mercoledì 18 gennaio 2012

22 Gennaio 2012 – III Domenica del Tempo Ordinario

«Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono».
Anche oggi parliamo di “chiamata”, di vocazione. Gesù passa e guarda. E vede Simone e Andrea. Due pescatori che gettavano le reti. Ma cosa avrà mai visto Gesù di tanto interessante in quei due, da poter dire: “Questi due possono essere miei discepoli?”. In fondo stavano facendo soltanto il loro lavoro, un lavoro umile e ordinario, che nulla aveva a che vedere con quanto avrebbero poi dovuto fare. Ma Gesù ha capito al volo chi erano veramente, proprio da come preparavano il loro lavoro, da come riassettavano le reti, da come si preparavano alla pesca. Lo ha capito dalle piccole cose, dai piccoli gesti. Perché è proprio da come viviamo l’ordinario, fratelli, che gli altri possono capire chi siamo. Lo possono capire da come parliamo con chi ci sta vicino, da come trattiamo il prossimo, da come gesticoliamo, da come ci muoviamo: sono questi piccoli e insignificanti particolari che rivelano subito agli altri se siamo soddisfatti oppure no, se siamo arrabbiati con noi stessi e con la vita, oppure se viviamo “dentro” la nostra vita. È dall’ordinario del nostro vivere che appare chiaramente se siamo disponibili a seguire il Signore: dalla passione che mettiamo nel fare le cose umili, dai particolari del nostro comportamento, dalle reazioni spontanee, non studiate, incontrollate, istintive; dalla gioia e dalla serenità che naturalmente riusciamo a trasmettere.
Sì, perché la nostra felicità, la nostra gioia, non dipende tanto dal numero di cose che possediamo, dalla quantità delle nostre ricchezze, dall’opulenza, dal lusso sfrenato, quanto dal saper apprezzare quel poco che abbiamo, dal saperlo gustare, dal condividerlo con i fratelli, dal saperci accontentare sempre, dal capire che possiamo essere felici anche senza niente.
Del resto, come uno si comporta nel poco, così si comporterà anche nel molto; chi è fedele nel poco, sarà fedele anche nel molto, perché l’uomo che affronta le piccole cose quotidiane, è lo stesso che affronterà le grandi cose della vita; la stessa forza, la stessa passione, la stessa energia, lo stesso desiderio e amore che mette nelle cose piccole, li metterà anche nelle grandi.
Gesù dunque ha osservato questi uomini nella loro quotidianità, nelle piccole cose di tutti i giorni, ed è qui che ha visto la loro grandezza. Perché non è mai ciò che facciamo che ci rende grandi, ma è la cura, l’amore che ci mettiamo nel farlo, che rende grandi e importanti noi e ciò che facciamo. Gesù non aveva bisogno di chiedere a chi incontrava per la strada dei curricula studiorum o degli attestati di frequenza alle scuole rabbiniche del tempo. Nulla. A Gesù è bastato vedere queste persone nella vita di tutti i giorni per capire benissimo chi erano anche nel cuore, nell’anima. “Voi – dice Gesù – pescate con passione, pescate con amore i pesci: se lo fate con loro, sicuramente lo farete anche con gli uomini”. E fa loro a bruciapelo una proposta sconvolgente: da pescatori di pesci, diventare pescatori di uomini. Un cambiamento radicale, totale. E loro accettano. Piantano tutto e lo seguono.
Eppure, continuando a leggere il vangelo, li ritroviamo più avanti a fare lo stesso lavoro alle reti, vediamo ancora, e più volte, che continuano tranquillamente a pescare (Lc 5,1-11; Gv 21,1-8), a condurre esattamente la vita di prima, ad avere ancora rapporti con le loro case, con i loro familiari (Mc 1,29-31, ecc). Ma allora viene spontaneo chiederci: “Dov’è la differenza? In che cosa sono cambiati? Cos’è che hanno abbandonato?”
Ecco, fratelli: è la loro vecchia mentalità che essi hanno abbandonato; è il loro modo di vedere le cose, che è cambiato: è cambiato completamente il loro modo di rapportarsi col mondo. Se prima la barca (il lavoro) e la casa (la famiglia) erano l’assoluto, ora non lo sono più. Hanno capito che nella vita la cosa più importante, l’unica, è l’amore; e l’amore lo puoi ricevere solo dalle persone, non dal lavoro, non dalla casa!
Una barca non ci può amare. Una casa non ci può amare: può essere grande o piccola, in ordine o in disordine, in centro o in campagna, ma non ci può amare. Ci può ospitare, accogliere, ma non amare. E allora, fratelli, perché continuiamo a sognare case e ville sontuose, perché continuiamo a condizionare la nostra felicità al possesso di una siffatta casa, al possesso di vetture lussuose, di beni incalcolabili? La casa, le vetture, i beni, non ci possono amare e non c’è felicità senza amore! Il lavoro stesso non ci può amare. Il lavoro semmai ci fornisce i mezzi per campare, ci garantisce una certa stabilità, un qualche prestigio sociale. Ma non ci può amare. E perché allora continuiamo a lavorare come dissennati, ponendo il lavoro, la carriera, la produzione al di sopra di tutto e di tutti? Molti vivono solo per lavorare, come se non ci fosse nient’altro: non è una battuta, fratelli, è la pura verità: c’è chi è convinto che il lavoro sia l’unico scopo della loro vita; salvo poi a pentirsene quando è troppo tardi e si scoprono vecchi, depressi, tristi, ansiosi, arrabbiati; non hanno saputo mai aver tempo per Dio, per loro stessi e per gli altri!
Ecco, questo è il nostro cambiamento, fratelli; in questo consiste la grande conversione della nostra vita. Se noi crediamo che tutto quello che facciamo o abbiamo, ci renda felici, stiamo costruendo la nostra vita su una bolla di sapone. Abbiamo mai provato ad accarezzare i nostri soldi? Forse ci comunicano amore? Eppure la nostra società consumistica di oggi continua a bombardarci di messaggi fasulli, in cui ci ripete ossessivamente che il denaro, la ricchezza, il piacere, è tutto; paroloni che si rincorrono incessantemente, sempre gli stessi, con frequenza e precisione maniacale: lavoro, produzione, orari senza fine, tutti i giorni della settimana, tempi ristretti, carriera, soldi, concorrenza, libero mercato, globalizzazione.
Leggiamo il vangelo, fratelli: c’è mai scritto che Gesù lavorasse senza sosta, che fosse ansioso o angosciato per le consegne, intrattabile per la produzione o le scadenze? Che perdesse la calma per non aver raggiunto qualche “target”? No, fratelli; lo troviamo invece spesso a dare e ricevere amicizia, usare carità, tenerezza, comprensione, sicurezza, contatto a uomini e donne. Sicuramente Gesù non era ricco: ma di certo come uomo era felice e tanto amato.
Non si può essere autentici discepoli di Cristo, se non si è “liberi”. “Ecclesia” vuol dire letteralmente “i convocati fuori”. La chiesa quindi dovrebbe essere non un gruppo di persone che agiscono per piacere agli altri, per avere la loro approvazione; ma un gruppo di persone, “libere” da pressioni interiori, che non hanno altro interesse se non quello di fare umilmente e fedelmente quello per cui sono chiamate, con amore e generosità, spinte non dalle sete di consensi, ma dalla sicurezza di fare la volontà di Dio.
“Il tempo è compiuto. Il regno è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (1,15).
I primi discepoli hanno accolto l’invito di Gesù. Il tempo di scegliere, di lasciare le barche, di lasciare la loro casa, di convertirsi, cioè di cambiare vita, di cambiare modo di vedere, era proprio il loro “adesso”. Non si poteva rimandare, non si poteva far finta di nulla: e loro hanno seguito Gesù, per costruire il regno di Dio.
Quando si parla del regno di Dio, le persone sono disorientate: “Cosa vuol dire? In che consiste?”. C’è chi pensa al paradiso, all’altra vita, chi pensa a chissà cosa. Niente di tutto questo fratelli: il regno di Dio è la Vita Vera, quella reale, quella che dobbiamo vivere oggi seguendo fedelmente gli insegnamenti di Gesù. Ogni scelta, ogni sforzo, ogni azione che noi facciamo per vivere questa Vita vera, serve per realizzare il regno di Dio in noi. Ecco perché è importante scegliere adesso, perché non possiamo rimandare: perché è la scelta che cambia decisamente la nostra quotidianità. La scelta realizza, concretizza, trasforma in vita vissuta ciò che è mera possibilità.
Il Regno di Dio è agire adesso, subito: mettiamo finalmente ordine al nostro disordine interno. I discepoli hanno ricevuto una proposta: era ardita, rischiosa, provocante e fuori dai loro schemi; era controcorrente. Ma le parole di Gesù riempirono la loro anima. Sentirono i loro cuori incendiarsi di amore per Lui.
E noi che facciamo? Dio aspetta una nostra risposta,il tempo a nostra disposizione ormai sta per esaurirsi; ecco perché è importante agire adesso. Altrimenti il Regno di Dio rimane nei libri, il nostro voler ritornare ad essere “sua immagine” rimane un pio desiderio, un progetto mentale, ipotetico, mai realizzato.
Anche i primi discepoli si saranno chiesto: “Ma perché proprio noi?”; “Cosa abbiamo di speciale noi?”. Niente! Assolutamente niente. E noi come loro. Dio non ha mai scelto uomini con doti particolari, speciali, super-intelligenti o super-dotati. Ha scelto sempre persone umili, disponibili, persone pronte a farsi coinvolgere, a mettersi in gioco. Gesù non ha mai chiesto ai suoi discepoli di essere perfetti, ma disponibili, aperti: Pietro dubitò e lo rinnegò più volte; era chiamato “roccia” anche per via della sua testa dura. Giacomo e Giovanni erano presuntuosi, ed erano chiamati “figli del tuono”, proprio perché “peperini”, suscettibili, carrieristi, al punto da litigare tra loro per il posto da occupare nel futuro “regno”. Tommaso era sospettoso, dubbioso e diffidente: se non toccava, se non c’era e non vedeva, lui non ci credeva. Giuda era attaccato ai soldi e, addirittura, lo tradì. Ecco fratelli: tutte queste miserie ci confermano che Dio lavora con quel poco che ha a disposizione, e non con quello che vorrebbe. Uomini comuni, pieni di difetti, pieni di limiti e a volte immaturi; uomini, però, che si misero completamente in gioco. Il vangelo dice che “lasciarono”: lasciarono le loro idee, i loro pregiudizi, le loro fissità e lo seguirono.
Gesù passa e ci chiama. Anche a noi chiede sempre e solo una cosa: di lasciare le nostre barche, la nostra sponda, la nostra casa, di fidarci di lui e seguirlo.
Se noi non siamo convinti di poter lasciare ciò che già siamo, ciò che sappiamo, ciò che costituisce la nostra sicurezza, per incamminarci verso qualcosa di nuovo, di sconosciuto, allora, fratelli miei, noi non siamo ancora pronti per seguire Gesù.
La nostra vita, in realtà, è purtroppo un aggrapparci a tutto. Ci attacchiamo a tutto quello che ci capita a tiro - lavoro, famiglia, parenti, amici, soldi, idee - pur di non schiodare dalle nostre posizioni. Cerchiamo ovunque garanzie, certezze, rassicurazioni, vorremmo che il mondo girasse sempre secondo i nostri piani: ma questo è semplicemente assurdo.
Se ci fermiamo a pensare a quello che potrebbe succederci, è la fine; perché potrebbe succederci veramente di tutto. Se ci fissiamo a pensare al domani, al futuro, a cosa accadrà o non accadrà, se avremo o no la forza di affrontare l’imprevisto, beh, allora fratelli, lo ripeto, è davvero la fine! Il segreto della vita è invece abbandonarsi, fidarsi, smettere di pianificare tutto. Smettiamola di preoccuparci, fratelli; comportiamoci come i discepoli del vangelo di oggi: si sono donati alla Vita (l’hanno seguita) e la Vita li ha portati dove mai si sarebbero sognati di andare da soli. La Vita ha compiuto con loro un’opera meravigliosa, perché non hanno voluto essere loro a pianificare la loro vita. Anzi, l’hanno donata alla Vita: hanno cioè smesso di decidere loro, lasciando che la Vita decidesse per loro. Non si appartenevano più: nulla era cambiato, ma tutto era cambiato.
Ecco fratelli: questo è donarsi a Dio; questo è abbandonarsi a Dio; questo è seguirlo: lasciare che sia Lui a portarci là dove ci deve portare. Donarsi a Dio, seguirlo, non è realizzarci in qualcosa o diventare qualcosa; è semplicemente lasciarsi portare, lasciarsi cambiare, ricostruire, plasmare da Lui.
Dobbiamo infine convincerci, fratelli, che quel “vieni e seguimi” è una proposta di felicità, di vita piena, di vita vera, una offerta di enorme valore: non è un invito ad un giro turistico, ma l'invito ad una imitazione, ad una “sequela”: preghiamo allora con tutte le nostre forze per avere il coraggio di “andare”, di non rinunciare mai a vivere e ad essere come lui ci chiede, di non resistergli; preghiamo per avere il coraggio, come i discepoli, di lasciare tutto per diventare anche noi pescatori di uomini. Non temiamo: facciamo pure le nostre considerazioni su questa chiamata; valutiamone le paure, le responsabilità, ma anche la bellezza e la sua attrazione. Ma muoviamoci, non perdiamo tempo. Egli ci ha già chiamato, fratelli: e la risposta è ora solo nelle nostre mani. Amen.


mercoledì 11 gennaio 2012

15 Gennaio 2012 – II Domenica del Tempo Ordinario

«Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbi, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete».
Tema della Parola di oggi è “la chiamata”. La chiamata è l’irruzione di Dio nella storia di una persona. Avviene per ogni uomo ma accade solo quando una persona è disponibile, aperta, pronta ad accoglierla e soprattutto quando si lascia coinvolgere. Normalmente, quando parliamo di “chiamata” di “vocazione”, pensiamo immediatamente a preti, frati e suore. E invece no, fratelli, perché tutti siamo chiamati a seguire Cristo. Nessuno escluso. Essere preti, frati, suore, sposati, padri o madri, è solo il mezzo, il veicolo, la via che ci serve per arrivare alla meta; è la strada che ci porta a compiere ciò che dobbiamo compiere, ciò che dobbiamo diventare, ciò che dobbiamo raggiungere: testimoniare e vivere questa nostra esistenza conformandoci al nostro Maestro. Ed è importante, fratelli miei, non confondere la meta, il punto di arrivo, Cristo, con il mezzo utilizzato per raggiungerlo; sarebbe come chiamare “sinfonia” gli strumenti musicali che concorrono a suonarla.
La chiamata inoltre è individuale, personale: ma è anche in qualche modo contagiosa; si trasmette cioè da una persona all’altra per emulazione, per “mediazione”: così il Battista è una mediazione per Andrea; Andrea è una mediazione per Simon Pietro; nei versetti successivi (1,43-51) Filippo, che aveva incontrato Gesù, diventerà mediazione per Natanaele; Simon Pietro, poi, sarà una mediazione per tanti altri uomini che, a loro volta, lo sono stati, lo sono e lo saranno per i cristiani di ieri, di oggi e di domani.
Anche la fede si trasmette per “mediazione”: è cioè un virus, un passaggio, una trasmissione, un contagio. Se viviamo una cosa che ci inebria, che ci coinvolge, che ci attira, è naturale, ovvio, che ne parliamo, la comunichiamo. Come facciamo a tenerla per noi? Come facciamo a non dirla, se ci appassiona? Non ci limitiamo a dare una semplice informazione ma comunichiamo qualcosa che per noi è vitale, qualcosa che ci ha cambiato la vita. E questa, fratelli, è la testimonianza, questa è la missione. La fede non la si comunica per indottrinamento, per imposizione, inculcando e pressando dentro la testa delle persone dei concetti e delle verità, ma per contagio. “A me ha cambiato la vita. Vuoi provarci anche tu?”. “Io non sono più lo stesso, sono un altro, sono cambiato, sono felice. Questo mi è successo da quando l’ho incontrato. Vuoi provare?”. Quante esperienze, fratelli miei, abbiamo cominciato come nel vangelo, per semplice curiosità. C’è uno che dice: “Lo sai che quell’incontro è proprio bello? Sai che quell’esperienza è stata veramente bella? Sapessi quanto è brava quella persona!”. E l’altro, un po’ per amicizia, un po’ per curiosità, si fida e va. E poi non smette più di andarci.
Bisogna però essere almeno curiosi. Bisogna almeno fidarsi. Bisogna almeno provarci. Bisogna almeno lasciarsi contagiare. Bisogna, cioè, torniamo a dirlo, lasciarsi coinvolgere. La fede, come la vita, come l’amore, come tutto ciò che è intenso, è coinvolgente. Se abbiamo paura di cambiare, di metterci in gioco, di soffrire, di star male, di sentire le emozioni, non possiamo seguire il Signore. Dio è coinvolgimento totale, per questo è difficile seguirlo! Dio è coinvolgimento totale, per questo, seguirlo, è affascinante, inebriante, vitale!
Molti credono che la “chiamata” sia una telefonata speciale di Dio. Una mattina ci suona il telefono, rispondiamo, e una voce perentoria: “Sono Dio, devi seguirmi!”. E così per tutta la vita aspettiamo chissà cosa o chissà chi che ci dica come e quando; aspettiamo chissà quale fatto straordinario, che ci faccia finalmente partire. Ma in realtà il nostro è solo un pretesto per rimanere come siamo. Non ci sarà mai niente di ufficiale e di solenne, fratelli; Dio passa e ci suggerisce, attraverso un amico, una persona, una casualità, un evento fortuito, una situazione, una intuizione: “Vieni; provaci; fallo anche tu!; segui il tuo cuore”. E noi lo facciamo; perché la fede, cari fratelli, anche se debole, comporta proprio questo: fidarsi e andare (“Vieni e seguimi”). Sì, la fede è fiducia.
Pietro si fida di Andrea: è suo fratello, è pieno di entusiasmo per quest’uomo; e pensa: “Beh, perché non provarci? Perché non andare? Andiamo a vedere!”. Pensate: se Pietro non si fosse lasciato coinvolgere dall’entusiasmo di suo fratello, se non si fosse fidato, non sarebbe diventato il primo degli Apostoli, il primo Papa della Chiesa cristiana. Dio passava in quel momento e gli chiedeva di cogliere l’attimo, l’occasione, di fidarsi di suo fratello e di lasciarsi coinvolgere. Non aveva la più pallida idea di cosa sarebbe successo dopo. Ma si è fidato.
La fede è la cosa più personale che ci sia: soltanto noi, singolarmente, possiamo sentire la chiamata, cogliere l’occasione al volo e dire di sì. La responsabilità della risposta è tutta e solo nostra. La fede è la cosa più facile che ci sia, basta dire: “Sì”. Però dobbiamo scegliere. La fede è la cosa più entusiasmante che ci sia, perché ci coinvolge personalmente, vuole noi e non altri. Ma la fede è anche la cosa più difficile che ci sia, perché dobbiamo fidarci ciecamente.
In questo brano del vangelo c’è poi un bellissimo gioco di sguardi e una insistenza sul verbo “guardare”. Prima Giovanni Battista fissa lo sguardo su Gesù (1,36); poi è Gesù che fissa lo sguardo su Pietro (1,42), quindi sempre Gesù si volta e vede che lo seguono (1,38), e dice: “Venite e vedrete” (1,39). E i due discepoli, come conseguenza, “andarono e videro” (1,39).
Gli occhi dicono di una persona molto di più che tutte le sue parole. Perché gli occhi sono lo specchio dell’anima, e, fratelli, non è solo un modo di dire: gli occhi, veramente, proiettano un raggio che viene da dentro; quello che siamo, quello che abbiamo, quello che viviamo, nella nostra anima, viene visualizzato, viene rivelato dagli occhi, dallo sguardo. Se guardiamo negli occhi di una persona, possiamo vedere la sua anima. Per questo quasi mai ci guardiamo negli occhi; temiamo delle intrusioni, abbiamo quasi paura ed è come se ci dicessimo: “Io non guardo dentro di te, e tu non guardare dentro di me”.
Alcune persone hanno occhi ostili, che ci giudicano, che ci condannano; occhi magnetici, da cui siamo, come dire, presi, ingabbiati, posseduti: occhi mortiferi, occhi negativi, perché è l’anima di queste persone ad essere così. Ma ci sono anche persone con uno sguardo dolce, che salva, che ci guarisce, che ci libera, che ci fa sentire amati e riconosciuti. Occhi che sono una rugiada per le nostre paure, per le nostre debolezze, per la nostra vergogna. Sono gli occhi dell’amore perché l’anima di queste persone è piena d’amore. E noi abbiamo bisogno di essere riconosciuti. Noi tutti abbiamo bisogno di essere visti, considerati, apprezzati, amati.
Giovanni Battista “fissa lo sguardo” su Gesù e Gesù “fissa lo sguardo” su Pietro. Non è uno sguardo veloce, il loro; non un guardare fugace, soprapensiero, distratto. È un guardare penetrante, di quelli che ti scavano dentro, di quelli che ti fanno rabbrividire ed emozionare perché non guardano la pelle del viso o il colore degli occhi, ma scrutano, dentro, l’anima e il cuore.
Molti sono convinti di conoscere una persona prima ancora di vederla, di fissarla negli occhi, di conoscerla, e si fermano a questa prima impressione per emettere giudizi e sentenze. Niente di più sbagliato: per conoscere a fondo una persona, abbiamo bisogno di fissarla negli occhi, non di fissarci sulle nostre idee, sulle nostre impressioni; abbiamo bisogno di guardarla, di guardarla soprattutto dentro, di guardarla attentamente; perché le persone sono molto più rivelatrici ed esaurienti di qualsiasi nostra idea, di qualsiasi nostra teoria psicologica.
E poi abbiamo bisogno che qualcuno guardi dentro anche a noi. Abbiamo bisogno che qualcuno ci fissi, come Gesù ha fatto con Pietro; che veda ciò che abbiamo dentro e che non abbia paura (almeno lui, visto che noi a volte ne abbiamo tanta) di quello che vede, che non si vergogni di noi, ma che anzi sappia “vedere” il nostro vero volto, la nostra vera identità.
Visto all’esterno, Simon Pietro era un pescatore, uno fra i tanti, niente di speciale. Ma Gesù gli ha visto dentro: “Tu sei di più, Simon Pietro. Io credo in te. Io ho visto ciò che hai dentro. Io vedo la tua passione, il tuo fuoco, la tua sensibilità. Vedo anche la tua durezza, la tua cocciutaggine, ma vedo tutta la tua ricchezza, la tua generosità. Tu puoi essere diverso. Puoi essere un altro. Tu non sei una pietra qualunque ma una roccia”.
L’amore è così: uno entra dentro di noi e vede ciò che noi non vediamo.
Ci sono poi due domande da sottolineare: “Che cercate?” e “Dove abiti?” (1,38) e una risposta: “Venite e vedrete” (1,39). Domande e risposta che costituiscono il centro della nostra fede: Vuoi sapere chi sono? “Seguimi!”.
Gesù non ha dato una risposta, non ha fornito una soluzione, pronta e impacchettata; non ha dato un ordine secco, e non ha neppure detto cosa fare o cosa non fare. Gesù ci invita a percorrere una strada, un cammino, una via: “Venite e vedrete”. Chi vuole, lo segua. Gesù non fa una lezione di catechesi, un discorso, una bella conferenza; dice semplicemente: “Venite e vedrete”. Cioè: “State al mio fianco e voi stessi ve ne farete un’idea; venite a casa mia, ascoltate quello che dico, guardate quello che faccio”.
Gesù non ha mai costretto nessuno. Il suo è un invito, una proposta. “Seguimi”, solo se lo vuoi, se ti va. E molti, infatti, non lo seguirono allora (ricordate il giovane ricco?) e non lo seguono ora. La fede vive di libertà, così come tutto ciò che è importante (l’amore, i rapporti tra le persone). La fede cristiana non è una teoria o una serie di pratiche ma è una esperienza, un rapporto, una relazione, una comunione. È vita, perché è esperienza, rapporto con Qualcosa di Vivo.
Quanti di noi che si ritengono religiosi (e ne sono fieri!), in realtà non vivono questa fede. La loro, fratelli miei, è una fede “morta”. Perché? Perché non sanno provare misericordia per il prossimo; sono incapaci di provare la gioia dell’amore gratuito; sono impassibili, di ghiaccio, nei confronti di chi sbaglia: con loro non c’è alcuna possibilità di comunione. Non si entusiasmano, non sanno abbandonarsi a slanci di gioia, disdegnano l’immenso e la vastità della carità; non sanno commuoversi di fronte alle nuove nascite né al progressivo crescere dei bambini; sono duri, insensibili, non sanno piangere quando il loro cuore è affranto e piegato dal dolore; non c’è poesia in loro, non c’é canto, né lode, né contemplazione nella loro fede; ma solo tristezza, sentimenti tetri e funerei.
Quando invece, il “vieni e seguimi” di Gesù è completamente all’opposto. Gesù ha predicato là dove c’era vita: c’erano sì il dolore, la malattia, lo sconcerto e l’abbandono: ma erano vita! Gesù è andato proprio là dove c’erano le catene, e le ha rotte, ha portato liberazione. È andato là dove c’era dolore e sfiducia e ha portato luce. È andato dove c’era sordità e indifferenza, e ha portato la musica del cuore e dell’anima. È andato là dove le persone non camminavano, schiacciate dalle contrarietà della vita, le ha risollevate e ha dato loro dignità. È andato dove nessuno voleva andare, perché per Lui non esistono luoghi dannati, in cui un raggio della sua luce non possa arrivare. I suoi discepoli li portava tra la gente: in mezzo al dolore, alla malattia, alla disperazione, alla morte; ma anche in mezzo alla gioia, alla festa, in mezzo alla gente che si divertiva e che era viva dentro: insomma li portava ovunque c’era vita: quella vera, però, quella che spera sempre, quella che si entusiasma, quella che soffre e che si lascia anche andare, ma che è sempre pronta a rialzarsi e ripartire. Gesù non lo troviamo mai nei palazzi dei nobili, alla corte dei ricchi, nei luoghi del potere civile e religioso, dove la vita è mortificata, fissata, cristallizzata, pianificata, stabilita. Lo troviamo solo là dove la vita scorre, fluisce, diviene. Perché lui è la Vita che guarisce la vita.
Dio infatti non guariva le persone sradicandole dalla loro vita, trasferendole in altre realtà: Egli le guariva mettendole a contatto con le loro situazioni concrete, con le loro malattie, le metteva di fronte alle loro infermità, alle loro miserie, a tutto ciò che esse non volevano vedere e toccare. Questo perché, fratelli, è solo “toccando”, solo rendendoci conto delle nostre infermità, del nostro malessere, che si può guarire. Seguire quindi Gesù vuol dire prendere, toccare, mangiare, in una parola vuol dire impossessarci della nostra vita, così com’è.
Dio non lo incontriamo solo in chiesa: anzi lo incontriamo soprattutto fuori, nella vita; dentro, semmai, lo possiamo incontrare solo se la Chiesa è veramente vita, comunione, carità, e non formalità, un accavallarsi di riti e parole vuote, senza senso. È entrando nella vita, con tutte le sue variabili, le sue difficoltà, i suoi alti e bassi, le sue salite e discese, le sue ripartenze e i suoi fallimenti, le sue sfide e le sue conquiste, che noi certamente incontreremo il Dio di Gesù Cristo. È solo entrando nella nostra vita e prendendola sul serio come un dono ricevuto dalle mani di Dio, come avuta da Lui, senza esimerci, senza sottrarci, senza sfuggirla, che lo incontreremo. Purtroppo la vita (e scusate se insisto su questo) non è una strada in discesa, come piacerebbe a noi! La vita è contorta, strana, oscura, misteriosa; a volte è crudele e a volte è meravigliosa. A volte la capiamo, altre no. Dio lo sa questo; e quando ci chiama, non ci sottrae alle contraddizioni della nostra vita, ai nostri lati oscuri, alle zone di mistero, ai conflitti inevitabili o ai dubbi che ci tormentano. Dio anzi ci butta dentro tutto ciò. Ci sommerge. Gesù non ci tira mai fuori dalla nostra esistenza; Egli ci chiama a diventare suoi discepoli così come siamo.
Dio è una realtà così coinvolgente e trascinante, da farci vivere completamente con Lui e per Lui. Però, fratelli miei, se noi continuiamo ad aver paura di lasciarci andare, se non siamo pronti a buttarci tutto alle spalle, se temiamo di provare questo brivido, anche se solo dubitiamo dell’infinita ricchezza di questa vita, allora, fratelli, non saremo mai in grado di poterlo seguire. Ripeto, mai; e qualunque Sua chiamata cadrebbe puntualmente nel vuoto. Perché? perché non siamo disponibili a vivere il suo “brivido”, non abbiamo il coraggio di buttarci. Dio invece ci offre di vivere solo ad alta quota; di camminare sempre a tutta velocità, a tavoletta; di tuffarci continuamente dentro le cose con crescente entusiasmo. Egli ci prende, ci appassiona, ci attira: è irresistibile. Lo abbiamo visto con i chiamati della prima ora, gli apostoli: dopo aver accolto la Sua chiamata, non poterono più tirarsi indietro. Furono sedotti, conquistati. Per loro Dio fu letteralmente un colpo di fulmine, un blitz, una luce abbagliante, una illuminazione totale, un innamoramento senza precedenti. Ecco, questo è il punto. Questa è la realtà, fratelli: e finché Dio non sarà anche per noi fuoco, amore, luce, vita, è inutile che ci illudiamo pensando di essere suoi discepoli; non lo siamo e non lo saremo mai; se il nostro cuore non vive in Dio e per Dio, davanti alla gente possiamo anche sembrare degli ottimi cristiani, ma non arriveremo mai a conoscerlo, a viverlo così come Egli è. Quindi, fratelli, niente scuse, niente giustificazioni, né scorciatoie. È questo il nostro compito e dobbiamo assumercelo: andare e seguirlo. Come Lui ci ha insegnato. Come hanno fatto gli apostoli. Nient’altro. Amen.


martedì 3 gennaio 2012

8 Gennaio 2012 – Battesimo del Signore

«Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni».
Con la festa del Battesimo di Gesù, concludiamo il Tempo liturgico del Natale. Da domenica prossima entreremo nella prima parte del Tempo Ordinario, che terminerà con l’inizio della Quaresima.
Oggi, il vangelo ci ripropone la figura del Battista che parla di un battesimo d’acqua, preannunciando un battesimo in Spirito Santo per mano di uno “più forte di me”, che “verrà dopo di me”.
Gesù si fa dunque battezzare da Giovanni Battista con un battesimo d’acqua. Un rito con cui Egli simbolicamente ri-nasce: non a caso, infatti, il suo immergersi nel Giordano (yared, battezzare, in ebraico significa immergere) viene messo come inizio della sua vita pubblica.
Anche per noi, il battesimo d’acqua segna l’inizio della vita, la nostra nascita alla fede, ma sarà poi il battesimo di fuoco che ci renderà veri credenti. Ciò che siamo chiamati a fare è pertanto di uscire dall’anonimato, dall’essere come tutti (che equivale ad essere nessuno) e di darci un “nome”, un carattere, una fisionomia adulta; dobbiamo cioè testimoniare esattamente chi siamo: e questo è il nostro battesimo di fuoco.
Con il battesimo d’acqua semplicemente “nasciamo”, con il battesimo di fuoco diventiamo chi dobbiamo diventare: ossia dei cristiani pronti a testimoniare con la vita quanto credono e come credono; quanto siano fedeli a ciò in cui credono e che li appassiona dentro.
La chiamata (battesimo d’acqua) dei grandi personaggi della Bibbia, quella vera, quella di Dio, è sempre accompagnata da cammini, prove, viaggi difficili, duri, faticosi, durante i quali Dio forgia e purifica il suo prediletto: Noè deve costruire l’arca tra la derisione di tutti; Abramo deve partire senza conoscerne il motivo; Mosè deve attraversare il Mar Rosso e il deserto; Giobbe e Tobia compiono dei viaggi difficili e pericolosi. Sono le premesse che portano necessariamente alla purificazione, al fuoco.
La radice ebraica di “fuoco” (a-sc) è presente sia nella parola uomo (a-i-sc) che donna (a-sc-ha). Quindi, per diventare noi stessi, non importa se uomini o donne, per realizzare la nostra missione di credenti, dobbiamo necessariamente passare attraverso il fuoco.
Gesù stesso dirà: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e vorrei davvero che fosse già acceso! Ho un battesimo da ricevere (il battesimo di fuoco), e grande è la mia angoscia finché non l’avrò ricevuto. Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione…” (Lc 12,49-51).
Il vero battesimo, pertanto, sta nella nostra vita concreta, consiste nel nostro forgiarci, nel nostro costruirci, nel nostro andare verso noi stessi e gli altri.
Allora, fratelli, dobbiamo smetterla di pensare o di credere che essere cristiani voglia dire essere semplicemente battezzati. Quando fanno le inchieste e ci dicono che il 95% degli italiani sono cristiani, è falso. Il 95% saranno quelli battezzati con l’acqua; ma “essere” cristiani è un’altra cosa, vuol dire passare attraverso il battesimo del fuoco.
La gente crede ancora che “seguire Gesù” sia qualcosa di comodo, di tranquillo, di indolore; che sia sufficiente qualche pratica, andare a messa ogni tanto o dire qualche preghiera.
Nossignori, seguire Gesù è fuoco. È passione che brucia dentro; che non ci permette di rimanere indifferenti di fronte alle ingiustizie che vediamo, di fronte ad una società che uccide l’anima degli uomini, di fronte a genitori scriteriati che trattano i propri figli come se fossero delle belle marionette o dei burattini.
Seguire Gesù è passione che ci spinge ad uscire, ad esporci, a non stare zitti. Potremmo tranquillamente starcene in disparte e farci gli affari nostri, e invece no; dobbiamo metterci in gioco, rischiando in prima persona.
Seguire Gesù è fuoco purificatore che brucia tutto ciò che di impuro c’è dentro di noi. Allora ci accorgiamo che siamo noi, e non gli altri, gli invidiosi; siamo noi quelli in continua competizione, siamo noi i gelosi. Che siamo noi, e non gli altri, a non amare i fratelli; che siamo sempre noi a voler possedere, gestire, manipolare. Infine, che noi, e non gli altri, abbiamo bisogno di umiltà per cambiare, per crescere, per modificarci.
Purtroppo non è facile cambiare, fratelli miei. Non è piacevole scoprire certe meschinità dentro di noi. Per questo seguire Gesù sarà sempre difficile, impegnativo, un lavoro continuo. Nessuno mai ha detto che sarebbe stato facile! Però che sarebbe stato entusiasmante, passionale, eccitante, caldo, che ci avrebbe dato la sensazione di vivere in profondità, che la nostra vita avrebbe avuto finalmente un senso, sì, questo sì ci è stato detto e dimostrato, da uno stuolo di santi.
Dostoevskij scriveva: “Senza la sofferenza non potremmo mai capire la felicità. Un ideale passa sempre per la sofferenza, come l’oro per il fuoco. Solo con lo sforzo, con il fuoco, si può raggiungere il regno dei cieli”.
È il fuoco della prova, fratelli. Gesù ci saggia, ci purifica con il fuoco, ci fa passare per incroci pericolosi ed esigenti. Gesù ci toglie in questo modo tante nostre illusioni, tanti nostri miraggi e le bugie che ci raccontiamo. Un amico vescovo, rievocando un giorno la comune infanzia, mi disse di un nostro compagno, allontanatosi poi dalla fede: “Pensavo che il suo essere buono, allegro e propositivo dipendesse da una fede forte; invece, evidentemente, godeva solo di ottima salute!”. Facciamo allora in modo, fratelli, di non far dipendere il nostro credo dai bioritmi, da oroscopi idioti, dai falsi richiami, dai falsi entusiasmi, dai falsi stati d’animo, che poi finiscono sempre per rivelarsi frutto di autentiche paranoie! Il battesimo e la fede sono cose serie!
Abbiamo detto che la parola greca baptizein (yared in ebraico) vuol dire immergersi, entrare dentro: in questo senso, possiamo ricavarne un doppio significato, un doppio insegnamento, un doppio comportamento: uno ad extra, l'altro ad intra.
Nel primo caso “immergersi” significa “entrare dentro la vita degli altri”, non sottrarsi alle esigenze e alle chiamate di vita del nostro prossimo. Con il battesimo di fuoco dobbiamo dare forma alla nostra energia interiore, dobbiamo far uscire la passione che ci anima dentro, farci travolgere dallo zelo, e riversarlo sugli altri. Significa essere aperti. Quanti di noi invece, fratelli miei, non hanno più fuoco, non hanno più anima, non hanno più nulla, dentro di loro, da spendere per gli altri; niente di niente. Sono spinti in avanti solo dall’inerzia di una vita inutile, che si trascina stancamente giorno dopo giorno, nella routine delle solite cose. Immergersi nella vita di chi ci sta intorno, significa al contrario immergersi nella solidarietà, calarsi nelle singole situazioni. Quando succede un fatto, molti dicono in cuor loro: “Non è affare mio, si arrangino. È un problema che non mi riguarda”. Ebbene, questo non è “immergersi”, fratelli; immergersi vuol dire: “Ciò che è toccato a te, mi riguarda eccome, mi interpella direttamente; non posso rimanere indifferente, non posso chiudere gli occhi e far finta di niente”. Essere “solidali” comporta un nostro preciso atteggiamento: “Io ci sono. Io ti aiuto. Io sono dalla tua parte; perché ho un cuore che brucia, che batte prepotentemente, che ama, che si appassiona”.
Il cristiano, il battezzato, non può rimanere indifferente. Deve anzi scendere con decisione dalle sue sicurezze, dal suo io, dal suo egoismo; e darsi da fare!
Nel secondo caso, l'immersione battesimale sta per “entrare dentro la nostra anima”, scendere in profondità, nell'intimo del nostro cuore, individuare i nostri demoni, conoscerli, guardarli bene in faccia, confrontarsi con loro.
Non a caso anche Gesù, subito dopo il battesimo e prima dell’attività pubblica, ha dovuto affrontare le tentazioni. Anzi Marco ci dice che fu lo stesso Spirito del battesimo a spingere Gesù nel deserto (Mc 1,12), nella solitudine, perché si immergesse nei suoi demoni e potesse confrontarsi duramente con loro.
E noi, siamo forse speciali? No fratelli, anche noi dobbiamo saggiare le nostre forze, anche noi dobbiamo fare i conti con le nostre deformità, con le nostre inclinazioni malvagie, con le nostre debolezze; dobbiamo conoscerle bene, dobbiamo capire perfettamente quante e quali sono, per poterle combattere strategicamente e uscirne vittoriosi. È questo che ci richiede il nostro vero battesimo, quello di fuoco.
Del resto tutti abbiamo i nostri demoni più o meno nascosti (io ho i miei, e vi assicuro che a volte ne esco con le ossa rotte, con tremende batoste). Tutti noi, nessuno escluso, abbiamo una seconda facciata: quella segreta, privata, nascosta, quella che non vorremmo che gli altri vedessero mai, quella di cui molto spesso ci vergogniamo. È proprio su questa che dobbiamo lavorare sodo. È in questa che dobbiamo immergerci, per scavare, setacciare, lavare, purificare.
Lo so, è duro, fratelli, è difficile; è come passare attraverso le fiamme. Ma è da lì che dobbiamo passare. È lì, nel nostro Giordano, che dobbiamo immergerci; è lì, nel nostro deserto, che dobbiamo batterci con i demoni infidi. Perché fintanto che non li avremo individuati, affrontati e soggiogati, saranno sempre loro ad averla vinta, a dominarci; saranno loro, in definitiva, a cantare vittoria. Ripeto: non sarà affatto piacevole, anzi sarà come scendere all’inferno, ma quella è l’unica nostra possibilità.
Oggi dobbiamo dunque ri-attizzare il nostro battesimo di fuoco: dobbiamo ridargli forza e ossigeno, perché è solo così che, con la forza di Dio, dopo anche lunghe battaglie, ne usciremo sicuramente vittoriosi. Non solo vittoriosi ma completamente trasformati, grandi.
Perché, nell’ottica divina, essere “grandi” non significa essere perfetti, ma dimostrare di conoscere bene i propri demoni, il proprio niente. Essere “grande”, non significa non sbagliare mai, ma avere l’umiltà di riconoscere i propri errori. Non è andare avanti, sempre uguali, tanto per andare avanti, ma avere il coraggio di cambiarci. Dio non ci ama perché siamo perfetti, no; Dio ci ama per quello che siamo: deboli, a volte spazzatura, ma combattivi, reattivi. Gente umile ma tosta, che non si arrende mai, che ricomincia sempre daccapo, che pur di crescere in Dio, non teme il fuoco della purificazione, come l’oro nel crogiolo!
«Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento».
Il punto centrale del battesimo di Gesù non è come per l’uomo la liberazione dal peccato originale, chiaramente incompatibile con la sua natura divina, quanto l’esperienza della Voce del Padre: una esperienza che è stata decisiva per la vita di Gesù, ne ha causato la svolta: l’essersi cioè percepito Figlio del Padre, Figlio amato, prediletto, unico.
Voce e parole che Gesù risentirà identiche nella Trasfigurazione, altra esperienza forte di Dio nella sua vita umana. E per questo, rivolgendosi al Padre, Egli lo faceva dicendogli: “Padre, Abbà, papà mio”.
Gesù aveva un rapporto confidenziale con Dio, perché si sentiva amato da lui. Non lo sentiva come un superiore, come uno da temere e a cui tenere nascoste certe cose o fargli vedere solo la faccia bella, quella buona. Era suo padre e Gesù si sentiva amato e al sicuro con Lui.
Bene, fratelli: quello che qui è detto per Gesù vale per noi.
Tutti siamo infatti figli di Dio, i prediletti. Tutti, indistintamente, siamo i figli amati: 
“Tu sei amato…; tu ai miei occhi sei grande…; tu sei mio figlio prediletto…; non ti lascerò…; tu sei importante per me…; ho dato la mia vita per te…; non ti abbandonerò…; non sfuggirai dalla mia mano…; nessuno ti porterà via da me…; per quanto tu vada lontano io rimarrò sempre tuo padre e tua madre, e tu sarai sempre mio figlio…; tu non sei come nessun altro: tu sei unico per me…; qualunque cosa ti succeda, non aver mai paura, perché io sono tuo Padre…”.
Ricordate? Sono parole sue: ora, se credessimo veramente a queste parole, fratelli, niente e nessuno potrebbe mai farci paura: chi dovremmo mai temere?
L’amore umano, anche il più grande, pone sempre delle condizioni. Quello di Dio no. Il suo non è mai condizionato o condizionante. Dio non è come l’uomo. Perché Dio ci ami, noi non dobbiamo diventare chissà cosa o chissà chi; per andare bene a Dio, non dobbiamo avere successo e ricchezze, né dobbiamo diventare qualcosa di diverso da noi stessi. Non dobbiamo comportarci bene davanti agli uomini, perché Dio ci ami; non dobbiamo rinunciare alla serenità e alla felicità, perché Dio ci ami; lui ci ama comunque, per quello che siamo, nonostante tutto, così come siamo. Punto.
Dio è nostro Padre e nostra Madre: a Lui possiamo raccontare tutto; anche ciò di cui più ci vergogniamo, anche ciò che più ci fa male, ci ripugna, ci fa schifo. Lui ci ama lo stesso. Anzi ci ama di più; un po’ come quella madre che ama tutti i suoi figli, ma riserva più affetto e più cure a chi è ammalato.
È difficile per noi, fratelli miei, credere e capire che Dio ci ami così, al di là di tutto, proprio di tutto! Certo, noi vorremmo che Lui ci amasse, ma non vorremmo scoprirci, non vorremmo fargli vedere i nostri lati deboli, le nostre miserie: le cose di cui ci vergogniamo… gli errori del passato… le infedeltà… i peccati… l’odio che coviamo per molte persone… la rabbia furiosa che ci cova dentro… le nostre piccolezze o meschinità… il nostro rifiuto nei suoi confronti….
Ci rendiamo conto che il problema non è Lui, con il suo amore comunque assicurato; siamo noi, che siamo restii a farci amare. Non è lui che non ci accetta, ma siamo noi che, conoscendoci, non ci sentiamo a nostro agio, ci vergogniamo di tanta bontà. Insomma, ci rendiamo conto che anche lasciarci amare da Dio, per noi è difficile; perché è difficile, nel nostro niente, nella nostra mentalità contorta, credere ad un amore incondizionato, disinteressato, ad un amore fedele per sempre, ad un amore in cui noi non dobbiamo fare nulla, ad un amore granitico che non ci tradirà e non ci abbandonerà mai. È proprio così, fratelli! Siamo noi il problema. Allora fidiamoci, chiudiamo gli occhi e abbandoniamoci, completamente; ascoltiamo con Gesù la voce suadente del Padre che ci dice: Tu sei il mio figlio prediletto. Sì, fratelli, Dio è nostro Padre; e noi siamo tutti figli suoi! Amen.


venerdì 23 dicembre 2011

1 Gennaio 2012 – Maria SS. Madre di Dio

«Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore».
Il vangelo di oggi ci presenta Maria che “medita” su quello che le sta accadendo: giornate molto intense le sue; un figlio straordinario da accudire, e tanta gente inaspettata e impensabile che si accalca per vederlo; Maria medita sul come Dio ha agito e continua ad agire con lei, su ciò che Dio sta facendo con lei. Lei conosce bene tutti i risvolti di questa storia: perché Dio ha scelto proprio lei, una donna bambina totalmente insignificante? Nessuno mai l’avrebbe scelta, nessuno mai le avrebbe dato credito. Ma i criteri di Dio sono altri dai nostri. L’uomo guarda l’apparenza, Dio guarda il cuore!
Così anche per i pastori: «I pastori andarono senza indugio». Gente ignorante, rozza, che ascoltano immediatamente l'invito dell'angelo. Che fine hanno fatto i capi religiosi? Perché Gerusalemme non c’è? Perché gli amanti e gli eruditi della Legge non vanno a far visita a Maria e a Giuseppe? Perché ci vanno solo i pastori e i maghi, tutta gente che per quel tempo era di malaffare? Perché da sempre Dio non agisce secondo la nostra logica, i nostri criteri. Lo ha fatto ieri, lo fa oggi, lo farà domani, sempre.
È stato così per Maria, è stato così per i pastori, è stato così per i Magi. E sarà così anche per noi. Dio utilizza sempre lo stesso metodo: per le sue imprese sceglie sempre gli “scarti”, ciò che gli uomini mai sceglierebbero per le loro.
Dio ha in mente per loro, come per ciascuno di noi, un viaggio strepitoso, incredibile, eccezionale. Ma non può farlo, non può realizzarlo, se noi non ci stiamo, se noi non ci fidiamo di Lui, se noi gli resistiamo, se noi continuiamo ad opporci, a voler fare di testa nostra, a voler dirigere noi da soli la nostra vita, ad essere noi gli unici a stabilire cosa va bene per noi.
Dio invece sceglie soltanto chi è disponibile, agisce solo in chi si fida di Lui, solo in chi può dire, come Maria: “Va bene, non so dove mi vuoi portare, ma mi fido di te. Sia ciò che deve essere e andiamo! Dirigi tu la mia vita e io ti seguirò”.
Maria, Giuseppe, i pastori, i Magi, i profeti, tutti i grandi personaggi dello spirito, furono persone che si fidarono, che si misero nelle mani di Dio e si lasciarono portare, si lasciarono plasmare come morbida creta.
E non è meraviglioso riuscire a far così? “Signore, portami dove tu vuoi ed io ti seguirò”: sì, meraviglioso, perché questa è fede autentica, fratelli. Non chiacchiere.
Iniziando questo anno nuovo la liturgia ci dice di imitare Maria, di dedicare del tempo al “dentro”, di accorgerci di Dio. Purtroppo nella nostra vita spesso manca un dentro, ci lasciamo stravolgere dal vissuto, le cose insignificanti diventano fondamentali.
Siamo come bucato ammucchiato nella bacinella: ci serve un filo a cui appendere tutte le cose ad asciugare. Il nostro centro unificatore, il nostro filo, è la fede: un centro prezioso, essenziale, indispensabile.
E allora, fratelli, in questo anno che inizia, assumiamo seriamente l’impegno di ripartire nuovamente da Dio, di mettere l’ascolto della Parola, e la sua meditazione, al centro della nostra giornata. Guardiamo a Maria, viviamo ogni giorno come lei, ripetiamo continuamente con lei: “Signore, io mi fido di te; Tu conducimi e io ti seguirò, dovunque mi porterai. Smetterò di importunarti, di assillarti continuamente con le mie domande risentite sul perché certe cose succedono, sul perché succedono proprio a me, che in fin dei conti non ho fatto nulla di male; smetterò di mettere ostacoli al tuo volere, di tirarmi sempre indietro. Qualunque cosa mi accada, so che Tu vuoi così, vuoi farmi passare proprio di là. Tu hai sempre un motivo ben preciso nelle cose, ed io cercherò di capirlo, adeguandomi; e se non lo capirò, pazienza; perché comunque io mi fido di Te. So che se l’hai permesso è per il mio bene, perché devo imparare qualcosa; ed io cercherò di impararlo con tutte le mie forze. Mi lascerò trasportare da Te: Tu guidami e io ti seguirò; tu davanti e io dietro. Sempre. Promesso”.
Potessimo, fratelli miei, vivere con questa disposizione d'animo tutti giorni di questo nuovo anno! Tutte le nostre ansie svanirebbero d’incanto, e troveremmo dentro di noi una forza irresistibile, quella della fede, e una pace infinita, quella del sentirci amati.
Dio ha potuto fare con Maria tutto quello che ha fatto, perché lei è stata disponibile.
Ma Dio non ha scelto solo Maria; Dio sceglie anche tutti noi. Dio sceglie me e sceglie te.
E noi dobbiamo soltanto dirgli: “Sì”. E poi lasciarci andare, abbandonarci, lasciarci portare da Lui. Certo, nessuno mai ci garantirà che tale viaggio sarà facile; anzi sappiamo già fin d'ora che sarà un viaggio duro, intenso, senza soste; ma sarà un viaggio che ci realizzerà, che ci farà raggiungere un traguardo, che mai avremmo pensato di raggiungere da soli.
Viviamo sull’esempio di Maria. Celebrare Maria “donna del sì”, ad inizio anno, vuol dire dunque adeguarci a Lei, voler imparare tutto da lei. Vuol dire riporre nel suo cuore di mamma, tutte le nostre insicurezze; vuol dire pronunciare con lei il nostro “Sì” al Padre.
Fratelli miei, questo vuol dire fare nostra la vera pace; vuol dire raggiungere quella felicità che non tramonta mai. Perché solo così capiremo che Dio ci ama; solo così cadranno le tenebre che oscuravano i nostri occhi, e potremo finalmente specchiarci nel volto splendente di Dio.
Ed è proprio questo l'augurio che intendo formulare per ciascuno di voi oggi; me lo suggerisce la Scrittura: «Vi benedica il Signore e vi custodisca. Il Signore faccia risplendere per voi il suo volto e vi dia grazia. Il Signore rivolga a voi il suo volto e vi conceda pace» (Nm 6,24-26). “Faccia risplendere il suo volto”: uno splendido semitismo per significare il “sorriso di Dio”, la sua completa apertura nei nostri confronti, la sua più totale disponibilità e “cordialità”: immaginate? Dio ci guarda, ci sorride, e il suo volto si illumina di amore. Come un Padre amoroso, sopraffatto dall'emozione per aver finalmente ritrovato i suoi figli tanto amati, ancorché ombrosi, sospettosi, feriti, incerti, indifesi. Ecco, è questo che vi auguro cordialmente, fratelli, per i prossimi mesi: possiate sempre cogliere in tutti gli eventi della vostra vita il volto sorridente di Dio. Qualunque sia l'evento, triste o gioioso. Sì, fratelli: perché Dio ci sorride sempre; e ci sorride perché ci ama.
Ebbene, questo volto di Dio sorridente, lo abbiamo sotto i nostri occhi proprio in questi giorni, nel neonato Gesù. Dalla sua culla, il Dio bambino ci sorride; non è imbronciato, non è impenetrabile, non é scostante, né innervosito. Egli ci sorride e ci invita, ci chiama, semplicemente. Egli non deve essere mai un problema per noi. Perché non lo è. Assolutamente. Il problema, semmai, siamo noi, cari fratelli. Siamo noi, troppo spesso imbronciati, impenetrabili, nervosi; noi che nei momenti di contrarietà, di fatica e di dolore, smettiamo di guardarlo fiduciosi in volto, e ci lasciamo travolgere dallo sconforto; noi che allora non vogliamo più saperne di lui, noi che allora non scorgiamo più in Lui alcun sorriso, ma solo una “ingiusta” severità.
Ma, fratelli miei, ci rendiamo conto di quanto siamo incoerenti, di quanto siamo scorretti? Come possiamo pretendere che Dio risolva sempre, in ogni caso, i nostri problemi? Che ci appiani continuamente la strada, che ci renda la vita facile facile, senza alcuna difficoltà o avversità? La vita è un mistero, fratelli, e come tale dobbiamo accoglierla e rispettarla. E se poi la Parola ci dice che Dio ci sorride - e Dio ci sorride sempre, garantito! - ci sarà pure un motivo, non vi pare? Ci sarà pure una ragione, che magari ignoriamo, non vediamo, o  non vogliamo capire? Ma ripeto: non importa quello che pensiamo noi; quello che conta veramente è che Dio continua a sorriderci. In paziente e amorosa attesa. E questo ci deve bastare. Dobbiamo semplicemente fidarci! Come Maria. E vedrete, non ce ne pentiremo. Amen.


venerdì 16 dicembre 2011

25 Dicembre 2011 – Natale di nostro Signore Gesù Cristo

«Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».
Gesù è la più grande dimostrazione d'amore che il Padre ci abbia mai donato. Il Natale è la festa dell'amore puro, profondo, sincero e gratuito. Il Natale è la più bella notizia che si possa ancora raccontare a tutti gli uomini tristi e frastornati di questo mondo. Ce ne rendiamo conto? Un’idea simile dovrebbe commuoverci, intenerirci, farci sentire inondati di gioia! Dio, l'infinito, si è fatto vicino e si è legato in maniera irreversibile a noi per puro amore, per una sua irresistibile esplosione di bontà: questo deve farci amare la vita e deve ricolmarci di ottimismo.
In questa notte santa è impossibile non avvertire che qualcosa di grande è accaduto nel mondo. Siamo illuminati da una stella che è penetrata nel nostro buio e l'ha rischiarato per sempre. Accorgiamoci di Gesù: accogliamolo nella nostra vita e lasciamo continuare in noi quella novità e quella santità che con Lui è sbocciata a Betlemme. Dio si è fatto uomo! L'Infinito, l'Eterno, l'Onnipotente si preoccupa di noi, ha cura di noi, ha misericordia di noi. Dio l'infinto ci ama: è questa la vera, grande notizia del Natale. Ci ama al punto da mandare suo Figlio in questa storia così dura, ingrata, sterile. Dio non ha avuto paura: ha gettato il Figlio in mezzo a noi che non eravamo più figli; e continua a farlo ogni anno, perché ci ama; perché vuole caparbiamente darci un cuore nuovo, innamorato, di figli autentici.
Fratelli miei, quanta pena nei cuori degli uomini. Quanta ricerca di felicità; quante amarezze e quante sofferenze. Ebbene: noi tutti oggi sappiamo che la felicità esiste ed ha un suo recapito: Betlemme, Gesù, l'Emanuele.
Occorre uscire dalla prigione del nostro egoismo, dalla freddezza dell'indifferenza. Facciamoci piccoli e umili: andiamo a Betlemme, cioè a Cristo, apriamo il cuore ai fratelli, tendiamo la mano a chi ci sta accanto, rendiamo ospitale la nostra casa, il nostro ambiente, il nostro lavoro, il nostro paese, la nostra città, il nostro mondo. È soltanto nella via dell'amore che potremo fare esperienza di Dio. Ed è soltanto in Dio che troveremo la pace che ci manca.
Sono quattro le parole che puntualmente riecheggiano in tutti i brani che la liturgia ci propone nelle messe di Natale e del periodo natalizio: luce, gioia, bontà, pace.
Esse riassumono le caratteristiche di Gesù, il dono di Dio unico e irripetibile. Esse sintetizzano ciò che noi tutti, uomini e donne, desideriamo.
Si dice che il Natale è bello come un sogno. È vero. Perché ogni uomo e ogni donna sognano luce, gioia, bontà, pace. Un clima “da sogno” che questa festa riesce ogni anno a creare in noi con le luci, i presepi, gli alberi, le strade e le vetrine illuminate, le musiche semplici e ingenue, lo scambio di doni e di auguri, la riscoperta della famiglia, degli amici, dei lontani, di chi si trova in situazioni di angoscia e di dolore...
Lasciamoci prendere, fratelli, da questo sogno! È Dio che in Gesù vuole farci sognare una vita piena di luce, di gioia, di bontà, di pace. Come lui l'ha pensata e come noi la desideriamo. Lasciamoci penetrare da questo sogno, sempre più in profondità, in modo che diventi desiderio, progetto, impegno concreto, realtà.
Come? Lo dice Gesù: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date». Avete ricevuto da Dio luce, gioia, bontà, pace? Date il più possibile luce, gioia, bontà, pace.
Nostro compito non è il lamento, ma la testimonianza di una vita carica di questi doni. Sentiamo dire spesso: “Non ci sono più i valori di una volta! Non c'è più cristianesimo”. Ebbene, fratelli, che aspettiamo? Mettiamoceli noi questi valori! Mettiamocelo noi il cristianesimo! Questo è il nostro compito. Questo è la nostra festa di Natale.
Il Natale è bello perché riesce a far emergere il meglio di noi stessi. Impariamo allora a proiettare in tutti i giorni dell'anno questa bellezza del Natale.
Sì, fratelli: viviamo ogni giorno il Natale. Incontriamo quotidianamente Gesù, il Signore bambino, il nostro Salvatore.
Noi come lo incontriamo? dove lo troviamo oggi nella nostra vita concreta? Come possiamo accoglierlo perché sia realmente luce, pace, forza, salvezza della nostra vita e della vita del mondo e della nostra società?
Dio è con noi sempre, fratelli: anche oggi, anche domani. Noi lo possiamo incontrare nella vita della Chiesa, nella Parola di Dio, nei Sacramenti, negli uomini, nostri fratelli.
La Chiesa continua la presenza e l'opera di Gesù. Quando ascolto o leggo la Bibbia, il vangelo, è Cristo che parla al mio cuore e al cuore della Chiesa. Così quando ci accostiamo ai Sacramenti, quando ci confessiamo, quando ci comunichiamo, quando incontriamo il prossimo, è Gesù che noi incontriamo, è a Gesù che noi chiediamo perdono, è Gesù che si offre a noi in cibo, in nutrimento, in sostegno e forza.
Dio è sempre con noi, veramente: e noi possiamo essere sempre con Lui, possiamo vivere per Lui, accogliere e rendere viva la sua grazia in tutte le nostre azioni.

Dipende solo da noi: perché siamo noi che possiamo portare in ogni giornata della nostra vita, la luce e la grazia del Natale. Auguri, fratelli: buon Natale. Amen!




Ecco Dio, voi che lo aspettate fiduciosi.
Ecco Dio, voi che pensate di non averne bisogno.
Ecco Dio, voi professionisti del sacro, che l’abitudine
vi ha reso indifferenti.
Eccolo: inatteso,
sconvolgente, stordente, folle.

Un Dio che si annuncia a tutti,
anche a chi non se lo merita,
a chi non lo prega,
a chi maledice la vita.
Un Dio umile, che si fa riconoscere
dalle piccole cose,
umili compagne del nostro quotidiano.
Un Dio che ci cambia la vita;
una vita che – pur rimanendo la stessa -
assume comunque una luce diversa.

Ecco Dio, discepoli del Nazareno,
voi che in questa società dissacrata,
ancora non vi stancate di essere cristiani
di seguirlo, di pregarlo.
Ecco Dio,
anche se diverso da come noi lo vorremmo:
perché è un Dio bambino, che non risolve
magicamente i problemi,
ma ne crea, chiedendo accoglienza.
Un Dio che non condanna i malvagi,
ma che dai malvagi di sempre
è cercato per essere ucciso.
Un Dio che si rivolge ai poveri,
ai perdenti, agli inquieti, Lui per primo,
povero, perdente, inquieto per amore.

È Natale.
È il suo Natale. È il mio Natale.
Oggi, è per me, un giorno tutto nuovo:
perché Gesù vuol viverlo in me.
Lui non si è mai isolato dagli uomini:
ha camminato sempre al loro fianco.
Ma è con me,
che vuol camminare, da oggi,
tra gli uomini miei fratelli.
Incontrerà ciascuno, di quelli
che entreranno nella mia casa;
ciascuno, di quelli che incrocerò per la strada:
altri ricchi come quelli del suo tempo,
altri poveri, altri eruditi e altri ignoranti,
altri bimbi e altri vegliardi, altri santi e altri peccatori,
altri sani e altri infermi.
Tutti, sono quelli che è venuto a cercare.
Ciascuno, colui che è venuto a salvare.
Da oggi lo vuol fare con me.
A coloro che mi parleranno, "noi" avremo qualcosa di speciale da dire.
A coloro che mi oltraggeranno, "noi" avremo amore da restituire.
Ciascuno, esisterà per "noi", come se fosse l’unico.
Nel rumore alienante, troveremo nell’anima il silenzio da vivere.
Nel tumulto violento, porteremo col cuore la pace e l’amore.

Oggi, Natale, Egli esige il mio sì.
E nessuno al mondo,
di quel mondo in cui mi lascia per vivere con Lui,
può impedire la mia scelta di unirmi indissolubilmente a Lui.
Come un bimbo portato sulle braccia della madre,
io camminerò con Lui tra la folla:
Lui, vita della mia vita, luce dei miei occhi, sostegno dei miei passi.
Lui, l’inviato di Dio agli uomini di ogni tempo,
l’inviato agli uomini di questo tempo,
della mia città, del mio mondo.
Da questi fratelli miei più vicini,
che Lui mi farà servire, amare, salvare,
le onde della carità e dell'amore
raggiungeranno gli estremi della terra,
la fine dei tempi.

È Natale.
Giorno dell’amore di Dio.
Giorno indimenticabile,
perché è con me e in me,
che Gesù vuole viverlo ancora!

AUGURI!


mercoledì 14 dicembre 2011

18 Dicembre 2011 – IV Domenica di Avvento - B

«In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
Esattamente ad una settimana dal Natale, rileggiamo ancora una volta (l’abbiamo appena letto il giorno dell’Immacolata, ricordate?) l’incontro tra l’arcangelo Michele, uno dei principi degli angeli, e Maria, una inesperta ragazzina di Nazareth. Un incontro semplice, silenzioso, nascosto, che ha comunque ispirato, durante i secoli, l’arte di migliaia di pittori, scultori,poeti e scrittori, e che noi invece – noi gli evoluti del ventunesimo secolo - rischiamo di leggere con la nostra consueta superficialità, come se si trattasse di una innocente favoletta.
E, invece, no, fratelli: il vangelo di oggi ci racconta ciò che è realmente accaduto! Con tutti i particolari. Dalle poche ma magistrali pennellate di contorno, delicatamente incisive com’è nello stile di Luca, emerge prepotentemente la grandezza del pensiero di Dio. In un paesino incollato ad un pendio roccioso, lontano dalle grandi strade commerciali, in una misera ma dignitosa casupola, ricavata nella roccia, avviene l’assurdo di Dio, l’inizio di una storia diversa, una storia di salvezza. Dio, stanco di essere incompreso, decide di venire a raccontarsi. La lunghissima storia di amicizia e di amore col popolo di Israele non è stata sufficiente per farsi capire e Dio, alla fine, sceglie di farsi uomo, di diventare uno di noi: ma per farlo gli serve un corpo, ha bisogno di una madre.
E Dio non sceglie la moglie dell’imperatore, non una scienziata o un premio Nobel, non una dinamica imprenditrice dei nostri giorni; ma una piccola adolescente, Mariam (la bella). È a lei che Dio chiede di diventare la sua porta d’ingresso nel mondo. Contro ogni buon senso, Maria accetta, ci sta; ci crede immediatamente, e noi, i saggi, non sappiamo se ridere o scuotere la testa davanti a tanta meravigliosa incoscienza; restiamo senza parole davanti alla sconcertante semplicità di questo dialogo, davanti al coraggio di questa ragazza ancora acerba, che parla alla pari con l’Assoluto, che gli chiede spiegazioni e chiarimenti.
Ma Dio non guarda con i nostri occhi, non ragiona con la nostra mente. Per calarsi nella storia, Egli sceglie un umile paesino sconosciuto, Nazareth; e a Nazareth, come madre, sceglie una altrettanto umile e sconosciuta bambina, Maria.
E nel silenzio, senza pubblicità, si consuma il grande mistero della divina umanità. Nessun satellite, nessuna diretta televisiva, nessun network è riuscito a riportarci l’accaduto.
Solo un assordante silenzio ci parla ancora oggi; e ci indica le illogiche scelte di Dio. A noi che cerchiamo sempre il consenso e la notorietà, l’efficienza e la produttività, Dio propone una logica nuova, diversa, la logica del “dentro”, basata sull’essenziale, sul mistero, sulla profezia, sulla verità di sé, sui risultati imprevisti e sconcertanti.
Siamo dunque alla fine dell’Avvento: dopo la figura di Isaia, il profeta dell’annuncio del Messia, dopo il Battista, il precursore che addita il Messia già adulto, oggi è d’obbligo fermarci a meditare sulla terza grande figura dell’avvento: la figura centrale, di colei cioè che offre il suo grembo per il divino concepimento del Messia uomo.
E che messaggio ci lancia Maria? “Accogliete il Signore!”. Non soltanto in occasione dell’imminente natale, ma durante tutta la nostra vita.
Sì, fratelli: accogliamo il Signore! Perché sarebbe perfettamente inutile avergli preparato la strada, per poi alla fine non accoglierlo.
Ma cosa significa “accogliere il Signore”?
Significa fare come ha fatto Maria. Accettare i suoi progetti, le sue proposte, lasciarsi portare da Lui, fidarsi di Lui. Ogni giorno, in ogni luogo, in ogni situazione. Sempre. Significa accettare di diventare la sua casa, significa accogliere questo ospite unico, infinito, nella sua luce, nel suo amore, nella sua bontà.
“Non temere, Maria”. Certo, non è stato sicuramente facile per Maria accogliere questo progetto. Dio non le ha certamente risparmiato le enormi difficoltà di questa scelta, perché la sua doveva essere una scelta libera, da innamorata. Una risposta generosa, franca, consapevole, dettata dall’amore, capite? Non come le nostre risposte: stanche sul nascere, legate alle circostanze, succubi del rispetto umano, condizionate dai nostri calcoli e dal nostro tornaconto. Avete ancora presente il momento in cui abbiamo detto il nostro “si” a Dio? Quanti tentennamenti, quante indecisioni, quanti ripensamenti, fratelli miei. Altro che risposta libera e gioiosa: la nostra adesione è tutto un programma. Eppure dovremmo avere sempre in mente che “hilarem datorem diligit Deus: Dio ama colui che gli dà con gioia” (2Cor 9,7). Una risposta ragionata, calcolata, per Dio non è una risposta. L’adesione a Dio deve essere un contratto irrevocabile, un concordato irrinunciabile, un investimento perpetuo senza alcuna pretesa di interessi.
Certo, è sicuramente lecito avere dei dubbi. Li ha avuti anche Maria: “Come è possibile questo?”. Ma i dubbi sono a monte, precedono la risposta; devono semmai essere l’occasione per dare una risposta ancor più vincolante e cosciente, più consapevole e autonoma.
Del resto i dubbi accrescono la fede. E avere fede significa porre la propria certezza in Dio, sempre, in qualunque situazione della nostra vita, bella o triste che sia.
La fede quindi fortifica la nostra risposta, la rende ferma e immutabile, le toglie qualunque velleità di ripensamenti; fede è totale fiducia in Dio, perché “niente è impossibile a Lui”.
Anzi, come amava ripetere un vecchio maestro, “tutto è possibile a chi crede”.
"Eccomi, sono la serva del Signore"; con queste parole Maria ha fatto il suo atto di fede. Ha creduto, ha accolto Dio nella sua vita, si è affidata a Lui, ha messo la sua vita a completa disposizione di Dio. Questa è la fede, fratelli miei; questo significa credere veramente. Questo è l’esempio che dobbiamo seguire, il modo con cui anche noi dobbiamo rispondere alla nostra chiamata. La fede di Maria non è stata tanto nel credere a un certo numero di verità, quanto nell’essersi fidata ciecamente di Dio, nell’essersi completamente abbandonata a Lui.
Maria ha accolto Dio nella sua vita. Ha creduto che “nulla è impossibile a Dio”. Ha detto il suo "sì" a occhi chiusi, in maniera totale e gioiosa. Ha concepito Cristo, come dice S. Agostino, prima nel cuore che nel corpo.
È questo l’esempio luminoso che ci viene proposto oggi da Maria. Imitiamola dunque, fratelli, imitiamola con fede, “concepiamo” anche noi Gesù nel nostro cuore. Diventiamo partecipi di questa sua sublime vocazione. Del resto, come hanno scritto Origene e S. Bernardo, “che beneficio avrei, se Gesù fosse nato soltanto una volta a Betlemme, e non continuasse a nascere per fede nel mio cuore?”
Sì, fratelli: dobbiamo far nascere Gesù in noi; dobbiamo accoglierlo nella nostra vita con tanta fede, nella grazia e nella santità che ci porta, nell'amore al prossimo, così come Lui stesso ci ha insegnato durante la sua vita terrena.
E allora, fratelli miei, coraggio, animo! Proprio quando pensiamo di avere sbagliato tutto nella nostra vita, quando non siamo soddisfatti dei risultati ottenuti o ci sentiamo attratti dall’assordante richiamo del mondo, guardiamo a Nazareth, guardiamo al silenzio di Maria, alla sua umile dedizione, al suo composto modo di fare, e lasciamoci sbalordire, lasciamoci incantare da tanta semplicità e fedeltà. Anche noi, sul suo esempio, non abbandoniamo, non rinunciamo, non molliamo mai; per nessuna ragione.
Tra una settimana è Natale. Presentiamoci anche noi a Betlemme, umilmente, senza pretese, così come siamo: ascoltiamo anche noi la voce del Signore che silenziosamente dice al nostro cuore: “lasciati amare; non preoccuparti di come hai preparato il tuo avvento, sono io che ti vengo incontro!”. Capite? Che vogliamo di più da Dio, fratelli? Egli è così: noi dobbiamo solo aspettare; dobbiamo chiudere gli occhi, e lasciarci finalmente incontrare! Amen.
 
AUGURI!
Buona preparazione all’incontro col Signore!