro dolore, gridiamogli tutte le ingiustizie che abbiamo subito. Lui ci ascolterà; ci darà forza per andare avanti, luce per trovare altre soluzioni.
Gesù si definisce mite e umile di cuore.
Il mite, fratelli, non è colui che non si arrabbia mai; colui che non si esprime mai e che se ne sta lì, buono buono. “Mite” non è il nostro “bonaccione”, quello a cui va bene tutto. “Mite” significa “tenero”, saggio; la vera mitezza non è un dono naturale, indica sempre un processo di acquisizione: miti non si nasce, lo si diventa. Un po' come il grano che diventa fine dopo la macinatura. Mite, infatti, deriva da mola, la pietra del mulino. Mite è colui che ha sperimentato la crisi e la disperazione, le gole buie della vita e le altezze piene di luce; colui che ha combattuto i suoi difetti e le sue debolezze, che ha vinto e che spesso ha perso; a volte ha vinto i propri difetti, a volte no. In ogni caso è colui che si è sempre rialzato e in questo suo cadere e rialzarsi, ha conosciuto la vita. La macina della vita lo ha reso soffice, tenero, molle, saggio, elastico, plasmabile, perché nella sua vita ha sperimentato cosa vuol dire vivere.
Per questo il mite ha uno sguardo più benevolo con gli altri, è più lungimirante nelle situazioni. Non si lascia prendere dai facili entusiasmi e non cade in depressione di fronte alle difficoltà: non perché non le provi o non le senta, ma perché nelle sue esperienze di vita, nel suo essere macinato dagli anni, ha trovato una fiducia più profonda. Proprio perché ha macinato la vita, ora la conosce bene: è diventato saggio, mite.
“Umile di cuore” è una espressione dal significato molto vicino a quello di mite. Umile (humilitas) viene dal latino humus, terra: da cui “uomo” (homo). L'umiltà non ha nulla a che vedere con il dire sempre di sì, con il piegare il capo; umili non sono quelli che si fanno zerbino di tutti. L'umiltà è il coraggio di accettare la propria umanità (humanitas), la propria terra, la propria origine, il proprio essere: “Tu sei terra, hai bisogni e istinti terreni, limiti e zone d'ombra”. L'umiltà è quindi il coraggio di potersi vedere per quello che realmente si è, e come si è, senza sfuggirsi, senza mentirsi.
Umiltà è sapere che gli stessi abissi nei quali è caduto il fratello, ci sono anche in noi. Umiltà è non dire mai: “Io sono un altro; tutto questo non mi riguarda; io non lo farò mai”.
Chi di noi, fratelli miei, può dire in tutta onestà di non avere mai pensato una cosa simile?
Solo chi non conosce la propria anima, solo chi è insensibile, può dirsi esente da questo pensiero. Capite l’importanza dell’umiltà?
E concludo: noi, fratelli miei, siamo semplici uomini: amiamo, lottiamo, ci appassioniamo, ci stupiamo, piangiamo e ridiamo. Crediamo, ci disperiamo, abbiamo paura. Sentiamo in noi l'abisso e l'Altissimo. Sbagliamo, cadiamo e ci rialziamo; urliamo e cantiamo. Nella nostra vita c'è spazio per tutto questo e molto altro ancora.
Allora, viviamola questa vita, fratelli, viviamola semplicemente, umilmente. Assaporiamone tutta la felicità, perché la nostra vita è un dono. Sentiamoci grati a Dio di questo spazio, di questo tempo, onorati e riconoscenti per questa possibilità che amorevolmente ci è concessa: perché questo è un tempo, uno spazio, una possibilità di vita che porta il nostro nome e cognome. Amen.

martedì 21 giugno 2011

26 Giugno 2011 – Santissimo Corpo e Sangue di Cristo

«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
Quando sentiamo queste parole del vangelo, il nostro pensiero, come ci è stato insegnato, corre immediatamente all'Eucarestia, al Pane consacrato, alla Comunione. Ma non è stato sempre così: chi ascoltava Gesù non pensava affatto a questo. Nel primo millennio, per esempio, il Corpo del Signore non era l'Eucarestia, ma l'assemblea dei fedeli, gli uomini e le donne radunati in chiesa: retaggio di ciò è rimasta l’incensazione del popolo durante le messe solenni: si incensa cioè Dio, presente nell’altare, nel Vangelo, nel pane consacrato e nelle persone dell'assemblea liturgica. Erano esse il “verum corpus” di Cristo mentre l'eucarestia era detta il “Corpus mysticum”; poi, nei secoli, le cose si sono invertite: l’Eucaristia ha preso il suo significato attuale di “verum corpus” e l’assemblea, la Chiesa, quello di “corpus mysticum”. In particolare, la festa di oggi nasce nel 1264 dal miracolo di Bolsena, a cui dobbiamo il duomo di Orvieto: un sacerdote dubita della presenza reale di Cristo nel Pane e nel Vino consacrati; durante una messa, quando spezza il pane, dalla bianca ostia scorre del sangue che macchia il corporale steso sull’altare (è conservato in un reliquiario nel duomo di Orvieto).
Oggi è dunque la festa del Corpo e Sangue del Signore: del Pane e del Vino che, “consacrati” durante la messa, si “transustanziano” (da “trans-substantia”: il passare da una sostanza ad un’altra) in carne e sangue di Cristo. Perché ciò possa avvenire necessitano sempre tre elementi: la materia (pane e vino), il ministro, in questo caso il sacerdote che agisce in “persona Christi”, e infine la forma (ossia le parole pronunciate dal ministro).
Ma oggi è anche la festa, come dicevo, dell’assemblea cristiana, di tutte le persone, di tutta la Chiesa; è la festa di tutti, uomini e donne, è la nostra festa, del nostro corpo, della nostra entità oltre che identità: un’occasione per ricordarci che abbiamo precisi doveri di amore nei confronti di tutte le persone, di tutti questi nostri fratelli.
Ora, amare un pezzo di pane è abbastanza facile: credere che lì ci sia Dio, non ci cambia poi così tanto la vita, non ci comporta particolari e difficili conseguenze. È amare le persone, fratelli miei, che non è assolutamente facile; è amare il nostro prossimo, quello lontano, sconosciuto, magari sporco e maleodorante, vedere in lui e credere che in tutti quei volti c’è veramente Dio, ecco, questo è decisamente impegnativo: perché coinvolge e sconvolge noi e la nostra vita.
Madre Teresa amava dire: “Mi è difficile credere che la gente possa vedere il Corpo di Cristo in un pezzo di pane, e non lo possa vedere nelle persone, negli uomini e nei volti”. Beh, i santi erano profondamente convinti di ciò; essi vedevano Cristo in chiunque incontrassero! Per noi invece non è proprio la stessa cosa. Dire e credere fermamente che in quella persona c’è Dio, che tutte le persone incarnano Dio, un pò ci destabilizza, ci condiziona radicalmente nella nostra vita, nel nostro modo di comportarci.
È vero anche che in certi uomini si può vedere tutto, tranne Dio; in essi Dio non appare, non traspare; ciò non vuol dire però che Dio non ci sia comunque: è magari sepolto, nascosto, ingabbiato, mortificato, travisato, ma lui c’è! Sempre!
Che poi noi siamo fatti di materia (carne) e di spirito (anima) lo sappiamo dai banchi di scuola, è pacifico. Dimostrare però che noi viviamo dello Spirito di Dio, che nobilitiamo la materia carnale con lo Spirito, questo non è automatico, dipende da noi ma ci costa fatica.
Abbiamo detto che di fronte ad ogni “transustanziazione” sono necessari tre elementi: materia forma e ministro. In questo caso la materia è il nostro corpo da spiritualizzare, il ministro siamo noi, ciascuno di noi, la forma sono gli insegnamenti del Vangelo lasciatici da Gesù: ciascuno di noi deve “trasformare” la sostanza carnale del nostro corpo in sostanza “spirituale”.
Possiamo vivere la nostra esistenza, la nostra vita, soltanto materialmente, di lavoro, di cose da fare, di guadagni, di corpo, di divertimenti. In questo caso non c'è nessun passaggio da materiale a spirituale; non abbiamo alcun merito spirituale, Dio in noi è irriconoscibile, non c’è nessuna elevazione, non avviene nessuna “transustanziazione”. Se invece “trasformiamo” la nostra vita, la rendiamo “spirituale”, allora vivremo la dimensione dello spirito, sprigioneando dal nostro cuore tutta l’energia divina che vi abita dentro.
Si, fratelli miei, noi siamo come il sacerdote nella Messa, nell’Eucaristia: perché il pane e vino della Comunione si trasformino veramente nel nostro cuore in Corpo e Sangue di Cristo, dipende esclusivamente da noi: siamo noi i sacerdoti, siamo noi che dobbiamo compiere il miracolo: noi dobbiamo operare questa “transustanziazione”: non basta che riceviamo dentro di noi il Corpo di Cristo; se poi non lo trasformiamo, non lo facciamo diventare veramente tale dentro e fuori di noi, la nostra comunione non servirebbe a nulla, sarebbe incompleta, inefficace, ostacoleremmo la sua stessa grazia; sarebbe come se ci fossimo limitati a mangiare un pezzo di pane qualunque: se dentro di noi non accade niente, non avviene “trasformazione”, noi usciamo dalla Chiesa così come siamo entrati. Non è successo nulla! Capite la grande responsabilità? Dobbiamo “trasformare” quel pezzo di pane, in Cristo: il Divino per eccellenza, la forza dell'universo, l'energia per vivere e far vivere. Per questo in ogni istante dobbiamo essere “sacerdoti” della nostra vita; dobbiamo “trasformare” le nostre giornate, i nostri incontri, ciò che viviamo e facciamo; dobbiamo cogliere la luce dentro ogni cosa, lo spirito racchiuso in ogni evento, il divino nascosto in ogni essere. Dipende da noi!
Noi abbiamo un grande potere sulle persone che incontriamo: le possiamo lasciare “materia” oppure possiamo trasformarle in “spirito”. Dipende da noi. Le lasciamo “materia” se vediamo in loro soltanto un incontro e non una persona, se non ci lasciamo "toccare", se rimaniamo impassibili, insensibili, inaccessibili; le trasformiamo in “spirito” se le facciamo entrare in simbiosi con noi, se ci lasciamo coinvolgere, se ci lasciamo toccare il cuore. Nella nostra vita possiamo fermarci soltanto alle chiacchiere, ai pettegolezzi, soltanto alle parole, alle parole vuote, senza senso... e allora tutto rimane “materia”; dentro di noi non rimane nulla, rimaniamo vuoti; il nostro “spirito” rimane il grande assente. Ma se nel nostro relazionarci, incontriamo lo Spirito dell’altro e gli mettiamo a disposizione lo Spirito che abita in noi, allora non saranno più parole, ma saranno due anime che si incontrano in Dio. Dipende da noi.
Ancora: se nella vita matrimoniale il nostro amore rimane “materia”, solo sesso, la nostra unione non ci darà nulla, non ci arricchirà, perché non c'è incontro, non c'è Spirito, non c'è calore, non c’è umanità “divina”. Ma se trasformiamo il nostro amore in “Spirito”, nella unione di due anime, allora il matrimonio sarà preghiera a Dio, elevazione di una lode all'Altissimo, sarà il canto di due persone pronte a donare a loro volta il soffio della Vita. Dipende da noi.
Così nella vita religiosa, nella vita professionale, nella vita comunitaria, nella società. Se ci fermiamo alla “materia” senza trasformarla in “Spirito”, manchiamo la nostra missione, non realizziamo la nostra vocazione. Siamo dei falliti. Non abbiamo capito nulla. Dipende da noi.
Troppe persone vivono soltanto di “materia”: nascono, lavorano, procreano, si divertono, mangiano, bevono, muoiono. Tutto qui. Non vanno oltre il "corpo", il materiale. Non abbassiamoci anche noi a tanto, fratelli miei. La vita non è questa; non è così, non va sprecata così: la vita è anche e soprattutto “Spirito”, vibrazione, luce, incontro con l'altro, è significato, scopo: la vita, vissuta nello “Spirito” è molto di più della vita stessa, è vivere una Vita ancor più grande, più entusiasmante, impareggiabile. In una parola, è vivere l’incontro con Dio. Dipende da noi.
Abbiamo anche molti pregiudizi da sfatare riguardo al nostro corpo. Ricordo che alla mia Prima Comunione una vecchia suora mi disse: “Non masticare la particola perché fai male a Gesù!”. Mi ha colpito profondamente questa raccomandazione, al punto che ancora oggi mi condiziona. Era peraltro il risultato di una mentalità che per secoli ha tenuto rigorosamente separati “materia” e “spirito”. E si diceva: “Tutto ciò che è materia, ciò che è corpo, che è umano, muore, è indegno, spregevole, negativo, è peccato. Soltanto ciò che è spirito è elevato, sublime. Per far emergere lo spirito dobbiamo umiliare il più possibile la materia”. La “materia”, il corpo, era considerato soltanto un rivestimento, il contenitore, la prigione dello “spirito”: chi desiderava rispondere ad una vocazione religiosa, chi ambiva seguire Cristo, doveva mortificare il suo aspetto materiale, doveva fustigare il proprio corpo, doveva purificarlo, in nome di Dio, da ogni piacere mondano. La via della santità passava attraverso la totale privazione di ogni piacere naturale: per il cibo e le bevande, per le gioie sessuali e l'affetto, per il divertimento e le sane risate. Qualunque debolezza in questo senso, era “peccato”, tutto era opera del demonio.
Poi finalmente si è capito che oltre allo spirito, abbiamo avuto in dono da Dio anche un corpo; inscindibili l’uno dall’altro: non esiste nessun corpo senza spirito, come nessun spirito senza corpo; ogni corpo è anche spirituale come ogni spirito è anche corporeo. Quando stiamo male nel corpo, per esempio, anche lo spirito sta male, soffre; e quando lo spirito sta bene anche il nostro corpo sta bene. Forse non ce ne rendiamo conto ma molte delle nostre malattie corporali sono malattie dell'anima. Possiamo prendere tutti i farmaci che vogliamo, tutti gli antidepressivi in circolazione, ma non ne usciremo mai, perché non è il corpo che è ammalato, ma il nostro spirito. In questo caso il corpo funge da termometro, è il display, la “radiografia” del nostro spirito.
Chi non ama il proprio corpo non ama neppure Dio perché il corpo è l’abitazione di Dio Spirito. Sempre da piccolo sentivo dire: “Il corpo è di Satana”. E invece no, fratelli, il corpo è di Dio. S. Paolo dice appunto che è “tempio dello Spirito Santo”: per questo dobbiamo riconciliarci con il nostro corpo, dobbiamo conoscere e rispettare i suoi ritmi, i suoi limiti e le sue possibilità; dobbiamo amarlo, volergli bene.
Ma c’è anche il rovescio della medaglia: dal disprezzo pressoché totale di una volta, oggi siamo passati alla più sfrenata esaltazione del corpo umano; la società del consumismo è arrivata ad idolatrare il corpo, e non solo quello femminile. Oggi il corpo viene ostentato, viene pubblicizzato in tutta la sua felina armoniosità; è diventato merce di scambio. Qualunque deformità viene bandita; è diventato oggetto di culto, ma dubito fermamente che tanta ostentazione equivalga ad amare il nostro corpo come ci insegna Gesù, ad amarlo come Lui lo ama. Quando infatti andiamo a fare la Comunione, il ministro ci mostra la particola e dice: “Corpo di Cristo” e noi rispondiamo “Amen; è vero, è così! Questo che sto per mangiare è veramente il Corpo di Cristo”. In quello stesso istante, dovremmo sentire anche il nostro cuore dire: “Signore, questo è il mio di corpo, te lo offro umilmente come abitazione, entra tranquillo” e Gesù rispondere: “Amen; Lo so, va bene, tranquillo, farò così!”. Perché l’Eucaristia, fratelli, è un piacere ed un onore reciproco. Un piacere nostro e di Dio. Dio non si vergogna di venire dentro il nostro corpo, anzi non solo si degna di entrare nella nostra casa, ma viene per amarla; viene perché è felice d'incontrarci; viene per diventare un tutt'uno con noi, Corpo nel corpo; ma, e questo è molto importante, viene anche perché in questo tempo egli ha bisogno del nostro corpo; il nostro corpo gli serve, ad ogni costo: per muoversi in questo mondo, per poter fare, operare, per poter parlare; perché, fratelli miei, noi siamo la sua voce, il suo viso, le sue braccia, le sue gambe, il suo cuore. E scusate se è poco! Almeno ci faccia capire meglio quanto sia importante il “santificare” il nostro corpo. Ci faccia essere più prudenti, più attenti a non esporre volutamente il nostro corpo al male e al peccato.
E un’ultima considerazione (scusate i miei troppi voli pindarici): chissà se capita anche a voi di chiedervi perché Gesù, invece del suo "corpo", non ci invita a mangiare e a nutrirci della sua santità e giustizia? perché non ci dice di bere la sua innocenza e mitezza? perché non ci dice di prendere forza dalla sua potenza divina? Invece ci dice soltanto: “Prendete e mangiate la mia carne!” Vi rendete conto, fratelli? Sembra incredibile! Gesù, il Dio onnipotente, ci lascia in eredità la debolezza, la fragilità del suo corpo umano! Avrebbe potuto scegliere mille altri modi per rimanere con noi: avrebbe potuto lasciarci un segno straordinario della sua potenza e della sua gloria, evidente e definitivo, quanto meno per rassicurare la nostra fede sempre traballante. Avrebbe potuto... E invece no! Gesù ha scelto di rimanere in mezzo a noi con il suo corpo, la sua storia, la sua vita appassionata d'amore, il suo Volto, trasparenza di quello del Padre.
Mangiare la carne e bere il sangue del Signore significa pertanto nutrirsi del cuore incandescente dell'Amore, significa assimilare la linfa di quella vita più forte della morte, significa scoprire che Dio ci è più intimo di quanto noi lo siamo con noi stessi.
Mangiare e bere di Lui è scoprire che solo Lui sfama e disseta le nostre inquietudini, che solo Lui può dare forza e orientamento alla nostra vita, che solo Lui sa riempire di bellezza la nostra quotidianità. Nutrirci di Lui significa infine dire il nostro “Sì” di totale adesione al suo progetto universale di vita e di Amore.
Preghiamo allora, fratelli miei, per la nostra conversione, perché ogni discepolo si apra allo stupore e all’amore dell’Eucaristia, perché ogni prete, ogni cristiano, che agisce nel Suo nome, diventi trasparenza di Dio. Preghiamo perché nessuno svilisca, “cosifichi”, invalidi, l'Eucarestia domenicale; ma che essa sia una forza dirompente all'interno della nostra settimana, un salubre pungolo per diventare discepoli sempre più autentici e veri, sempre più consapevoli dell'immensità di Dio. Non spegniamo mai, fratelli, lo Spirito che è in noi, lasciamo invece che la Sua grazia ci raggiunga e ci cambi radicalmente. Amen!




mercoledì 15 giugno 2011

19 Giugno 2011 – SS. Trinità

«Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». Oggi la chiesa celebra la festa della Trinità: un Dio che è Padre, Figlio e Spirito. Un mistero, quello trinitario, che è costantemente al centro della vita cristiana; noi lo ricordiamo infatti ogni volta che facciamo il segno della croce: «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Un gesto però che ormai ripetiamo automaticamente, senza pensare a quello che facciamo o diciamo, soprattutto a come lo facciamo. C’è anche da dire che la questione della profonda identità di Dio uno e trino, pur rimanendo un dogma fondamentale della nostra fede, oggi non interessa più nessuno; anzi, insistere a spiegare la divinità di un Figlio uguale al Padre, pur nella diversità della sua azione storico salvifica, e a discutere sulla realtà personale dello Spirito Santo, viene interpretato da molti come un tentativo di sviare l’attenzione da problematiche ben più importanti e urgenti: che Dio sia uno o trino, del resto, è l’ultima preoccupazione di una società laica come la nostra, in cui l’idea stessa di Dio viene sempre più estromessa dalla vita personale e reale non solo degli uomini in genere, ma anche degli stessi cristiani.
La festa di oggi ci pone pertanto davanti a questo problema: perché il Dio della teologia non si lega, non si rapporta pienamente con il Dio della vita pratica? Problemi di comprensione? Di impenetrabilità di concetti? Suvvia: la Trinità divina almeno a livello di “intuizione” non ha bisogno di uno “sforzo speculativo”, di equilibrismo intellettuale, per essere afferrata dalla nostra mente. La Trinità, lasciatemelo dire, è un concetto abbastanza comprensibile, semplice; è in pratica l'esperienza di Dio, quella stessa esperienza vissuta e capita direttamente dai primi discepoli, che non erano certo degli intellettuali: Gesù, loro amico, loro compagno e loro maestro, affermava di essere figlio di Dio: e nella realtà si comportava proprio così, da figlio di Dio. In quell'uomo c'era veramente Dio! E in quell'uomo, essi sperimentarono un infinito mondo d'amore, di comunione, una vita così grande e intensa, un qualcosa di così profondo e intimo da risultare incommensurabile. E collegarono questa loro esperienza all’immagine che meglio poteva esprimerla: l’idea di famiglia, composta da un padre, un figlio e dal loro amore reciproco, lo Spirito; in altre parole un Dio “trino”, un “unico” che si esplica in tre funzioni: un Dio che sta “sopra” di noi, che è la nostra origine, il nostro “utero”, il Dio che noi chiamiamo “Padre e Madre”; poi un Dio che sta “con” noi, che si fa compagno del nostro cammino, il Dio che con la sua morte e risurrezione ci ha riscattati, e che si chiama Figlio; e c'è infine un Dio che abita “dentro” di noi come entusiasmo (entusiasmo letteralmente vuol dire proprio avere un “Dio dentro”), come creatività, forza, passione, energia: il Dio che ci ha fatti “chiesa” e che si chiama Spirito Santo.
Tutto il creato risente di questa impronta trinitaria. In particolare, come abbiamo detto, la famiglia stessa, prima cellula sociale, è eminentemente trinitaria: l’uomo e la donna pur essendo nella loro identità due persone distinte, nel loro relazionarsi mediante l’amore reciproco, elemento “altro” di fusione unitaria, generano un’altra persona, un figlio identico in tutto a loro, ma ben distinto da loro. La reale funzionalità di questo “amore” come terzo elemento connaturale, uguale e distinto, appare così evidente. Come evidente è la percezione quotidiana di un nostro ruolo “trinitario”. Nel mondo tutto è diverso ma tutto è intimamente e solidamente unito. Ricordate? Quando eravamo bambini abbiamo fatto esperienza di un “unum” indissolubile: eravamo un tutt’uno con nostra madre, eravamo completamente fusi con lei, eravamo nel grembo della vita. Ci sembrava che fuori di noi non ci fosse nulla; ci sembrava di essere noi il tutto. Poi col tempo ci siamo accorti che non c'eravamo solo noi, ma che c'erano anche tante altre persone. Ci siamo accorti che tutti eravamo diversi gli uni dagli altri: eravamo unici, ma eravamo anche in tanti… e abbiamo scoperto che qualcosa ci univa: un qualcosa ci legava, un qualcosa che si intesseva con le nostre vite: un qualcosa che, maturando, abbiamo riconosciuto come sentimento, amicizia, rispetto, amore.
Ci sono molti però che non sono riusciti a maturare, che sono rimasti allo stadio infantile, della non relazione: sono le persone narcisiste. Pensano di essere le uniche al mondo, che il mondo debba ruotare attorno a loro. Sono onnipotenti, si credono ancora Dio; non sono ancora nate. Non hanno ancora fatto l'esperienza trinitaria, l’esperienza dell’alterità, dell’altro. Con queste persone non si può proprio parlare: sanno tutto loro! “Io ho fatto così... io so... io capisco...”, e ti raccontano tutte le loro imprese e tutte le loro smisurate conoscenze. Esistono solo loro. Gli esempi abbondano: molti superiori, molti genitori, molti capi, gestiscono i loro confratelli, le loro consorelle, i loro figli, i loro dipendenti, come se fossero delle marionette: muovono, spostano, non chiedono niente, comandano, decidono loro, perché tanto chi sta sotto deve accettare tutto, non ha un cuore suo, non ha alcun diritto di esprimersi. Credono che tutto il mondo e tutte le persone siano in funzione loro.
Venire al mondo, nascere, è la cosa più bella, è il senso della vita, ma è anche una cosa che fa paura perché in quello stesso momento si diventa “altri”, perché ognuno poi se la dovrà vedere da solo, senza che qualcuno gli “copra le spalle”, dovrà necessariamente “altrificarsi”.
Così per molte persone essere diverse (di-versus vuol dire che ognuno ha la sua strada, il suo verso, il suo carattere, la sua corsia, la sua “chiamata”) è assai faticoso, perché le costringe ad esporsi, a mettersi in gioco, quando invece preferirebbero rimanere nell’anonimato, nel “così fan tutti”, immergersi nel conformismo, nell'indifferenza, nelle mode.
Dal lato opposto, vi sono tante altre persone che vivono la diversità non come elemento di fusione, ma come una competizione, come un continuo confronto: “Io sono meglio di te; io so più di te; tu sei più bello di me; tu sei più riuscito di me”. “Competere” significa per loro rifiutare la diversità; vuol dire dimostrare che esse valgono più degli altri. Vuol dire affrontarsi e farsi guerra; sentire l'altro come un nemico, un pericolo. Il mondo familiare, il mondo del lavoro e a volte anche le nostre comunità cristiane sono piene di persone che (di nascosto, soprattutto nelle comunità religiose!) si combattono. Sentiamo l'altro come un nemico e tentiamo di ucciderlo, di zittirlo, di eliminarlo: siccome non lo possiamo fare fisicamente lo facciamo con le parole, con i giudizi taglienti. Lo stesso vale quando ci arrabbiamo o ci indispettiamo perché gli altri non la pensano come noi, non fanno come noi o come noi vorremmo. Giudicare (kr°nw in greco vuol dire “dividere”, “separare”) è tentare di stabilire una superiorità tra me e te (naturalmente io sono superiore!). Chi giudica non ama e non si ama. Chi giudica non accetta gli altri perché non accetta in realtà neppure se stesso. Sminuisce gli altri solo per farsi più grande (devo tirare giù l'altro in modo che diventi più piccolo di me; che fare? Sparlo, emetto giudizi velenosi, creo maldicenza intorno a lui; gli creo intorno una fossa entro cui non potrà evitare di cadere: la sua caduta mi renderà automaticamente superiore a lui). Chi giudica, pretende di essere superiore. Quanto dobbiamo ancora crescere, fratelli!
Dobbiamo soprattutto vivere l'esperienza trinitaria. Io sono io e tu sei tu, ma c'è l’amore che ci unisce. Se io sviluppo e vivo trinitariamente la mia “alterità”, sono felice, mi sento realizzato, sono contento di me per come sono, e degli altri per come sono. Allora posso accettare anche altre strade e non ho motivo di essere invidioso di chi opera in maniera diversa. Io percorro la mia via e sono felice. Tu fai la tua e sei felice; e sono felice anche per te, perché capisco che questa è la tua via. Le cose a questo mondo si possono fare in tante maniere. Noi spesso definiamo “sbagliato” ciò che è soltanto diverso. Ci sono tanti modi di pregare; ci sono tanti modi di vivere la famiglia; ci sono tanti modi di amarsi; ci sono tanti modi di pensare; ci sono tante possibilità: il tanto riflette l'immensa grandezza di Dio, la sua varietà, la sua creatività. Pretendere l’unicità, significa essere malati: in realtà noi non amiamo gli altri, ma solo noi stessi: amiamo l’altro soltanto perché è la nostra identica immagine speculare: attraverso lui, ammiriamo e amiamo noi! E non appena la nostra diversità diventerà palese, lo rinnegheremo: “Non sei più come una volta. Sei cambiato. Non mi vai più bene”. Non capiamo che se Dio ci ha creati diversi, unici, amare in questo modo vuol dire rifiutare Dio. Il nostro incontro con l’altro è falso, perché io voglio incontrare soltanto me stesso. Qui non c'è crescita, non c'è novità, non c’è vita. Diversità è incontrare qualcosa che non sono io.
L'amore maturo, l’amore vero, l’amore offerta, oblazione, servizio, è invece quello di chi realizza l'unione non perché si è uguali, ma proprio perché si è diversi. “Ti amo perché tu sei tu, perché non sei me. Amo te perché sei altro da me”. È questa l'unione vera; è questo l'amore vero; è questo il legame che deve unirci; è questo lo Spirito che incontriamo al di là di ciò che facciamo o di ciò che pensiamo; insomma è l'unione, l'incontro delle anime. Amare non è pensare le stesse cose o avere le stesse idee. Amare non è neppure fare le stesse cose. Amare è incontrarsi nello Spirito, nel profondo, nell'anima. È nella “alterità” che si costruisce la propria identità, è nella “diversità” dell’unione, che Dio si manifesta e si rende visibile. Perché Dio è amore, e la Trinità è l’essenza di questo amore.
Ecco, tutto questo, fratelli, mi suggerisce oggi la festa della Trinità, e tutto questo, anche se confusamente, ho cercato di trasmettervi.
E concludo con un’ultima considerazione: noi cristiani di oggi più che chiederci se “crediamo o non crediamo”, dovremmo chiederci invece “in quale Dio crediamo”! C’è infatti una bella differenza tra credere in un Dio giusto sì, ma severo e inflessibile giudice, la cui ira e la sua irritazione si possono placare soltanto mediante preghiere, suppliche, digiuni e penitenza, e credere al contrario in un Dio Padre amoroso e misericordioso, talmente innamorato del mondo e di ciascuno di noi in particolare, “da dare suo Figlio unigenito”! Lo so: questo è un argomento ricorrente nelle mie riflessioni, ma penso che educare la nostra fede sia una delle priorità assolute nel tempo in cui viviamo. E la festa della Trinità, la festa dell’amore trinitario, ci offre appunto l’occasione per cancellare definitivamente queste false immagini di un Dio arcigno e vendicativo, ancora conservate in qualche angolo della nostra mente.
Inondati dal dono dello Spirito, lasciamoci dunque convertire al Dio Trinitario, al Dio che Gesù ci ha rivelato. Al Dio Trinità che, lo ripeto, è amore, festa, incontro, relazione, amicizia, comunione, famiglia... Ricordiamoci che questo Dio ci ha creati espressamente a sua immagine e somiglianza: ha impresso cioè dentro di noi un DNA trinitario, per cui anche noi come Lui siamo fatti per la relazione, per l'amore, per la comunione, per la fraternità.
Festeggiare la Trinità significa pertanto riscoprire le scelte e le priorità che rendono veramente bella e sana la vita. Proviamo a chiedercelo, fratelli miei: chiediamoci, con un po' di onestà, quali sono le nostre priorità fondamentali, quelle su cui stiamo costruendo la nostra vita; chiediamoci se nelle nostre scelte familiari, professionali, vocazionali è chiaramente visibile il nostro DNA trinitario; chiediamoci con quale stile gestiamo le relazioni che quotidianamente siamo chiamati a vivere; quanto tempo regaliamo alle persone che ci vogliono bene e quanto ne investiamo a nostra volta per costruire relazioni sane e positive. Lo so, sono domande piuttosto antipatiche. Ma prima di rispondere facciamo un bel respiro e invochiamo lo Spirito perché ci aiuti a scavare nel profondo del nostro cuore e a dirci la verità. Amen!

  

domenica 5 giugno 2011

12 Giugno 2011 – Pentecoste

«Pace a voi! Come il Padre ha mandato me anch’io mando voi».
Pentecoste: sono passati cinquanta giorni dalla Pasqua. Per gli antichi il numero cinquanta era il simbolo del completamento di un certo periodo, un tempo che si concludeva: a cinquanta anni a Roma, per esempio, si era dispensati dal servizio militare; per gli ebrei il cinquantesimo anno era l'anno del giubileo, della riflessione, dove uno si fermava per riflettere su quanto c'era stato di corretto e di scorretto nella propria vita. Che la Pentecoste venga cinquanta giorni dopo la Pasqua, indica dunque che un tempo è finito, che un ciclo si è concluso: è il tempo del Gesù terreno e delle sue immediate apparizioni dopo la Pasqua.
Da oggi si apre un nuovo tempo, il tempo dell'uomo, della Chiesa, il tempo dello Spirito. Ma vediamo come sono andate le cose. Cosa è successo in particolare?
Gli apostoli, dopo la morte di Gesù, stanno attraversando un periodo di grave stato emotivo: sono presi dallo sconforto, dalla paura e dalla delusione, e si sono rifugiati tutti insieme nel cenacolo, il rifugio che ricordava loro ancora la presenza di Gesù: si sono rinchiusi all'interno, perché hanno una paura folle.
Gesù lo sa. E allora, prima di ogni altra cosa, deve tranquillizzarli, deve sgomberare il campo dalla paura.
«Venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: Pace a voi». Cioè: non abbiate paura, state tranquilli! Sono io, sono ancora qui, come prima, più di prima.
Hanno bisogno di stare insieme, gli Apostoli; sono ancora terrorizzati. Immagini strazianti sono ancora impresse nella loro mente: hanno visto cosa è accaduto a Gesù e soprattutto come è accaduto, come è stato ucciso. In una società come la loro, in cui l'individuo ha valore soltanto se appartiene ad un gruppo, ad un popolo, ad un'etnia, la paura di ritrovarsi isolati, soli, fuori dal gruppo, rifiutati, esclusi, è quanto di peggio possa loro capitare (è la morte civile). Ma come se non bastasse, hanno il terrore della sofferenza fisica; hanno paura di fare la stessa fine di Gesù; ed essi hanno ben visto che fine gli è toccata: torturato, flagellato senza pietà, crocifisso, morto lentamente sulla croce. Sono immagini che tolgono la tranquillità a persne semplici come loro. E qui, beh, obiettivamente, la gran paura ci sta proprio tutta!
Non dimentichiamo infatti che la paura è una caratteristica umana, una nostra prerogativa; per tutti c'è il momento della paura; anzi ci sono casi in cui la paura di perdere la vita, la paura di morire, arriva addirittura ad annullare nell'uomo il piacere stesso di vivere, può portare a perdere la gioia della vita, a farlo rinchiudere in se stesso; ecco perché, per vivere serenamente, dobbiamo accettare l’idea che la vita prima o poi finirà, inesorabilmente: con o senza tutte le nostre cautele, con o senza tutte le nostre precauzioni. Anzi, dobbiamo imparare a fraternizzare con “sorella nostra morte”, dobbiamo imparare a conviverci, fratelli miei; altrimenti questa nostra vita non sarà mai una vera vita. Sarebbe come morire già da subito. 
Tutto può accadere nella nostra vita: ma il futuro è nelle mani di Dio; e questo mi sembra di poter cogliere dalle parole di Gesù, quando dice: «Pace a voi». State calmi, siate sereni, non temete, non piangete inutilmente! Dovete essere più forti, dovete essere i vincitori della paura; affrontate il mondo: sono io che vi mando: sono io che vi dico «Andate»; «come il Padre ha mandato me, così io mando voi». Anche se avete tanta paura; non ce n’è motivo, andate; andate; non rimanete rinchiusi qui dentro. Uscite fuori, combattete e vincete il mondo!
Ecco, questo ha detto Gesù ai discepoli di allora; e questo Gesù ripete oggi a tutti i suoi discepoli, a tutti coloro che egli continua a mandare per le strade del mondo. Anche a noi, fratelli, Gesù ripete queste parole; perciò ascoltiamolo, diamogli credito; andiamo anche noi, senza esitazioni, nel nostro mondo contemporaneo per vivere e annunciare il suo Vangelo: certo, anche noi abbiamo paura, anche noi siamo trattenuti da mille condizionamenti; ma nulla ci può e ci deve bloccare: non la paura del rifiuto, non la previsione di sconfitte, non il rispetto umano, non il giudizio degli altri; nulla ci deve bloccare, nulla deve congelare il nostro entusiasmo di vivere la vita di Cristo, davanti e a dispetto del mondo.
Del resto, Gesù ci ha dato l’esempio, e questo ci deve confortare e sorreggere; anch’Egli nella sua vita terrena ebbe paura: in certi momenti scappò, in altri si sottrasse alle persone o si muoveva di nascosto o di notte per non farsi vedere. Negli ultimi giorni provò una paura e un'angoscia tali, da “piangere sangue”. Ma andò avanti per la sua strada, nonostante tutto. Non permise alla paura di ciò che gli sarebbe accaduto, al futuro, di bloccarlo. Continuò imperterrito (a “muso duro” dice il vangelo) nel suo viaggio, e arrivò fino in fondo.
Come già gli apostoli nel cenacolo, anche noi abbiamo un luogo in cui sentirci al sicuro; sono le nostre chiese; esse rappresentano per noi un grembo materno che ci protegge: lì ci sentiamo nel nostro ambiente, al sicuro, lì rimaniamo nascosti; ma attenzione, fino a quando rimarremo chiusi lì dentro, non potremo “vedere la luce”, non potremo mai “nascere”, la nostra vita non potrà svilupparsi, non saremo mai adulti, non potremo mai vivere autonomamente il messaggio di Gesù.
«Andate». Animo dunque. Non dobbiamo farci bloccare dalla paura, fratelli. Pentecoste è fidarsi di Gesù, è ascoltare la sua voce che ci dice: “Voi ora uscite perché avete la forza per farlo. Io sono con voi, il mio Spirito è con Voi, è dentro di voi; e con la sua forza ora voi andate fuori nel mondo e fate ciò che dovete fare”.
Ecco, fratelli, è matematico: ogni volta che confidiamo in Dio, che ci fidiamo di Lui, che accettiamo il fatto che Lui è presente nella nostra vita, che è dentro il nostro cuore, noi troveremo sempre la forza di uscire allo scoperto e di vincere tutte le paure, tutte le nostre battaglie.
«Detto questo soffiò e disse loro: Ricevete lo Spirito Santo». Gesù, alitò su di loro. Alitare su qualcuno significa trasmettergli la vita, donargli ciò che abbiamo di più intimo. Il verbo “alitare” (in greco ™mfus£w) è lo stesso usato nella Genesi per indicare l'atto creativo di Dio. Dio ci dona la sua forza, la forza con la quale egli ha agito ed ha amato: la sua forza creatrice. Un gesto meraviglioso, che si presta a due considerazioni.
La prima è che noi abbiamo la stessa forza di Gesù. Quindi prendiamo coscienza di questa forza che ci abita dentro, rendiamoci conto della nostra energia, rendiamoci conto della potenza (lo Spirito) che si è sviluppata in noi e che ci appartiene. Smettiamola di dire: “Siamo peccatori”, “siamo incapaci, sbagliamo...”, e trovare così la scusa  per non far niente. Nossignori, noi siamo potenti perché siamo un tutt’uno con lo Spirito di Dio.  Dire che non possiamo, equivale a negare la potenza di Dio; dire che siamo deboli, fragili, incapaci, significa rifiutare l’azione di Dio, preferendo quella di satana.
Certo, ammettere che abbiamo a disposizione la potenza divina, ci crea un sacco di responsabilità. Forse per questo a volte preferiamo ignorarlo; è meglio far finta di non saperlo. Perché sapere di poter cambiare la propria vita, di poter dire “no” o poter dire “sì” quando serve, di poter agire e influire sull'ambiente che ci circonda, vivere in una parola da altrettanti profeti, beh, è decisamente responsabilizzante.
La seconda considerazione è che tutto ciò che abbiamo dentro di noi in forma germinale, come seme, si risveglia e si produce, come già nella creazione, grazie allo Spirito che lo feconda. C'è infatti tutta una ricchezza, un mondo, una creazione intera che si deve sviluppare in noi. Tutto è in noi come un seme: accettare l'azione dello Spirito, vuol dire essere pronti a prenderci cura dei suoi doni, ossia delle nostre doti, delle nostre qualità, delle nostre risorse, dei nostri carismi. Gli uomini sono pieni di ricchezze ma non le sviluppano. Noi dobbiamo avere nei confronti dei doni dello Spirito le stesse attenzioni che abbiamo nei confronti dei figli: vanno curati, sviluppati, amati, ascoltati; bisogna dar loro spazio, bisogna investire tempo prezioso. Se noi facciamo così, non solo saremo felici ma ci sentiremo ricchi perché noi siamo le nostre ricchezze. Se le amiamo, amiamo noi stessi. Noi dobbiamo essere, come nella Bibbia, la “Genesi” (Gn 1-2), ossia la "creazione" di un mondo che si deve formare, sviluppare; non rimaniamo caos, non declassiamoci a un ammasso indefinito e informe. Noi conteniamo la vita.
Perché l’uomo di oggi è infelice? Perché si preoccupa di milioni di cose, ma non di se stesso. Non gli interessa; è completamente impegnato a produrre ricchezza, a sviluppare l'immagine di sé, il suo apparire, ad accrescere il suo conto in banca. Crea, ma non si crea. Sviluppa, ma non si sviluppa. Fuori è ricco, ma dentro è nella miseria più nera.
E arriviamo al versetto finale: Gesù a questo punto rende consapevoli i discepoli dell'enorme potere che hanno: «A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Qui Giovanni usa due verbi: il primo è f°jmi, perdonare, mandare via, scacciare, rimettere. Il secondo, krto, è trattenere, tenere in pugno, impossessarsi, dominare, avere dominio, spadroneggiare. In altre parole: Voi avete due possibilità: o mandate via o trattenete; o lasciate andare o tenete in pugno. Decidete voi cosa fare.
Conseguenza: il perdono deve entrare nel nostro stile di vita, fratelli; dobbiamo praticarlo sempre, anche nelle piccole situazioni di ogni giorno; e di ferite ne soffriamo a migliaia: uno sgarbo, una battuta irriguardosa, un giudizio negativo, spietato...
Dobbiamo perdonare: sempre; semmai, se lo riteniamo opportuno, possiamo esprimere con calma il nostro disappunto, possiamo far notare educatamente che abbiamo ricevuto un torto senza motivo, ma poi dobbiamo perdonare. Lasciamo che l'amarezza passi, continuiamo a vivere, buttiamoci tutto alle spalle, guardiamo avanti.
Se non perdoniamo, continuiamo a vivere immersi nel passato. Continuiamo a macerarci la mente e il cuore su ciò che doveva essere, ma che non è stato. Accettiamo la realtà, perdoniamo e continuiamo a vivere. Abbiamo questo grande potere, fratelli: non siamo in grado di prevedere ed evitare le ferite della vita, ma possiamo sempre perdonare chi ce le ha causate, perché in quel momento siamo noi che decidiamo cosa fare: se tenere o lasciare andare, se rimanere offesi o perdonare. Possiamo decidere di essere feriti una sola volta, dagli altri, se perdoniamo; ma possiamo decidere di ferirci continuamente da noi stessi, se non perdoniamo. Perdoniamo non per essere bravi ma per essere liberi. Non c'è niente di bravo in chi perdona, perché perdonare è accettare di essere feriti. Ogni ferita è un sasso che ci colpisce. Un sasso ci ha colpito e ci ha fatto male; abbiamo tra le mani questo sasso: che vogliamo farne? Vogliamo vendicarci scagliandolo al mittente? Questo non cambierà la nostra situazione, non ci toglierà la ferita ma ne provocherà una nuova nel nostro fratello.
Vogliamo utilizzare quel sasso per trasformare ogni nostro contatto, ogni nostra carezza, in una sassata per tutti? O vogliamo perdonare? Deponiamo il sasso, fratelli: lasciamolo cadere, lasciamolo rotolare per la sua strada. Se non facciamo così, ci troveremo ogni mattina ad alzarci e a guardare quel sasso. E senza che noi ce ne accorgiamo quel sasso ci penetrerà, entrerà dentro di noi, ci trasformerà, il nostro cuore diventerà come quel sasso; invece di lanciare gesti d'amore, continueremo a lanciare sassate, poiché quel sasso ha dilaniato il nostro cuore, lo ha pietrificato.
La violenza genera violenza. Solo il perdono spezza la catena. Solo il perdono spezza questo automatismo. Il domenicano Henri Lacordaire diceva: “Vuoi essere felice per un instante? Vendicati. Vuoi essere felice per sempre? Perdona”.
Allora, buona Pentecoste, fratelli: lo Spirito riempia il nostro cuore. Quando siamo tentati di non perdonare, invochiamo lo Spirito. Quando sentiamo di non essere abbastanza presi dalla Parola, invochiamo lo Spirito. Quando in parrocchia, nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità, non riusciamo a legare con nessuno, anzi finiamo col litigare con tutti per delle immense sciocchezze, invochiamo lo Spirito. Quando gli eventi della vita ci fanno letteralmente perdere la luce e tutto sembra piombare nelle tenebre più fitte, invochiamo lo Spirito. Quando siamo stanchi delle solite nostre scuse, dei soliti luoghi comuni; quando ci accorgiamo che la nostra fede e la nostra carità languono e si defilano; quando l'incendio del Vangelo si è ridotto nel nostro cuore alla brace della consuetudine, invochiamo lo Spirito. Spalanchiamo i nostri cuori e le nostre menti: che lo Spirito entri in noi, fratelli miei, che ci faccia violenza, che scardini tutte le nostre porte ancora chiuse a doppia mandata. Che mandi in frantumi le nostre finte difese, il nostro stupido schermirci; e soprattutto che risvegli nuovamente in noi l'ardore e il desiderio di amare! Amen.

  

mercoledì 1 giugno 2011

5 Giugno 2011 – Ascensione di nostro Signore

«Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Oggi la chiesa celebra la festa dell'Ascensione. Gesù lascia questa terra e sale al Padre; si ricongiunge con Lui. Un addio? Neppure per idea: «Io sono con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo», ci rassicura; per cui oggi possiamo celebrare, oltre l’Ascensione in cielo, proprio la festa di questa “Promessa di Gesù”.
I pochi versetti della pericope di oggi, concludono il vangelo di Matteo. Costituiscono la sua sintesi dottrinale: per capire bene Gesù dobbiamo partire proprio da qui, dalla conclusione della sua vita terrena. Gesù, a causa della sua crocifissione e morte, sembrava un uomo finito, uno che aveva fallito in pieno la sua missione. E invece è proprio da qui che incomincia il suo nuovo modo di esistere su questa terra. Gesù non c'è più ma ci sono gli apostoli. Gesù non c'è più, ma c'è la Chiesa. La Chiesa infatti è la presenza di Gesù nel mondo: Lui “ascende” al cielo, se ne ritorna lassù da dove era venuto, e lascia noi qui in terra, noi, i “nuovi Gesù”.
In questo passo Matteo, in verità, non fa alcun cenno all'Ascensione. Non la nomina neppure. A differenza di Luca, che nel suo Vangelo e negli Atti ne parla ampiamente, non spende una parola per questo evento importantissimo. Si limita a scrivere che Gesù (risorto ovviamente) appare agli undici e dice loro alcune cose prima di andarsene. È una scena di congedo: Gesù se ne va e lascia le sue ultime raccomandazioni, le più importanti, un po' come quando uno muore e lascia il suo testamento spirituale, le sue parole più preziose, che sintetizzano i comportamenti e gli insegnamenti di una vita intera.
Matteo apre dunque il racconto dell’incontro dei discepoli con Gesù in Galilea, sottolineando un loro doppio stato d’animo, un comportamento quanto meno contrastante: dapprima “si prostrano” per adorarlo, ma subito dopo “dubitano” di lui: sembra casuale, ma in effetti è una annotazione magistrale, perché rappresenta esattamente i due volti della Chiesa, il duplice modo di rapportarsi dei cristiani della Chiesa di allora, di oggi, di ogni tempo, nei confronti di Dio: ci sono persone che lo sentono vicino, vivo, presente e dentro la loro vita; ci sono invece altre che dubitano, che sono scettiche, che non si lasciano coinvolgere; interesse e disinteresse: sono due stati d’animo comuni all’uomo. Per questo la chiesa, fatta di uomini, non potrà mai essere l'unione di persone che credono in Dio, tutte allo stesso modo e allo stesso grado. Anni e anni di storia ce l’hanno dimostrato. Noi stessi abbiamo degli alti e bassi: in certi giorni siamo all’apice della fede, crediamo in maniera forte e convinta, in certi altri l'esperienza di Dio si affievolisce, diventa tiepida e vacillante. In certi giorni diciamo: “Dio c'è, lo sento, lo vedo, è vero!” E in altri dubitiamo: “Ma, dove sei? Perché mi fai questo? Che ti ho fatto di male? Perché non rispondi? Perché mi abbandoni?”. La chiesa non sarà mai pertanto una organizzazione perfetta: è un gruppo in cammino, composto da persone deboli, instabili, che provano seriamente, anche se con risultati alterni, di vivere già in questa vita il regno di Dio.
«A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra». Gesù mette poi in chiaro le sue credenziali: chi è e che poteri ha. Egli è il Signore della storia, ed ha un potere assoluto su ogni cosa, su tutti gli eventi e su ogni uomo. Egli è la salvezza per tutti gli uomini, nessuno escluso. Dio è di tutti, Dio è per tutti. Nessun movimento, nessuna chiesa, nessun gruppo può avere in esclusiva la salvezza di Dio. Gli Ebrei stessi ne erano convinti; come pure i farisei che riconoscevano apertamente “noi abbiamo Dio per padre”; salvo poi a macchiarsi di parricidio, di deicidio, uccidendo Dio senza troppi scrupoli.
Ma qui, secondo me, Gesù voleva dire anche un'altra cosa: nelle grandi absidi delle chiese bizantine c'è sempre una grande icona chiamata “Pantocrator”; è Gesù, il Signore di tutte le cose, che governa, che regge, che ordina, giudica, salva il mondo; Egli è seduto in trono, con la mano destra benedicente, e con la sinistra sorregge la Bibbia: il Libro della sua Parola che interroga il mondo e la storia; che interroga ciascuno di noi e che noi stessi possiamo interrogare a nostra volta, per esaminarci e vedere se siamo degni della misericordia divina. “Pantocrator”: un Dio misericordia, ma anche un Dio giusto giudice che castiga. Verrà un giorno in cui saremo messi di fronte a Lui, davanti al suo trono, e ogni cosa che ci riguarda, anche la più segreta e nascosta, verrà resa pubblica: in quel giorno il nostro animo, la nostra coscienza, il nostro cuore, la nostra vita, verranno completamente denudate, svelate, manifestate a tutti. Allora noi ci vedremo, e saremo visti da tutti, per quello che realmente siamo. Ogni nostro bluff miseramente cadrà. Ogni nostra ombra, ogni ingiustizia, ogni menzogna sarà svelata ai quattro venti, ogni bugia scoperta, ogni inganno rivelato, ogni buio sarà messo in luce. Non solo sarà evidente ciò che abbiamo fatto, ma saranno svelati anche i motivi  segreti per cui lo abbiamo fatto. Tutto avrà un nome, tutto una sua fisionomia. Scopriremo allora che dietro a molte “cose buone” c'era solo falsità, ottusità, malevolenza; viceversa, dietro a molte “cose cattive”, scopriremo invece che si celava bontà, altruismo, preghiera, l’ascolto della Parola di Dio. Avremo tante sorprese, fratelli, in quel giorno. Garantito! Ecco perché è tanto importante, già da subito servire Dio, come merita: irrobustendo la nostra fede, vivendo la carità,  ascoltando la voce dello Spirito, accogliendo la presenza di Gesù in noi; Egli c’è: l’ha detto ed è di parola; ci sta sempre accanto, sta sempre nel nostro cuore: dobbiamo semplicemente ascoltare la sua voce. Non illudiamoci, non perdiamo tempo, fratelli, perché di tanta Grazia un giorno dovremo rendergli conto.
Gesù dunque sale al cielo e lascia gli Apostoli sulla terra. Prima era Gesù il responsabile, l'incaricato dell’ annuncio; ora lui non c'è più; ma c'è la Chiesa, fratelli, ci siamo noi, ci sei tu, ci sono io. Siamo noi i nuovi responsabili. Per questo dobbiamo esserne sempre all’altezza, dobbiamo chiederci continuamente: “Ma io… faccio vedere il Cristo? Lo annuncio? I miei comportamenti, i miei gesti parlano di Lui?”.  Capite l’importanza di questo passaggio di ruoli?
Da questo momento in poi, nulla si puà più lasciare al caso; la nostra vita non può essere più la stessa di sempre: essere “spirituali” a tutto campo, infatti, vuol dire anche essere concretamente “materiali”: cioè non possiamo rifugiarci soltanto nello spirituale, nella meditazione, nel colloquio estatico con Dio, ma dobbiamo prenderci cura di questo mondo, calarci in questo mondo, percorrerlo in lungo e largo annunciando il suo messaggio. Lui ce l’ha ordinato!
Sicuramente il mondo sarebbe molto più contento se noi ce ne stessimo per conto nostro, rinchiusi nelle nostre Chiese, impegnati nelle nostre preghiere, nelle nostre liturgie. Per lui l’importante è che noi ce ne stiamo lì, buoni. L’importante è che non usciamo dalle chiese, che non pretendiamo di immischiarci nei “suoi” problemi, di avere voce sul suo squilibrio, vorrebbe che stessimo muti di fronte alle sue conquiste genetiche, che non ci impicciassimo di politiche sociali, di famiglia, di unioni omosessuali e quant’altro; che stessimo zitti di fronte a lavoro nero e sfruttamento minorile. Solo in questo modo potremo essere accettati dai potenti della terra e solo in questo modo, come contropartita, forse interverranno alle nostre feste e parteciperanno alle nostre liturgie.
Ma questo non è il comportamento di Gesù: noi infatti dobbiamo continuamente chiederci: “Cosa farebbe Gesù qui ed ora?” E questo, siamone certi, è l'unico criterio di guida valido in ogni nostra iniziativa, in ogni situazione, di fronte ad ogni persona. Perché noi, fratelli,  siamo il Gesù di questo tempo: non dobbiamo dimenticarlo mai! Lui non c'è più, è vero, ma ci siamo noi per Lui, in Lui e con Lui. E se questa realtà non ci sta bene, beh, allora smettiamola di definirci “discepoli del Maestro”: smettiamola di ingannare noi e gli altri, perché in tal caso non siamo proprio nessuno.
C'è poi il grande invito: “Andate”. “Apritevi”. Una fede chiusa, circoscritta, è una fede morta. La vera fede invece è aperta, dinamica, va sempre avanti. La fede non può sopravvivere guardando solo al passato, fagocitata dalla storia, dal vissuto: il vangelo, la tradizione e il magistero ne costituiscono la base, i presupposti, è vero; ma devono essere anche la molla che la spinge in avanti, verso il domani, verso il futuro, per aprirsi verso il prossimo, espandersi verso gli altri. Solo così la fede produce i suoi frutti.
Pensate ad un padre o ad una madre. Un buon padre, una buona madre, amano sempre il proprio figlio ma in maniera diversa, a seconda dell'età e delle esigenze dei suoi anni. Ad un anno lo coccolano, lo baciano, sono tutti lì per lui. Ma a quindici anni lo devono amare in maniera diversa: concedendogli un po' di libertà, discutendo con lui, entrando magari in conflitto con lui, ma passandogli gradualmente libertà e autonomia. Guai se il padre e la madre amassero sempre nello stesso modo i loro figli, a quindici anni come a cinque. Padre e madre sono sempre padre e madre, ma non possono rimanere nei confronti dei figli sempre gli stessi, con la stessa mentalità, con gli stessi metodi. Sarebbe assurdo, antieducativo, non vi pare? Così marito e moglie sono sempre gli stessi, ma guai se si amassero sempre alla stessa maniera. Quando sono fidanzati si amano in un modo; quando sono sposati in un altro. L'amore è sempre lo stesso amore, ma sono le sue dimostrazioni che cambiano. Anche noi siamo sempre gli stessi, eppure cambiamo con gli anni. Hai voglia!
Tutto ciò che vive cambia, si evolve, va, diviene. Nulla resta immobile nella vita. Meglio: tutto può sembrare sempre uguale, ma nulla mai resta uguale. Anche nei nostri rapporti con Dio avviene così: Dio, è sempre Dio: ma la nostra risposta alla sua chiamata d’amore cambia in funzione dell’età, della sensibilità, della disponibilità. La nostra risposta è proporzionale alla nostra fede: per questo dobbiamo accrescerla, espanderla, approfondirla. Se la nostra fede non cresce, non si matura, non trova nuovi impulsi vitali, muore. Se la chiesa non si evolve, non cresce, non cambia rispetto ai tempi che mutano, muore. Ogni tempo ha le sue sfide. La chiesa statica, che non cambia, che non si accorge dei cambiamenti, delle pressanti necessità dei fedeli di ogni epoca, diventa insensibile, insignificante.
Guardate per esempio l'Europa: la nostra è una fede invecchiata, una fede che si è lasciata accantonare senza reagire, una fede che si trascina stancamente, sulle grucce: ha perso il suo smalto di entusiasmo che la rendeva raggiante, entusiasmante, non ha saputo rinnovarsi nei giovani, ha perso la grande occasione. Qui da noi, inutile ignorarlo, il cristianesimo sta passando, sta morendo, si sta annacquando, perché la fede non si è rinnovata, non è andata, non ha camminato. Per colpa di chi? Anche nostra, fratelli, anche nostra: perché anche noi non abbiamo saputo trasmetterla a sufficienza.
Ma torniamo al testo del vangelo. Cerchiamo di rivedere la scena: Gesù ha davanti i suoi: sono dodici, anzi undici perché uno lo ha tradito; uomini semplici, impreparati, timidi, gente che dubitava. Eppure Egli si è fidato pienamente di questo gruppo di poveri uomini. Un fatto peraltro che ha già avuto diversi precedenti nella storia del popolo di Dio. Un fatto che ci deve far sussultare di gioia, fratelli: sì, perché Dio oggi si fida anche di noi, si fida di discepoli poveracci come noi, si fida di me, di te. Forse prima non ci avevamo mai pensato bene: noi forse non ci conosciamo completamente, ma Lui che ci conosce a fondo, si fida di noi, così come siamo. Del resto è Lui che ci ha creati, e Lui sa perfettamente cosa ha creato. Per questo ci invita a non farci da parte, a non tirarci indietro, vuole che, fidandoci di ciò che Lui ha creato, riconosciamo la nostra dignità di cristiani battezzati. Se noi dicessimo: “Non valgo niente... che vuole da me questo Dio?... non ce la farò mai...”, noi nel nostro cuore bestemmieremmo. È come se dicessimo: “Se sono fatto così, è stato per errore. Dio quella volta era distratto, ha creato una nullità, un incapace”. Non vi sembra che manchiamo di rispetto a Dio? Possiamo noi dare a Dio dell’ingenuo? Se Egli ci ha creati così come siamo, come possiamo pensare che si sia sbagliato? Fratelli, c’è un termine di paragone che è sempre valido: “se crediamo di più in noi stessi, crediamo di più in Dio”. Se ci fidiamo di noi, ci fidiamo di Dio. I discepoli si sono fidati di Dio quando Lui li ha mandati: hanno fatto il salto nella fede, e sono diventati grandi.
«Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». È l’assicurazione sulla vita. È la promessa che conclude il vangelo di Matteo. In altre parole Gesù ci dice: “Nutritevi di me!” Pensiamo per un attimo al creato: tutti i giorni per crescere ha bisogno di alimentarsi, ha bisogno di aria, di sole, di cibo, di acqua. Anche l'amore ha bisogno tutti i giorni di cibarsi, di nutrirsi. L'amore di ieri, oggi non serve più. Oggi è un altro giorno. Il cibo di ieri è servito per ieri. Oggi serve quello per oggi. La fede vive in noi e si rigenera se tutti i giorni noi alimentiamo e nutriamo questo rapporto. Quante volte sentiamo la gente fare domande del tipo: “Ma perché andare in chiesa tutte le domeniche? Perché trovare tempo e spazio per pregare? Perché fare silenzio?”. È come chiedersi: “Perché parlarsi tra marito e moglie, tra genitori e i figli? Perché intrattenere rapporti di carità fraterna e di educazione con il prossimo, con i propri confratelli o consorelle, con chi incontriamo? Perché mangiare ogni giorno?” Ma perché questa è la quotidianità, fratelli miei! Quotidianità significa alimentarsi ogni giorno. Se non ci nutriamo, moriamo. Se non parliamo con chi ci sta vicino, diventiamo degli estranei. Se non ci rapportiamo con i nostri figli, cresceranno senza il nostro amore. Se non concediamo al nostro cuore tempi, spazi e incontri, muore; è inutile lamentarsi, poi. Se non lo nutriamo, il nostro cuore muore. Così, non è Dio che si arrabbia se noi non lo preghiamo, se non ci cibiamo spesso del suo corpo; è il nostro cuore, la nostra anima, la nostra fede che, facendo così, pian piano deperisce e dopo un po' muore. Tutto qui.  
Se noi guardiamo la Bibbia Abramo, Mosè, Giacobbe, Geremia, Isaia, erano uomini che avevano fatto una profonda esperienza di Dio. Avevano un rapporto con Lui profondo, quotidiano, un filo diretto. Gli antichi asceti, amavano ripetere ai loro discepoli che il peccato più grosso dell'uomo è quello di dimenticarsi di Dio: è la superficialità.
La gente fa un sacco di sacrifici per vestirsi, per le vacanze, per l'auto, la casa, il giardino; ma troppo spesso non fa niente per il cuore e l'anima. È come costruire una casa sulla sabbia: non serve a nulla, ricordate? Prima o poi cade. Prima o poi tutti nodi arrivano al pettine. A che serve allora essersi dimenticati di Dio?
Cerchiamo, fratelli miei, di avere ogni giorno un rapporto vitale, forte, con il Signore e vedrete che anche tutto il resto arriverà. Preoccupiamoci del nostro cuore, del nostro amore per gli altri, e il resto verrà da sé.
Dio è con noi ogni giorno, fratelli: nutriamoci. Lui è alla nostra porta, accogliamolo; Lui è nella nostra casa, stiamogli vicino; Lui è nel nostro cammino, incontriamolo; Lui è la nostra guida, il nostro riferimento, seguiamolo; Lui è fuori di noi, perché lo possiamo vedere, è dentro di noi perché lo possiamo sentire; Lui è con noi nel buio, per essere la nostra Luce; è con noi quando siamo soli nel dolore, per essere la nostra Consolazione; Lui è con noi nella gioia, per essere nostro compagno e amico; Lui è con noi negli entusiasmi, nelle passioni e nelle avventure, per essere nostro complice, nostro eroe. Lui era con noi ieri, lo è oggi, lo sarà domani.
Amiamo dunque Gesù: amiamo il nostro Tutto: amiamolo quando lo sentiamo presente, e anche quando non lo sentiamo, perché Lui è sempre vicino, presente dentro di noi; anche quando ci sembra lontano migliaia di chilometri, anche quando lui non si fa vedere né sentire! Amiamolo, preghiamolo, interpelliamolo sempre: perché ─ come ci ha assicurato ─ Lui è sempre con noi, “tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Amen.