mercoledì 8 febbraio 2012

12 Febbraio 2012 – VI Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”».
Oggi Marco ci propone il toccante incontro di Gesù con un lebbroso e la sua guarigione. Tranquilli, la malattia della lebbra è stata ormai quasi completamente debellata; non dovremmo quindi temere più di “toccare”, di “comunicare” con gli altri (la lebbra a quei tempi impediva qualunque tentativo di avvicinamento, di socializzazione). Purtroppo però oggi dobbiamo fare i conti con un’altra malattia epidemica, altrettanto invalidante: l’incomunicabilità, l’indifferenza, l’ermetismo, la chiusura totale verso gli altri. In questo senso tutti noi continuiamo ad essere dei lebbrosi; e ciascuno di noi può immedesimarsi in quel poveretto. Sì, perché la nostra vita è infestata di questa nuova lebbra, con tutte le sue variabili di isolamento e solitudine: c’è la lebbra di chi non si sopporta; di chi non sopporta il proprio fisico, il proprio carattere, la propria vita; e non si sopporta perché, quando si guarda dentro, non trova niente per cui valga la pena di impegnarsi. C’è la lebbra di chi ha sbagliato e non riesce più a ritrovare la propria dignità; c’è la lebbra della vergogna: di quando si viene additati; di quando ci viene continuamente rinfacciato il nostro errore; la lebbra di chi non si perdona, di chi confessa sempre la stessa colpa da anni, di chi si sente sempre colpevole; la lebbra della vergogna di sentirsi inferiore agli altri, per non aver studiato, per non essere brillante, per non essere fisicamente bello e attraente; c’è la lebbra dell’essere considerati inaffidabili, inesistenti, insignificanti. Ebbene, fratelli, chi di noi non si è sentito discriminato, etichettato, evitato, come il lebbroso del vangelo? Ma ci sono anche altre lebbre che fanno terra bruciata intorno a noi, essendo gli altri a farne le spese, a pagarne le dirette conseguenze: alludo alla lebbra dell’invidia, della superbia, dell’impudenza, della maldicenza, dell’avarizia, della gola, della lussuria… ; sono tutte lebbre deformanti, che di fronte ai nostri fratelli ci rendono ripugnanti nel cuore e nell’anima. Chi può mai ritenersi esente da queste forme di lebbra? Penso proprio ben pochi. Allora andiamo da Gesù, supplichiamolo anche noi! Facciamo anche noi come ha fatto il lebbroso del vangelo.
Riviviamo per un attimo la scena: il poveretto si butta in ginocchio e supplica Gesù: “Se vuoi puoi guarirmi!”. Egli sente che non può continuare a vivere così; sente che da solo non riuscirà mai a venirne fuori. Per questo si rivolge a Gesù e gli dice: “Ho bisogno di aiuto”, e si butta per terra. Buttarsi in ginocchio significa confessare la propria debolezza, la propria impotenza, ammettere di aver bisogno di qualcuno, dichiarare la propria resa totale. Chi non si crede malato non può guarire; chi si crede sano non va dal medico. Per questo il lebbroso si abbandona, e chiede a Gesù di fare tutto lui: “Se vuoi puoi guarirmi”.
E Gesù interviene. Egli prova nei confronti di tanta arrendevolezza qualcosa di forte ed intenso: è “mosso a compassione”. Il termine greco, oltre che compassione, indica addirittura un “amore materno”, un amore che tocca dentro, un amore viscerale. Un amore che compendia i sentimenti umani più vulnerabili: la misericordia, la compassione, la tenerezza, la dolcezza.
Quando un uomo è rifiutato da tutti, ha una vitale necessità di questo amore; ha bisogno cioè di essere accettato, di sentirsi gradito, importante; ha bisogno di poter sentire che c’è qualcuno che lo accoglie, che lo apprezza, che non lo evita. Perché questo è un amore che salva.
Gesù guarda questo relitto umano con occhi diversi da quelli degli altri: “Io ti conosco, credo in te; so che sotto questo tuo aspetto disgustoso, sopravvive ancora un germoglio stupendo, un qualcosa di grande e prezioso. Sei così, perché sei stato deformato dal dolore della vita; ma io vedo la tua bellezza, le tue potenzialità. E voglio che torni a risplendere”.
E l’amore “materno” di Gesù, da sentimento, diventa azione: “Stese la mano”. Il verbo “ekteino” vuol dire proprio “distendere”, un allungare le mani, protenderle: Gesù lo ama e il suo amore si fa azione, si protende verso di lui e lo tocca. Immaginiamolo quest’uomo: tutti lo rifiutano, nessuno lo vuole, tutti gli stanno alla larga, tutti dicono: “Tu sei peccatore per questo sei ammalato; tu non hai speranze”; mentre Gesù, il maestro - sfidando la religione per la quale chi toccava un lebbroso diventava lui stesso impuro – si “distende”, gli va incontro, allunga la mano e lo “tocca”; il verbo greco “apto” oltre che “toccare” indica “afferrare”: un significato che rende l’azione di Gesù ancora più amorevole: si dirige decisamente con le braccia protese verso di lui, ma l’uomo, consapevole della sua deformità, istintivamente si ritrae, tenta di scappare; ma Gesù lo “afferra”, lo trattiene con forza (“lo voglio”), e aggiunge “guarisci”. In altre parole, “sii te stesso: sii puro, sii chiaro, schietto. Torna ad essere quell’immagine che Dio ha impresso in te quando ti ha creato. Se ti liberi del rancore, dell’amarezza, della vergogna, dei rifiuti che ti hanno deturpato, riacquisterai la tua luce primordiale”.
Ecco, questo in sostanza vuol dire “guarire”: ritornare ad essere se stessi, tornare ad essere, cioè, quell’idea che Dio, la Vita, aveva in testa per noi e che i fatti e le situazioni umane hanno gradualmente deformato, alienato, distrutto. Come a dire “sii ciò che eri; ritorna ad essere esattamente quello stesso che Dio aveva in testa quando ti ha pensato”.
Perché c’è tanto scontento sulla terra, tanta infelicità? Perché le persone non vivono quello che sono: vogliono essere qualcos’altro che non sono, vogliono essere continuamente “altro”. Non si riconoscono in chi sono, e cercano affannosamente di vivere qualcosa che non sono. La felicità invece è fare esattamente ciò per cui siamo stati creati. Se vogliamo altre cose, primo, non riusciremo mai a farle e, secondo, la nostra vita sarà sempre incompleta, vana, non realizzata, inutile. Se uno non vive la propria “forma” si sforma, si deforma.
 Ci chiediamo continuamente: “Che devo fare?”. Domanda più che lecita. Ma non ci accorgiamo che intorno a noi troppe persone fasulle sono pronte a darci le “loro” risposte; e ci costringono a vivere vite non nostre, vite di altri. In realtà, la domanda che tutti dobbiamo porci, è un’altra: “Chi sono io?”. E solo Lui, sommessamente, può suggerirci la risposta. “Sii te stesso e saprai chi sei; con il mio “contatto” guarirai dalla tua lebbra e vivrai ammirandomi nella tua immagine”. Questo vivere è la sorgente della vita, della felicità, del nostro esserci.
La risposta di Gesù al lebbroso: “Lo voglio, guarisci”, stupenda, rassicurante, entusiasmante nella sua essenzialità, merita bene qualche altra considerazione.
Prima di tutto Gesù non teme di sporcarsi le mani, di contagiarsi, e tocca quel poveretto devastato dalla lebbra. Egli crede in lui. Lo conosce da sempre, lo ama; si sporca le mani, si lascia coinvolgere da lui, proprio perché lo ama: e subito l’altro inizia a guarire. Potenza dell’amore.
Un giorno una suora disse a Madre Teresa: “Madre perché i miei ammalati non trovano la pace come qui da te?”. “Perché io non lavoro per portar loro la pace; io la trovo qui con loro”. Sporcarsi le mani vuol dire condividere: “Mi metto in gioco con te e ti accompagno nella tua strada”. Questo è l’amore vero, fratelli, l’amore autentico; un amore fiducioso e lungimirante che dice: “In te c’è una sorgente pura; io la valorizzerò”.
Può succedere che anche noi, poveri lebbrosi, perdiamo il senso della nostra origine e del nostro essere; però se guardiamo bene in profondità, se abbiamo il coraggio di calarci completamente nella nostra anima, scopriremo sicuramente una piccola radice, una minuscola parte di noi che non è deformata, che non è corrotta, distrutta. È la nostra sorgente di luce interiore, che può anche essere spenta, offuscata, coperta, ma non cancellata. È come entrare in una stanza completamente buia: non si vede nulla, ma la luce c’è, basta girare l’interruttore, aprire le tapparelle. Con il soffio della vita, tutti abbiamo ricevuto questo dono di luce: ripeto, può capitare che in qualcuno non sia accesa, non risplenda, ma c’è (e continuerà ad esserci).
Ecco perché, fratelli, ogni uomo merita rispetto, onore, accoglienza. Non per quello che fa, ma per quello che è, per la sua essenza. Possiamo certamente condannare quello che fa, possiamo rifiutarlo o non accettarlo; ma dobbiamo sempre ricordare che nel suo profondo vive e sgorga la stessa nostra Sorgente Pura. È per questo che, davanti a Lui, siamo tutti uguali; è per questo che ogni uomo è mio fratello: e in questo tempo di decadimento dei valori morali, di chiusura alla religione e a Dio, di mancanza di validi riferimenti, dobbiamo riscoprire questa realtà e dare nuovo vigore alla nostra spiritualità: “Tu sei mio fratello. Non temere, camminiamo insieme, corriamo al Suo passaggio sulle strade della nostra vita, e chiediamogli a gran voce: Se vuoi, puoi purificarmi!”.
“Io lo voglio!” risponde Gesù al lebbroso; “Io lo voglio!” è sempre pronto a rispondere anche a noi. Ma noi, lo vogliamo veramente? vogliamo che Gesù ci guarisca? È importante chiederselo, perché Dio non può niente se noi non lo vogliamo. Dio può tutto, ma solo se noi lo vogliamo.
Verrebbe da dire: “Esiste forse un ammalato che non vuole guarire? Tutti lo vogliono!”. Eppure non è così, fratelli. Perché “guarire” vuol dire “rendere puro, luminoso”, portare luce nel nostro buio, ridare forza al nostro fisico stremato, fare pulizia, eliminare le impurità della nostra lebbra. Tutte cose che ci coinvolgono in prima persona, che costano fatica. Tutti vogliamo guarire, ma non tutti siamo disposti a faticare, a collaborare, a metterci del nostro, ad accettare le conseguenze della guarigione. Non possiamo guarire senza trasformarci radicalmente. Non siamo più noi, non siamo più l’originale; e dobbiamo essere noi a voler “guarire”, ad abbandonare questa nostra falsa e deformante identità per ritornare alla purezza originale. Tutti vorremmo guarire senza far nulla; senza cambiare idee; senza cambiare le nostre certezze, i nostri pensieri, il nostro modo di vivere. Ma guarire così è impensabile! Se il nostro modo di vivere e di pensare non ci guarisce, vuol dire che dobbiamo cambiare mentalità e modo di vivere: insistere sulle nostre posizioni significa ammalarsi sempre più gravemente. “Io lo voglio” continua a ripeterci Gesù. E noi che aspettiamo ancora? Affrettiamoci, “tocchiamolo”. Amen.


mercoledì 1 febbraio 2012

5 Febbraio 2012 – V Domenica del Tempo Ordinario

«La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva».
Il vangelo di oggi ci offre l’opportunità di fare una serie di considerazioni. Siamo sempre in Galilea, nella cittadina di Cafarnao, dove Gesù ha fissato la sua provvisoria dimora; e qui passava i suoi giorni “insegnando” e “guarendo”.
A questo punto Marco ci offre una notiziola, un piccolo spaccato di vita privata. Che succede? Gesù ha appena finito di parlare nella Sinagoga, e viene sollecitamente informato che la suocera di Simone è a letto con la febbre, gravemente malata. Una innocente annotazione, che però ci rivela un particolare della vita privata di Simone, il pescatore che poco prima aveva abbandonato il suo lavoro per seguire Gesù: che cioè è sposato, ha una famiglia da mantenere, possiede una casa, in cui abita con la moglie e la suocera. Quest’ultima dunque sta male, è a letto con la febbre, e per Gesù, che guarisce chiunque incontra nel suo cammino, è assolutamente naturale correre a casa di Simone e guarire la sua parente. Un normale fatto di vita quotidiana che potrebbe anche esaurirsi qui, se non fosse per un particolare che mi ha incuriosito e che mi ha spinto ad andare oltre: la “malattia” della suocera.
Marco parla di “febbre”: una febbre così alta da costringerla a letto. Ora, leggendo il testo, penso che sarà successo anche a voi di domandarvi quale fosse in realtà la vera causa di questa “febbre”. La risposta è facilmente intuibile: se pensiamo infatti che il genero di questa poveretta, l’unico uomo di casa, poche ore prima, per seguire Gesù, aveva piantato reti, barca e lavoro, distruggendo così, in un istante, la tranquillità e la sicurezza della loro esistenza, arrivando addirittura a togliere materialmente, a lei e a sua figlia, il pane di bocca, beh, i motivi per farsi cogliere da un febbrone, questa povera suocera, li aveva proprio tutti. “Ma che sta facendo questo scriteriato di Simone? È diventato matto? Come facciamo noi ora? Non siamo mica ricche noi! Non può certo permettersi una cosa del genere! Come camperemo? Sarà per caso questo Gesù che ci darà da vivere? Non si rende conto che si sta esponendo alle critiche della gente e della sinagoga? Questo Gesù per il quale lui stravede, si è già messo contro la sinagoga, e molti dicono che fa cose “pericolose”; dicono addirittura che guarisca i malati in nome del “demonio”. Possibile che quel credulone di mio genero si lasci abbindolare da un tizio come questo? Io mi vergogno perfino ad uscire di casa! Qui le cose si mettono veramente male!”. E questa poveraccia, angustiata continuamente da tali preoccupazioni, peraltro giustificabilissime, impotente di fronte alla decisione già presa dal genero, viene colta improvvisamente da un febbrone da cavallo.
La parola greca “pir” (da cui “pirèssusa” nel testo originale), indica appunto “fuoco”; e in senso derivato, “febbre, calore, alterazione”. La suocera è pertanto “infuocata”, alterata; altro che “febbricitante”, è piena di rabbia, furiosa; e più che con Simone, che considera una testa calda, un credulone, lo è soprattutto con Gesù, che considera la causa scatenante di tale situazione.
La sua “febbre” non è altro che un segnale della sua lotta interiore, è sinonimo di “rabbia” che cresce sempre più col passare delle ore; è un cartello che dice chiaramente “qui c’è guerra; state attenti!”; è il segno esteriore di quella sofferenza interiore che gli sconquassa l’anima e che ancora non riesce a buttar fuori con le parole.
Dunque la suocera sta male. E Gesù che fa? Appena lo avvisano del malessere di questa povera donna, corre subito a trovarla. Egli ha intuito immediatamente la situazione, ha capito al volo la vera causa della sua malattia. Poteva far finta di niente; poteva tranquillamente dire: “Beh, se ha qualcosa contro di me, venga a dirmelo di persona! Sono problemi suoi, non miei!”.
Ricordate invece cosa ci dice Gesù? “Seti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te,lascia lì il tuo dono davanti all’altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” Mt 5,23s). E questo è esattamente il comportamento coerente di Gesù: egli corre e va subito da lei.
Primo insegnamento: nutriamo rabbia, risentimento, odio, nei confronti di qualcuno? Non perdiamo tempo; andiamo noi da questo qualcuno, chiariamoci, confrontiamoci con lui. Perché, fratelli miei, l’odio genera altro odio e il fuoco della rabbia dissecca il cuore e acceca l’anima.
Gesù, ci dice il vangelo, «si accostò, la sollevò e la prese per mano».
“Si accostò” (prosèrchomai) vuol dire esattamente “farsi vicino”. Fra i due c’era distanza, ma Gesù si fa vicino, riduce la distanza, prende lui l’iniziativa e la incontra. “La sollevò” (egheiro, “alzarsi, svegliarsi, sollevare, risorgere”): la donna è distesa, non vuole avere a che fare con Gesù, ma Gesù le parla, le sta vicino, finché la donna gli dà ascolto e “si solleva” dalla sua paura che la domina e dalla preoccupazione per ciò che sta accadendo.
“La prese per mano”: il verbo greco “krateo” vuol dire “dominare, impadronirsi, impossessarsi, avere potenza”. Gesù vuole incontrarla, toccarla, perché vuole che questa donna “senta” chi è lui, che possa “farne esperienza” di persona, che lo possa “conoscere”, “impadronirsi” di lui. Da questo verbo deriva anche la parola “cratere”: la donna è un cratere pieno di fuoco e nella sua debolezza potrebbe esplodere; Gesù, invece, è un cratere di energia, la sua “lava” è vitale, non rimane dentro covando odio, ma si espande benefica, trasformandosi in amore, in tenerezza, in attenzione per l’altro; riducendo, annullando, la distanza che esiste con lui. A questo punto cosa accade tra Gesù e la suocera di Simone? Non sappiamo cosa si siano detti o cosa sia esattamente successo. Ma dalle poche parole del vangelo capiamo che Gesù, sentito il risentimento della donna, ha preso l’iniziativa è andato da lei, piano piano le si è avvicinato, le ha parlato; finché la donna ha capito che quell’uomo non è né un pazzo, né un fuori di testa. E lo ha accolto. Anzi, come sottolinea il vangelo, si è subito alzata ed ha iniziato a “servirli”.
Tutta la sua rabbia, il suo astio, improvvisamente sono scomparsi. Appena incontra Gesù, in lei avviene una trasformazione radicale: il suo è un passaggio simultaneo dall’ignorare Gesù, al mettersi a suo servizio; dall’odio profondo, all’amore assoluto per quest’uomo; dal volergli stare il più lontano possibile, al volergli stare sempre vicino; dal considerarlo come un nemico, al sentirlo come un amico, uno affidabile,uno su cui può contare, che è sempre con te e per te.
Secondo insegnamento: finché la donna combatte Gesù, non può guarire. Ma quando lo ascolta, lo comprende, quando si lascia toccare da lui, quando ascolta le sue ragioni, allora tutto il suo fuoco, la sua febbre e il suo odio, scompaiono.
A volte noi proviamo rancore verso i nostri fratelli, perché siamo concentrati unicamente su noi stessi: non ci mettiamo nei panni degli altri, non vogliamo ascoltarli, non vogliamo sentire le loro ragioni. Vediamo solo noi stessi e sentiamo solo il nostro dolore. Ma se riusciamo a comunicare il nostro dolore, le nostre ragioni, la nostra parte (e se loro si lasciano toccare da ciò), allora stabiliamo con loro un contatto e sarà possibile incontrarsi; e tutte le ragioni del nostro odio finalmente cadranno.
Anche quando qualcuno ce l’ha con noi, cosa possiamo fare? Come dobbiamo comportarci quando qualcuno è arrabbiato con noi? Beh, la prima reazione, quella naturale, è di stargli più alla larga possibile. Ma questo crea altra diffidenza, ingigantisce la distanza.
Impariamo invece da Gesù. Egli fa due cose.
La prima: prende lui l’iniziativa e va di persona. Spesso noi rimaniamo nella nostra rabbia, facciamo gli offesi e diciamo: “Deve venire lui da me! Con quello che mi hai fatto è il minimo che possa fare!”. Quando si è feriti è normale chiudersi: ma se rimaniamo chiusi nel risentimento non c’è possibilità di incontro; se ci chiudiamo nel silenzio e ci rifiutiamo di parlare, non risolviamo nulla.
La seconda: usa tenerezza e amore. In fin dei conti Gesù capisce le ragioni di questa donna: sa che è arrabbiata perché non lo conosce; perché lui ha un suo modo di vivere che non è “come quello di tutti”; perché Simone ha fatto una scelta radicale e difficile, contraria al buon senso, che lei non arriva ancora a capire.
Ebbene fratelli: nel mondo c’è tanta rabbia e tanto dolore: è una prerogativa della umana esistenza. Quando una persona è arrabbiata, vuol dire che nel suo intimo è ferita; e con una persona ferita, dobbiamo avere tanta comprensione, tanta delicatezza, tanta cura: altrimenti non riuscirà mai ad aprire il suo cuore. Dobbiamo ascoltarla, questa persona; dobbiamo sentire le sue ragioni e soprattutto dobbiamo capire il suo dolore. Se rimaniamo nel piano della rabbia, ci facciamo solo la guerra; se invece ci incontreremo nell’amore, allora ci capiremo, allora non saremo più indifferenti gli uni con gli altri.
Così faceva Gesù per le strade della Palestina. Tutti i giorni, per tutto il giorno.
Ma da dove prendeva tanta forza, il Signore, per riuscire ad accogliere tutti, ad ascoltarli, a guarirli? Da dove prendeva tanta energia per fare della sua vita un “annuncio” costante?
Dalla preghiera, fratelli. Da una preghiera lunga e attenta, che gli permetteva di capire la volontà del padre. Una preghiera che stupisce e affascina tutti, i discepoli e noi. Una preghiera che non è la lista della spesa da presentare a Dio, quando le cose non funzionano, ma il dialogo intimo e intenso di chi si lascia plasmare. E poiché la giornata è frenetica anche per Lui, Gesù prega di notte.
Così faceva Gesù; così dobbiamo fare anche noi, se vogliamo seguirlo come Simone e i discepoli. Rubiamogli questo suo grande “segreto”: poniamoci anche noi umilmente in un costante, intimo colloquio col Padre, che ci permetta di fare sempre della nostra vita un dono agli altri. Amen.


martedì 24 gennaio 2012

29 Gennaio 2012 – IV Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, a Cafarnao, insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi».
È sabato. Giorno sacro per gli Ebrei. Gesù, con al seguito lo sparuto gruppetto di discepoli appena chiamati, entra nella sinagoga di Cafarnao e si mette senza tanti preamboli ad insegnare; e che succede? Le persone presenti si rendono subito conto che egli, pur non essendo scriba, pur non essendo preposto all'annuncio della Parola di Dio, è decisamente su un altro livello rispetto agli scribi; si rendono immediatamente conto che, a differenza degli scribi, egli viene direttamente da Dio. Sentono le sue parole scendere in profondità nel loro cuore; sentono che sono parole cariche di umanità, di vita, di liberazione. E tra di loro sussurrano, stupiti, meravigliati: “Finalmente! Si sente che è in collegamento diretto con Dio!”.
Non è uno scriba! Ma chi erano dunque questi scribi? Originariamente erano tecnici esperti nella trascrizione dei testi sacri (scriba, sôphêr (in ebraico), significa appunto scrivano, amanuense). Progressivamente però hanno assunto una smisurata autorità nella comunità ebraica, superiore a quella del sommo sacerdote, superiore persino a quella della stessa Torah, di cui erano i custodi, gli infallibili interpreti, gli unici ad essere autorizzati a commentarla.
Ebbene: quel sabato, alla presenza di questi signori, Gesù prende in mano il rotolo e con grande serenità impartisce loro una magistrale lezione di stile e di vita, una di quelle che avrà modo di ripetere più volte anche in seguito. Siamo nella sinagoga, praticamente in casa loro: per cui se non fosse stato per il popolo presente che, “meravigliato”, si è schierato immediatamente a fianco di questo sconosciuto dalla grande “autorità”, questo gesto di Gesù si sarebbe sicuramente risolto con una dura reprimenda nei suoi confronti. Ma tant’è; anche se a malincuore, gli scribi devono fare buon viso a cattivo gioco.
Anzi il vangelo prosegue annotando ironicamente che in questa “loro” sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito immondo: una annotazione curiosa, che mi ha colpito e che mi suggerisce una domanda: perché questo poveraccio, nelle precedenti riunioni tenute dagli scribi nella “loro” sinagoga, non si era mai “ribellato”? Tento una spiegazione: perché con loro egli stava bene, si sentiva al sicuro, a suo agio. Del resto erano stati loro, con le loro dottrine, a inoculare in lui il veleno dello “spirito immondo”. Egli ha dato loro piena fiducia, ha sempre creduto e continua a credere a quanto gli hanno insegnato; non si è mai chiesto se ciò corrispondesse alla verità, se la realtà fosse questa o un’altra. Non aveva mai avuto dubbi, non si era mai fatto domande e mai si era sognato di considerare le cose da altri punti di vista. Si diceva: “Questo mi hanno insegnato, questo credevano i miei padri, questa è la verità”. Una verità che fino ad allora gli aveva sempre dato sicurezza, stabilità. È quando arriva Gesù che nascono i problemi, che tutto gli si rovescia addosso: percepisce che chi gli sta di fronte ha ben altra "autorità" rispetto agli scribi; sente che Gesù ha la sapienza, la forza e la potenza di Dio («Io so chi tu sei: il santo di Dio!»), ma egli non può accettarlo come Dio, perché ha già in cuor suo il suo Dio. E quando Gesù semplicemente guardandolo sembra dirgli: “Guarda che non è come credi tu! Guarda che Dio non è come te l'hanno insegnato!”, quando cioè si rende conto che Gesù gli sta smantellando le sue certezze, che sta demolendo le fondamenta su cui ha costruito la sua vita, si sente improvvisamente minacciato, e reagisce con violenza, affrontandolo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?». Perché non ci lasci in pace? Perché non te ne torni da dove sei venuto?
Parla al plurale, il malcapitato, perché in realtà sono in due: lui e il suo demone! 
Ebbene fratelli: quante volte anche noi abbiamo dato spazio al nostro demone, attribuendo a Dio la colpa dei nostri insuccessi, delle nostre sconfitte, dei nostri dolori, delle nostre malattie, dei nostri lutti. Non è colpa di Dio, fratelli; non è Dio che li vuole: sono purtroppo i disagi della vita, le inevitabili zavorre dell'umanità, il pesante bagaglio del nostro terreno peregrinare. Dio non c’entra! Etichettare tutto come “volontà di Dio” è molto pericoloso. Perché con l’etichetta “Dio”, individuiamo immediatamente il responsabile di tutto, e ci dispensiamo dall’andare alla radice del problema, della questione, del suo vero perché. Prendersela con Dio ci offre la giustificazione per non fare passi in avanti, per non crescere, per non cambiare, per non impegnarci, per non soffrire, per non evolvere. Questa etichettatura religiosa, fratelli, è la più forte resistenza che noi opponiamo a Dio, per giustificare la nostra mediocrità.
Inoltre, quanti di noi abbiamo fatto di un gruppo, di una setta, di un movimento religioso, il nostro Dio: il nostro bisogno di avere un “padre”, di essere cioè riconosciuti e amati da qualcuno (sia esso guru, prete, santone, maestro, non importa), di appartenere a qualcuno (gruppo, setta, associazione, movimento) è talmente forte (carenza affettiva dell’infanzia) da arrivare a “sacrificare” la nostra libertà personale, la nostra testa, pur di aderirvi. Il bisogno di appartenenza diventa talmente importante, da uccidere il bisogno di unicità, il bisogno di essere noi stessi, di fare la nostra strada.
Siamo un po’ come l’indemoniato nella sinagoga: ce ne stiamo buoni buoni. Ma quando Gesù ci smaschera, ci mette di fronte alle nostre responsabilità, allora reagiamo con una forza inaudita e gli urliamo: Che vuoi da noi? Sei venuto a rovinarci? “Non vogliamo avere nulla a che fare con te!”. Parole in cui c’è tutto il nostro rifiuto, il “no” a Gesù e alla verità. “Sei venuto a rovinarci?”. Ebbene: “Sì!”. Dio viene, e quando serve manda in frantumi le nostre impalcature, i nostri alibi, le nostre scuse, le nostre sicurezze. Dio è la rovina, la distruzione, l’uragano, il vento che spazza via tutto quanto credevamo vero, e non lo era.
Ma ascoltiamo attentamente le parole velenose dell'invasato della sinagoga: “Che c’entri con noi?”. Perché usa il plurale, se è il solo che parla? Chi sarebbero questi “noi”? È chiaro: l’uomo è posseduto dal demonio; ma qui parla anche a nome degli scribi, gli artefici di questo demone: le parole di Gesù li minacciano, li destabilizzano, mandano in rovina la loro autorità, il loro prestigio, le loro liturgie: “Invano mi prestano culto, mentre insegnano dottrine che sono precetti di uomini, annullando così la Parola di Dio(Mc 7,7.13).
“Loro”, gli scribi, (il testo dice: la lorosinagoga”) sono i detentori della verità, “loro” organizzano le liturgie, “loro” custodiscono la Scrittura dei padri, “loro” sanno cosa è puro e cosa è impuro, cosa è giusto e cosa non è giusto, chi può essere ammesso e chi non può essere ammesso. Lo dice la Bibbia, lo dicono i profeti, lo dicono tutti! Per questo “loro” possono giudicare e sentenziare sulla vita degli altri. Sono “loro” che dicono: “Questa è la fede, questo è Dio”.
Insomma sono “loro”, sempre “loro”. Ma non vi pare che oggi in quel “loro” ci siamo un po’ anche noi? Questo vangelo ci provoca parecchio, fratelli. Noi ci definiamo cristiani, cattolici e parliamo di Dio agli altri. Ma dobbiamo stare molto accorti, perché anche noi, nelle nostre chiese, nelle nostre parrocchie, nelle nostre comunità, potremmo trasformarci facilmente in altrettanti scribi.
Eh sì, fratelli miei: non capita forse anche a “noi”, oggi, di sentirci l’unica chiesa autentica, gli unici fedeli, i veri cattolici, quelli che possono tranquillamente sostituire i preti, quelli che ne sanno più di loro, quelli che hanno frequentato corsi di spiritualità, università cattoliche, specializzazioni liturgico teologiche, quelli che organizzano la carità, quelli che sono convinti di sapere già tutto, quelli che non ascoltano più alcuna direttiva pastorale perché tanto, sono convinti di aver sempre ragione loro? Credo proprio di sì: senza che ce ne rendessimo conto, siamo diventati anche noi come “loro”, come i capi della sinagoga di Cafarnao. E del suo indemoniato. Siamo purtroppo tutti infermi, siamo, un pò tutti, in preda ai nostri demoni; quei demoni che non vogliamo vedere, di cui neghiamo l'esistenza, che non vogliamo prendere in considerazione: siamo “ciechi”, ma pretendiamo di essere “guide” per gli altri, rischiando di portare anche loro nelle tenebre.
Ascoltiamo a questo proposito le parole di Gesù: “Può un demonio aprire gli occhi di un cieco?” (Gv 10,21). “Quando un cieco guida un altro cieco tutti e due cadranno in un fosso!” (Mt 15,14). “Guai a voi scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete il doppio di voi figlio della Geenna” (Mt 23,15). Parole dure, fratelli, parole dure che ci devono scuotere nell’intimo; parole che ci devono far pensare seriamente.
 «Taci! Esci da lui!» sono le parole risolutorie e salvifiche di Gesù: soltanto le sue Parole, fratelli, possono liberarci dai nostri demoni, possono strappare dal nostro cuore, dalla nostra mente, quegli spiriti immondi che ci possiedono, e guarirci.
Guarire è meraviglioso, fratelli; ci fa sentire liberi e leggeri, ci fa recuperare la nostra identità, la nostra dignità, la nostra vita.
Ma guarire “fa male”, a volte “tanto male”, è doloroso; perché è staccarsi da ciò che chiamavamo certezza (spirito) e che invece si rivela malvagio, condizionante, imprigionante (impuro). È una esperienza dura, una esperienza che richiede molto sacrificio. Guarire “fa male”, perché va ad aprire delle porte chiuse a chiave, che non vogliamo aprire perché sappiamo che lì dentro c’è qualcosa che ci fa vergognare, qualcosa di doloroso e di terribile. Per questo tentiamo con tutte le forze di evitarlo e di scappare. Per guarire però, per cauterizzare a fondo le nostre ferite, è necessario talvolta scendere nell’inferno del dolore. 
Il vangelo dice “straziandolo e gridando forte” (Mc 1,26). Ebbene: il verbo “straziare” (sparassein, tirare fuori, strappare, dilaniare, torturare) rende molto bene l’idea di questo difficile percorso, di questo drammatico distacco dal maligno: è una lacerazione interiore che però ci affranca, ci ridona la guarigione, la felicità, l’Amore, la Vita.
Non aspettiamo, fratelli, che il “nemico” ci immobilizzi; lui è sempre pronto, è il suo mestiere: “adversarius vester diabolus tamquam leo rugiens, circuit quaerens quem devoret; il vostro nemico, il diavolo, va in giro come un leone ruggente cercando qualcuno da divorare. Resistiamogli saldi nella fede” (1Pt 5,8). Questo deve essere il nostro proposito. E con Pietro vi assicuro che: “Il Dio di ogni grazia, che ci ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, egli stesso, dopo che avremo un poco sofferto, ci ristabilirà, ci confermerà, ci rafforzerà…” (Ib.).
A lui la potenza e la gloria nei secoli. Amen!


mercoledì 18 gennaio 2012

22 Gennaio 2012 – III Domenica del Tempo Ordinario

«Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono».
Anche oggi parliamo di “chiamata”, di vocazione. Gesù passa e guarda. E vede Simone e Andrea. Due pescatori che gettavano le reti. Ma cosa avrà mai visto Gesù di tanto interessante in quei due, da poter dire: “Questi due possono essere miei discepoli?”. In fondo stavano facendo soltanto il loro lavoro, un lavoro umile e ordinario, che nulla aveva a che vedere con quanto avrebbero poi dovuto fare. Ma Gesù ha capito al volo chi erano veramente, proprio da come preparavano il loro lavoro, da come riassettavano le reti, da come si preparavano alla pesca. Lo ha capito dalle piccole cose, dai piccoli gesti. Perché è proprio da come viviamo l’ordinario, fratelli, che gli altri possono capire chi siamo. Lo possono capire da come parliamo con chi ci sta vicino, da come trattiamo il prossimo, da come gesticoliamo, da come ci muoviamo: sono questi piccoli e insignificanti particolari che rivelano subito agli altri se siamo soddisfatti oppure no, se siamo arrabbiati con noi stessi e con la vita, oppure se viviamo “dentro” la nostra vita. È dall’ordinario del nostro vivere che appare chiaramente se siamo disponibili a seguire il Signore: dalla passione che mettiamo nel fare le cose umili, dai particolari del nostro comportamento, dalle reazioni spontanee, non studiate, incontrollate, istintive; dalla gioia e dalla serenità che naturalmente riusciamo a trasmettere.
Sì, perché la nostra felicità, la nostra gioia, non dipende tanto dal numero di cose che possediamo, dalla quantità delle nostre ricchezze, dall’opulenza, dal lusso sfrenato, quanto dal saper apprezzare quel poco che abbiamo, dal saperlo gustare, dal condividerlo con i fratelli, dal saperci accontentare sempre, dal capire che possiamo essere felici anche senza niente.
Del resto, come uno si comporta nel poco, così si comporterà anche nel molto; chi è fedele nel poco, sarà fedele anche nel molto, perché l’uomo che affronta le piccole cose quotidiane, è lo stesso che affronterà le grandi cose della vita; la stessa forza, la stessa passione, la stessa energia, lo stesso desiderio e amore che mette nelle cose piccole, li metterà anche nelle grandi.
Gesù dunque ha osservato questi uomini nella loro quotidianità, nelle piccole cose di tutti i giorni, ed è qui che ha visto la loro grandezza. Perché non è mai ciò che facciamo che ci rende grandi, ma è la cura, l’amore che ci mettiamo nel farlo, che rende grandi e importanti noi e ciò che facciamo. Gesù non aveva bisogno di chiedere a chi incontrava per la strada dei curricula studiorum o degli attestati di frequenza alle scuole rabbiniche del tempo. Nulla. A Gesù è bastato vedere queste persone nella vita di tutti i giorni per capire benissimo chi erano anche nel cuore, nell’anima. “Voi – dice Gesù – pescate con passione, pescate con amore i pesci: se lo fate con loro, sicuramente lo farete anche con gli uomini”. E fa loro a bruciapelo una proposta sconvolgente: da pescatori di pesci, diventare pescatori di uomini. Un cambiamento radicale, totale. E loro accettano. Piantano tutto e lo seguono.
Eppure, continuando a leggere il vangelo, li ritroviamo più avanti a fare lo stesso lavoro alle reti, vediamo ancora, e più volte, che continuano tranquillamente a pescare (Lc 5,1-11; Gv 21,1-8), a condurre esattamente la vita di prima, ad avere ancora rapporti con le loro case, con i loro familiari (Mc 1,29-31, ecc). Ma allora viene spontaneo chiederci: “Dov’è la differenza? In che cosa sono cambiati? Cos’è che hanno abbandonato?”
Ecco, fratelli: è la loro vecchia mentalità che essi hanno abbandonato; è il loro modo di vedere le cose, che è cambiato: è cambiato completamente il loro modo di rapportarsi col mondo. Se prima la barca (il lavoro) e la casa (la famiglia) erano l’assoluto, ora non lo sono più. Hanno capito che nella vita la cosa più importante, l’unica, è l’amore; e l’amore lo puoi ricevere solo dalle persone, non dal lavoro, non dalla casa!
Una barca non ci può amare. Una casa non ci può amare: può essere grande o piccola, in ordine o in disordine, in centro o in campagna, ma non ci può amare. Ci può ospitare, accogliere, ma non amare. E allora, fratelli, perché continuiamo a sognare case e ville sontuose, perché continuiamo a condizionare la nostra felicità al possesso di una siffatta casa, al possesso di vetture lussuose, di beni incalcolabili? La casa, le vetture, i beni, non ci possono amare e non c’è felicità senza amore! Il lavoro stesso non ci può amare. Il lavoro semmai ci fornisce i mezzi per campare, ci garantisce una certa stabilità, un qualche prestigio sociale. Ma non ci può amare. E perché allora continuiamo a lavorare come dissennati, ponendo il lavoro, la carriera, la produzione al di sopra di tutto e di tutti? Molti vivono solo per lavorare, come se non ci fosse nient’altro: non è una battuta, fratelli, è la pura verità: c’è chi è convinto che il lavoro sia l’unico scopo della loro vita; salvo poi a pentirsene quando è troppo tardi e si scoprono vecchi, depressi, tristi, ansiosi, arrabbiati; non hanno saputo mai aver tempo per Dio, per loro stessi e per gli altri!
Ecco, questo è il nostro cambiamento, fratelli; in questo consiste la grande conversione della nostra vita. Se noi crediamo che tutto quello che facciamo o abbiamo, ci renda felici, stiamo costruendo la nostra vita su una bolla di sapone. Abbiamo mai provato ad accarezzare i nostri soldi? Forse ci comunicano amore? Eppure la nostra società consumistica di oggi continua a bombardarci di messaggi fasulli, in cui ci ripete ossessivamente che il denaro, la ricchezza, il piacere, è tutto; paroloni che si rincorrono incessantemente, sempre gli stessi, con frequenza e precisione maniacale: lavoro, produzione, orari senza fine, tutti i giorni della settimana, tempi ristretti, carriera, soldi, concorrenza, libero mercato, globalizzazione.
Leggiamo il vangelo, fratelli: c’è mai scritto che Gesù lavorasse senza sosta, che fosse ansioso o angosciato per le consegne, intrattabile per la produzione o le scadenze? Che perdesse la calma per non aver raggiunto qualche “target”? No, fratelli; lo troviamo invece spesso a dare e ricevere amicizia, usare carità, tenerezza, comprensione, sicurezza, contatto a uomini e donne. Sicuramente Gesù non era ricco: ma di certo come uomo era felice e tanto amato.
Non si può essere autentici discepoli di Cristo, se non si è “liberi”. “Ecclesia” vuol dire letteralmente “i convocati fuori”. La chiesa quindi dovrebbe essere non un gruppo di persone che agiscono per piacere agli altri, per avere la loro approvazione; ma un gruppo di persone, “libere” da pressioni interiori, che non hanno altro interesse se non quello di fare umilmente e fedelmente quello per cui sono chiamate, con amore e generosità, spinte non dalle sete di consensi, ma dalla sicurezza di fare la volontà di Dio.
“Il tempo è compiuto. Il regno è vicino; convertitevi e credete al vangelo” (1,15).
I primi discepoli hanno accolto l’invito di Gesù. Il tempo di scegliere, di lasciare le barche, di lasciare la loro casa, di convertirsi, cioè di cambiare vita, di cambiare modo di vedere, era proprio il loro “adesso”. Non si poteva rimandare, non si poteva far finta di nulla: e loro hanno seguito Gesù, per costruire il regno di Dio.
Quando si parla del regno di Dio, le persone sono disorientate: “Cosa vuol dire? In che consiste?”. C’è chi pensa al paradiso, all’altra vita, chi pensa a chissà cosa. Niente di tutto questo fratelli: il regno di Dio è la Vita Vera, quella reale, quella che dobbiamo vivere oggi seguendo fedelmente gli insegnamenti di Gesù. Ogni scelta, ogni sforzo, ogni azione che noi facciamo per vivere questa Vita vera, serve per realizzare il regno di Dio in noi. Ecco perché è importante scegliere adesso, perché non possiamo rimandare: perché è la scelta che cambia decisamente la nostra quotidianità. La scelta realizza, concretizza, trasforma in vita vissuta ciò che è mera possibilità.
Il Regno di Dio è agire adesso, subito: mettiamo finalmente ordine al nostro disordine interno. I discepoli hanno ricevuto una proposta: era ardita, rischiosa, provocante e fuori dai loro schemi; era controcorrente. Ma le parole di Gesù riempirono la loro anima. Sentirono i loro cuori incendiarsi di amore per Lui.
E noi che facciamo? Dio aspetta una nostra risposta,il tempo a nostra disposizione ormai sta per esaurirsi; ecco perché è importante agire adesso. Altrimenti il Regno di Dio rimane nei libri, il nostro voler ritornare ad essere “sua immagine” rimane un pio desiderio, un progetto mentale, ipotetico, mai realizzato.
Anche i primi discepoli si saranno chiesto: “Ma perché proprio noi?”; “Cosa abbiamo di speciale noi?”. Niente! Assolutamente niente. E noi come loro. Dio non ha mai scelto uomini con doti particolari, speciali, super-intelligenti o super-dotati. Ha scelto sempre persone umili, disponibili, persone pronte a farsi coinvolgere, a mettersi in gioco. Gesù non ha mai chiesto ai suoi discepoli di essere perfetti, ma disponibili, aperti: Pietro dubitò e lo rinnegò più volte; era chiamato “roccia” anche per via della sua testa dura. Giacomo e Giovanni erano presuntuosi, ed erano chiamati “figli del tuono”, proprio perché “peperini”, suscettibili, carrieristi, al punto da litigare tra loro per il posto da occupare nel futuro “regno”. Tommaso era sospettoso, dubbioso e diffidente: se non toccava, se non c’era e non vedeva, lui non ci credeva. Giuda era attaccato ai soldi e, addirittura, lo tradì. Ecco fratelli: tutte queste miserie ci confermano che Dio lavora con quel poco che ha a disposizione, e non con quello che vorrebbe. Uomini comuni, pieni di difetti, pieni di limiti e a volte immaturi; uomini, però, che si misero completamente in gioco. Il vangelo dice che “lasciarono”: lasciarono le loro idee, i loro pregiudizi, le loro fissità e lo seguirono.
Gesù passa e ci chiama. Anche a noi chiede sempre e solo una cosa: di lasciare le nostre barche, la nostra sponda, la nostra casa, di fidarci di lui e seguirlo.
Se noi non siamo convinti di poter lasciare ciò che già siamo, ciò che sappiamo, ciò che costituisce la nostra sicurezza, per incamminarci verso qualcosa di nuovo, di sconosciuto, allora, fratelli miei, noi non siamo ancora pronti per seguire Gesù.
La nostra vita, in realtà, è purtroppo un aggrapparci a tutto. Ci attacchiamo a tutto quello che ci capita a tiro - lavoro, famiglia, parenti, amici, soldi, idee - pur di non schiodare dalle nostre posizioni. Cerchiamo ovunque garanzie, certezze, rassicurazioni, vorremmo che il mondo girasse sempre secondo i nostri piani: ma questo è semplicemente assurdo.
Se ci fermiamo a pensare a quello che potrebbe succederci, è la fine; perché potrebbe succederci veramente di tutto. Se ci fissiamo a pensare al domani, al futuro, a cosa accadrà o non accadrà, se avremo o no la forza di affrontare l’imprevisto, beh, allora fratelli, lo ripeto, è davvero la fine! Il segreto della vita è invece abbandonarsi, fidarsi, smettere di pianificare tutto. Smettiamola di preoccuparci, fratelli; comportiamoci come i discepoli del vangelo di oggi: si sono donati alla Vita (l’hanno seguita) e la Vita li ha portati dove mai si sarebbero sognati di andare da soli. La Vita ha compiuto con loro un’opera meravigliosa, perché non hanno voluto essere loro a pianificare la loro vita. Anzi, l’hanno donata alla Vita: hanno cioè smesso di decidere loro, lasciando che la Vita decidesse per loro. Non si appartenevano più: nulla era cambiato, ma tutto era cambiato.
Ecco fratelli: questo è donarsi a Dio; questo è abbandonarsi a Dio; questo è seguirlo: lasciare che sia Lui a portarci là dove ci deve portare. Donarsi a Dio, seguirlo, non è realizzarci in qualcosa o diventare qualcosa; è semplicemente lasciarsi portare, lasciarsi cambiare, ricostruire, plasmare da Lui.
Dobbiamo infine convincerci, fratelli, che quel “vieni e seguimi” è una proposta di felicità, di vita piena, di vita vera, una offerta di enorme valore: non è un invito ad un giro turistico, ma l'invito ad una imitazione, ad una “sequela”: preghiamo allora con tutte le nostre forze per avere il coraggio di “andare”, di non rinunciare mai a vivere e ad essere come lui ci chiede, di non resistergli; preghiamo per avere il coraggio, come i discepoli, di lasciare tutto per diventare anche noi pescatori di uomini. Non temiamo: facciamo pure le nostre considerazioni su questa chiamata; valutiamone le paure, le responsabilità, ma anche la bellezza e la sua attrazione. Ma muoviamoci, non perdiamo tempo. Egli ci ha già chiamato, fratelli: e la risposta è ora solo nelle nostre mani. Amen.


mercoledì 11 gennaio 2012

15 Gennaio 2012 – II Domenica del Tempo Ordinario

«Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbi, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete».
Tema della Parola di oggi è “la chiamata”. La chiamata è l’irruzione di Dio nella storia di una persona. Avviene per ogni uomo ma accade solo quando una persona è disponibile, aperta, pronta ad accoglierla e soprattutto quando si lascia coinvolgere. Normalmente, quando parliamo di “chiamata” di “vocazione”, pensiamo immediatamente a preti, frati e suore. E invece no, fratelli, perché tutti siamo chiamati a seguire Cristo. Nessuno escluso. Essere preti, frati, suore, sposati, padri o madri, è solo il mezzo, il veicolo, la via che ci serve per arrivare alla meta; è la strada che ci porta a compiere ciò che dobbiamo compiere, ciò che dobbiamo diventare, ciò che dobbiamo raggiungere: testimoniare e vivere questa nostra esistenza conformandoci al nostro Maestro. Ed è importante, fratelli miei, non confondere la meta, il punto di arrivo, Cristo, con il mezzo utilizzato per raggiungerlo; sarebbe come chiamare “sinfonia” gli strumenti musicali che concorrono a suonarla.
La chiamata inoltre è individuale, personale: ma è anche in qualche modo contagiosa; si trasmette cioè da una persona all’altra per emulazione, per “mediazione”: così il Battista è una mediazione per Andrea; Andrea è una mediazione per Simon Pietro; nei versetti successivi (1,43-51) Filippo, che aveva incontrato Gesù, diventerà mediazione per Natanaele; Simon Pietro, poi, sarà una mediazione per tanti altri uomini che, a loro volta, lo sono stati, lo sono e lo saranno per i cristiani di ieri, di oggi e di domani.
Anche la fede si trasmette per “mediazione”: è cioè un virus, un passaggio, una trasmissione, un contagio. Se viviamo una cosa che ci inebria, che ci coinvolge, che ci attira, è naturale, ovvio, che ne parliamo, la comunichiamo. Come facciamo a tenerla per noi? Come facciamo a non dirla, se ci appassiona? Non ci limitiamo a dare una semplice informazione ma comunichiamo qualcosa che per noi è vitale, qualcosa che ci ha cambiato la vita. E questa, fratelli, è la testimonianza, questa è la missione. La fede non la si comunica per indottrinamento, per imposizione, inculcando e pressando dentro la testa delle persone dei concetti e delle verità, ma per contagio. “A me ha cambiato la vita. Vuoi provarci anche tu?”. “Io non sono più lo stesso, sono un altro, sono cambiato, sono felice. Questo mi è successo da quando l’ho incontrato. Vuoi provare?”. Quante esperienze, fratelli miei, abbiamo cominciato come nel vangelo, per semplice curiosità. C’è uno che dice: “Lo sai che quell’incontro è proprio bello? Sai che quell’esperienza è stata veramente bella? Sapessi quanto è brava quella persona!”. E l’altro, un po’ per amicizia, un po’ per curiosità, si fida e va. E poi non smette più di andarci.
Bisogna però essere almeno curiosi. Bisogna almeno fidarsi. Bisogna almeno provarci. Bisogna almeno lasciarsi contagiare. Bisogna, cioè, torniamo a dirlo, lasciarsi coinvolgere. La fede, come la vita, come l’amore, come tutto ciò che è intenso, è coinvolgente. Se abbiamo paura di cambiare, di metterci in gioco, di soffrire, di star male, di sentire le emozioni, non possiamo seguire il Signore. Dio è coinvolgimento totale, per questo è difficile seguirlo! Dio è coinvolgimento totale, per questo, seguirlo, è affascinante, inebriante, vitale!
Molti credono che la “chiamata” sia una telefonata speciale di Dio. Una mattina ci suona il telefono, rispondiamo, e una voce perentoria: “Sono Dio, devi seguirmi!”. E così per tutta la vita aspettiamo chissà cosa o chissà chi che ci dica come e quando; aspettiamo chissà quale fatto straordinario, che ci faccia finalmente partire. Ma in realtà il nostro è solo un pretesto per rimanere come siamo. Non ci sarà mai niente di ufficiale e di solenne, fratelli; Dio passa e ci suggerisce, attraverso un amico, una persona, una casualità, un evento fortuito, una situazione, una intuizione: “Vieni; provaci; fallo anche tu!; segui il tuo cuore”. E noi lo facciamo; perché la fede, cari fratelli, anche se debole, comporta proprio questo: fidarsi e andare (“Vieni e seguimi”). Sì, la fede è fiducia.
Pietro si fida di Andrea: è suo fratello, è pieno di entusiasmo per quest’uomo; e pensa: “Beh, perché non provarci? Perché non andare? Andiamo a vedere!”. Pensate: se Pietro non si fosse lasciato coinvolgere dall’entusiasmo di suo fratello, se non si fosse fidato, non sarebbe diventato il primo degli Apostoli, il primo Papa della Chiesa cristiana. Dio passava in quel momento e gli chiedeva di cogliere l’attimo, l’occasione, di fidarsi di suo fratello e di lasciarsi coinvolgere. Non aveva la più pallida idea di cosa sarebbe successo dopo. Ma si è fidato.
La fede è la cosa più personale che ci sia: soltanto noi, singolarmente, possiamo sentire la chiamata, cogliere l’occasione al volo e dire di sì. La responsabilità della risposta è tutta e solo nostra. La fede è la cosa più facile che ci sia, basta dire: “Sì”. Però dobbiamo scegliere. La fede è la cosa più entusiasmante che ci sia, perché ci coinvolge personalmente, vuole noi e non altri. Ma la fede è anche la cosa più difficile che ci sia, perché dobbiamo fidarci ciecamente.
In questo brano del vangelo c’è poi un bellissimo gioco di sguardi e una insistenza sul verbo “guardare”. Prima Giovanni Battista fissa lo sguardo su Gesù (1,36); poi è Gesù che fissa lo sguardo su Pietro (1,42), quindi sempre Gesù si volta e vede che lo seguono (1,38), e dice: “Venite e vedrete” (1,39). E i due discepoli, come conseguenza, “andarono e videro” (1,39).
Gli occhi dicono di una persona molto di più che tutte le sue parole. Perché gli occhi sono lo specchio dell’anima, e, fratelli, non è solo un modo di dire: gli occhi, veramente, proiettano un raggio che viene da dentro; quello che siamo, quello che abbiamo, quello che viviamo, nella nostra anima, viene visualizzato, viene rivelato dagli occhi, dallo sguardo. Se guardiamo negli occhi di una persona, possiamo vedere la sua anima. Per questo quasi mai ci guardiamo negli occhi; temiamo delle intrusioni, abbiamo quasi paura ed è come se ci dicessimo: “Io non guardo dentro di te, e tu non guardare dentro di me”.
Alcune persone hanno occhi ostili, che ci giudicano, che ci condannano; occhi magnetici, da cui siamo, come dire, presi, ingabbiati, posseduti: occhi mortiferi, occhi negativi, perché è l’anima di queste persone ad essere così. Ma ci sono anche persone con uno sguardo dolce, che salva, che ci guarisce, che ci libera, che ci fa sentire amati e riconosciuti. Occhi che sono una rugiada per le nostre paure, per le nostre debolezze, per la nostra vergogna. Sono gli occhi dell’amore perché l’anima di queste persone è piena d’amore. E noi abbiamo bisogno di essere riconosciuti. Noi tutti abbiamo bisogno di essere visti, considerati, apprezzati, amati.
Giovanni Battista “fissa lo sguardo” su Gesù e Gesù “fissa lo sguardo” su Pietro. Non è uno sguardo veloce, il loro; non un guardare fugace, soprapensiero, distratto. È un guardare penetrante, di quelli che ti scavano dentro, di quelli che ti fanno rabbrividire ed emozionare perché non guardano la pelle del viso o il colore degli occhi, ma scrutano, dentro, l’anima e il cuore.
Molti sono convinti di conoscere una persona prima ancora di vederla, di fissarla negli occhi, di conoscerla, e si fermano a questa prima impressione per emettere giudizi e sentenze. Niente di più sbagliato: per conoscere a fondo una persona, abbiamo bisogno di fissarla negli occhi, non di fissarci sulle nostre idee, sulle nostre impressioni; abbiamo bisogno di guardarla, di guardarla soprattutto dentro, di guardarla attentamente; perché le persone sono molto più rivelatrici ed esaurienti di qualsiasi nostra idea, di qualsiasi nostra teoria psicologica.
E poi abbiamo bisogno che qualcuno guardi dentro anche a noi. Abbiamo bisogno che qualcuno ci fissi, come Gesù ha fatto con Pietro; che veda ciò che abbiamo dentro e che non abbia paura (almeno lui, visto che noi a volte ne abbiamo tanta) di quello che vede, che non si vergogni di noi, ma che anzi sappia “vedere” il nostro vero volto, la nostra vera identità.
Visto all’esterno, Simon Pietro era un pescatore, uno fra i tanti, niente di speciale. Ma Gesù gli ha visto dentro: “Tu sei di più, Simon Pietro. Io credo in te. Io ho visto ciò che hai dentro. Io vedo la tua passione, il tuo fuoco, la tua sensibilità. Vedo anche la tua durezza, la tua cocciutaggine, ma vedo tutta la tua ricchezza, la tua generosità. Tu puoi essere diverso. Puoi essere un altro. Tu non sei una pietra qualunque ma una roccia”.
L’amore è così: uno entra dentro di noi e vede ciò che noi non vediamo.
Ci sono poi due domande da sottolineare: “Che cercate?” e “Dove abiti?” (1,38) e una risposta: “Venite e vedrete” (1,39). Domande e risposta che costituiscono il centro della nostra fede: Vuoi sapere chi sono? “Seguimi!”.
Gesù non ha dato una risposta, non ha fornito una soluzione, pronta e impacchettata; non ha dato un ordine secco, e non ha neppure detto cosa fare o cosa non fare. Gesù ci invita a percorrere una strada, un cammino, una via: “Venite e vedrete”. Chi vuole, lo segua. Gesù non fa una lezione di catechesi, un discorso, una bella conferenza; dice semplicemente: “Venite e vedrete”. Cioè: “State al mio fianco e voi stessi ve ne farete un’idea; venite a casa mia, ascoltate quello che dico, guardate quello che faccio”.
Gesù non ha mai costretto nessuno. Il suo è un invito, una proposta. “Seguimi”, solo se lo vuoi, se ti va. E molti, infatti, non lo seguirono allora (ricordate il giovane ricco?) e non lo seguono ora. La fede vive di libertà, così come tutto ciò che è importante (l’amore, i rapporti tra le persone). La fede cristiana non è una teoria o una serie di pratiche ma è una esperienza, un rapporto, una relazione, una comunione. È vita, perché è esperienza, rapporto con Qualcosa di Vivo.
Quanti di noi che si ritengono religiosi (e ne sono fieri!), in realtà non vivono questa fede. La loro, fratelli miei, è una fede “morta”. Perché? Perché non sanno provare misericordia per il prossimo; sono incapaci di provare la gioia dell’amore gratuito; sono impassibili, di ghiaccio, nei confronti di chi sbaglia: con loro non c’è alcuna possibilità di comunione. Non si entusiasmano, non sanno abbandonarsi a slanci di gioia, disdegnano l’immenso e la vastità della carità; non sanno commuoversi di fronte alle nuove nascite né al progressivo crescere dei bambini; sono duri, insensibili, non sanno piangere quando il loro cuore è affranto e piegato dal dolore; non c’è poesia in loro, non c’é canto, né lode, né contemplazione nella loro fede; ma solo tristezza, sentimenti tetri e funerei.
Quando invece, il “vieni e seguimi” di Gesù è completamente all’opposto. Gesù ha predicato là dove c’era vita: c’erano sì il dolore, la malattia, lo sconcerto e l’abbandono: ma erano vita! Gesù è andato proprio là dove c’erano le catene, e le ha rotte, ha portato liberazione. È andato là dove c’era dolore e sfiducia e ha portato luce. È andato dove c’era sordità e indifferenza, e ha portato la musica del cuore e dell’anima. È andato là dove le persone non camminavano, schiacciate dalle contrarietà della vita, le ha risollevate e ha dato loro dignità. È andato dove nessuno voleva andare, perché per Lui non esistono luoghi dannati, in cui un raggio della sua luce non possa arrivare. I suoi discepoli li portava tra la gente: in mezzo al dolore, alla malattia, alla disperazione, alla morte; ma anche in mezzo alla gioia, alla festa, in mezzo alla gente che si divertiva e che era viva dentro: insomma li portava ovunque c’era vita: quella vera, però, quella che spera sempre, quella che si entusiasma, quella che soffre e che si lascia anche andare, ma che è sempre pronta a rialzarsi e ripartire. Gesù non lo troviamo mai nei palazzi dei nobili, alla corte dei ricchi, nei luoghi del potere civile e religioso, dove la vita è mortificata, fissata, cristallizzata, pianificata, stabilita. Lo troviamo solo là dove la vita scorre, fluisce, diviene. Perché lui è la Vita che guarisce la vita.
Dio infatti non guariva le persone sradicandole dalla loro vita, trasferendole in altre realtà: Egli le guariva mettendole a contatto con le loro situazioni concrete, con le loro malattie, le metteva di fronte alle loro infermità, alle loro miserie, a tutto ciò che esse non volevano vedere e toccare. Questo perché, fratelli, è solo “toccando”, solo rendendoci conto delle nostre infermità, del nostro malessere, che si può guarire. Seguire quindi Gesù vuol dire prendere, toccare, mangiare, in una parola vuol dire impossessarci della nostra vita, così com’è.
Dio non lo incontriamo solo in chiesa: anzi lo incontriamo soprattutto fuori, nella vita; dentro, semmai, lo possiamo incontrare solo se la Chiesa è veramente vita, comunione, carità, e non formalità, un accavallarsi di riti e parole vuote, senza senso. È entrando nella vita, con tutte le sue variabili, le sue difficoltà, i suoi alti e bassi, le sue salite e discese, le sue ripartenze e i suoi fallimenti, le sue sfide e le sue conquiste, che noi certamente incontreremo il Dio di Gesù Cristo. È solo entrando nella nostra vita e prendendola sul serio come un dono ricevuto dalle mani di Dio, come avuta da Lui, senza esimerci, senza sottrarci, senza sfuggirla, che lo incontreremo. Purtroppo la vita (e scusate se insisto su questo) non è una strada in discesa, come piacerebbe a noi! La vita è contorta, strana, oscura, misteriosa; a volte è crudele e a volte è meravigliosa. A volte la capiamo, altre no. Dio lo sa questo; e quando ci chiama, non ci sottrae alle contraddizioni della nostra vita, ai nostri lati oscuri, alle zone di mistero, ai conflitti inevitabili o ai dubbi che ci tormentano. Dio anzi ci butta dentro tutto ciò. Ci sommerge. Gesù non ci tira mai fuori dalla nostra esistenza; Egli ci chiama a diventare suoi discepoli così come siamo.
Dio è una realtà così coinvolgente e trascinante, da farci vivere completamente con Lui e per Lui. Però, fratelli miei, se noi continuiamo ad aver paura di lasciarci andare, se non siamo pronti a buttarci tutto alle spalle, se temiamo di provare questo brivido, anche se solo dubitiamo dell’infinita ricchezza di questa vita, allora, fratelli, non saremo mai in grado di poterlo seguire. Ripeto, mai; e qualunque Sua chiamata cadrebbe puntualmente nel vuoto. Perché? perché non siamo disponibili a vivere il suo “brivido”, non abbiamo il coraggio di buttarci. Dio invece ci offre di vivere solo ad alta quota; di camminare sempre a tutta velocità, a tavoletta; di tuffarci continuamente dentro le cose con crescente entusiasmo. Egli ci prende, ci appassiona, ci attira: è irresistibile. Lo abbiamo visto con i chiamati della prima ora, gli apostoli: dopo aver accolto la Sua chiamata, non poterono più tirarsi indietro. Furono sedotti, conquistati. Per loro Dio fu letteralmente un colpo di fulmine, un blitz, una luce abbagliante, una illuminazione totale, un innamoramento senza precedenti. Ecco, questo è il punto. Questa è la realtà, fratelli: e finché Dio non sarà anche per noi fuoco, amore, luce, vita, è inutile che ci illudiamo pensando di essere suoi discepoli; non lo siamo e non lo saremo mai; se il nostro cuore non vive in Dio e per Dio, davanti alla gente possiamo anche sembrare degli ottimi cristiani, ma non arriveremo mai a conoscerlo, a viverlo così come Egli è. Quindi, fratelli, niente scuse, niente giustificazioni, né scorciatoie. È questo il nostro compito e dobbiamo assumercelo: andare e seguirlo. Come Lui ci ha insegnato. Come hanno fatto gli apostoli. Nient’altro. Amen.


martedì 3 gennaio 2012

8 Gennaio 2012 – Battesimo del Signore

«Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni».
Con la festa del Battesimo di Gesù, concludiamo il Tempo liturgico del Natale. Da domenica prossima entreremo nella prima parte del Tempo Ordinario, che terminerà con l’inizio della Quaresima.
Oggi, il vangelo ci ripropone la figura del Battista che parla di un battesimo d’acqua, preannunciando un battesimo in Spirito Santo per mano di uno “più forte di me”, che “verrà dopo di me”.
Gesù si fa dunque battezzare da Giovanni Battista con un battesimo d’acqua. Un rito con cui Egli simbolicamente ri-nasce: non a caso, infatti, il suo immergersi nel Giordano (yared, battezzare, in ebraico significa immergere) viene messo come inizio della sua vita pubblica.
Anche per noi, il battesimo d’acqua segna l’inizio della vita, la nostra nascita alla fede, ma sarà poi il battesimo di fuoco che ci renderà veri credenti. Ciò che siamo chiamati a fare è pertanto di uscire dall’anonimato, dall’essere come tutti (che equivale ad essere nessuno) e di darci un “nome”, un carattere, una fisionomia adulta; dobbiamo cioè testimoniare esattamente chi siamo: e questo è il nostro battesimo di fuoco.
Con il battesimo d’acqua semplicemente “nasciamo”, con il battesimo di fuoco diventiamo chi dobbiamo diventare: ossia dei cristiani pronti a testimoniare con la vita quanto credono e come credono; quanto siano fedeli a ciò in cui credono e che li appassiona dentro.
La chiamata (battesimo d’acqua) dei grandi personaggi della Bibbia, quella vera, quella di Dio, è sempre accompagnata da cammini, prove, viaggi difficili, duri, faticosi, durante i quali Dio forgia e purifica il suo prediletto: Noè deve costruire l’arca tra la derisione di tutti; Abramo deve partire senza conoscerne il motivo; Mosè deve attraversare il Mar Rosso e il deserto; Giobbe e Tobia compiono dei viaggi difficili e pericolosi. Sono le premesse che portano necessariamente alla purificazione, al fuoco.
La radice ebraica di “fuoco” (a-sc) è presente sia nella parola uomo (a-i-sc) che donna (a-sc-ha). Quindi, per diventare noi stessi, non importa se uomini o donne, per realizzare la nostra missione di credenti, dobbiamo necessariamente passare attraverso il fuoco.
Gesù stesso dirà: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e vorrei davvero che fosse già acceso! Ho un battesimo da ricevere (il battesimo di fuoco), e grande è la mia angoscia finché non l’avrò ricevuto. Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione…” (Lc 12,49-51).
Il vero battesimo, pertanto, sta nella nostra vita concreta, consiste nel nostro forgiarci, nel nostro costruirci, nel nostro andare verso noi stessi e gli altri.
Allora, fratelli, dobbiamo smetterla di pensare o di credere che essere cristiani voglia dire essere semplicemente battezzati. Quando fanno le inchieste e ci dicono che il 95% degli italiani sono cristiani, è falso. Il 95% saranno quelli battezzati con l’acqua; ma “essere” cristiani è un’altra cosa, vuol dire passare attraverso il battesimo del fuoco.
La gente crede ancora che “seguire Gesù” sia qualcosa di comodo, di tranquillo, di indolore; che sia sufficiente qualche pratica, andare a messa ogni tanto o dire qualche preghiera.
Nossignori, seguire Gesù è fuoco. È passione che brucia dentro; che non ci permette di rimanere indifferenti di fronte alle ingiustizie che vediamo, di fronte ad una società che uccide l’anima degli uomini, di fronte a genitori scriteriati che trattano i propri figli come se fossero delle belle marionette o dei burattini.
Seguire Gesù è passione che ci spinge ad uscire, ad esporci, a non stare zitti. Potremmo tranquillamente starcene in disparte e farci gli affari nostri, e invece no; dobbiamo metterci in gioco, rischiando in prima persona.
Seguire Gesù è fuoco purificatore che brucia tutto ciò che di impuro c’è dentro di noi. Allora ci accorgiamo che siamo noi, e non gli altri, gli invidiosi; siamo noi quelli in continua competizione, siamo noi i gelosi. Che siamo noi, e non gli altri, a non amare i fratelli; che siamo sempre noi a voler possedere, gestire, manipolare. Infine, che noi, e non gli altri, abbiamo bisogno di umiltà per cambiare, per crescere, per modificarci.
Purtroppo non è facile cambiare, fratelli miei. Non è piacevole scoprire certe meschinità dentro di noi. Per questo seguire Gesù sarà sempre difficile, impegnativo, un lavoro continuo. Nessuno mai ha detto che sarebbe stato facile! Però che sarebbe stato entusiasmante, passionale, eccitante, caldo, che ci avrebbe dato la sensazione di vivere in profondità, che la nostra vita avrebbe avuto finalmente un senso, sì, questo sì ci è stato detto e dimostrato, da uno stuolo di santi.
Dostoevskij scriveva: “Senza la sofferenza non potremmo mai capire la felicità. Un ideale passa sempre per la sofferenza, come l’oro per il fuoco. Solo con lo sforzo, con il fuoco, si può raggiungere il regno dei cieli”.
È il fuoco della prova, fratelli. Gesù ci saggia, ci purifica con il fuoco, ci fa passare per incroci pericolosi ed esigenti. Gesù ci toglie in questo modo tante nostre illusioni, tanti nostri miraggi e le bugie che ci raccontiamo. Un amico vescovo, rievocando un giorno la comune infanzia, mi disse di un nostro compagno, allontanatosi poi dalla fede: “Pensavo che il suo essere buono, allegro e propositivo dipendesse da una fede forte; invece, evidentemente, godeva solo di ottima salute!”. Facciamo allora in modo, fratelli, di non far dipendere il nostro credo dai bioritmi, da oroscopi idioti, dai falsi richiami, dai falsi entusiasmi, dai falsi stati d’animo, che poi finiscono sempre per rivelarsi frutto di autentiche paranoie! Il battesimo e la fede sono cose serie!
Abbiamo detto che la parola greca baptizein (yared in ebraico) vuol dire immergersi, entrare dentro: in questo senso, possiamo ricavarne un doppio significato, un doppio insegnamento, un doppio comportamento: uno ad extra, l'altro ad intra.
Nel primo caso “immergersi” significa “entrare dentro la vita degli altri”, non sottrarsi alle esigenze e alle chiamate di vita del nostro prossimo. Con il battesimo di fuoco dobbiamo dare forma alla nostra energia interiore, dobbiamo far uscire la passione che ci anima dentro, farci travolgere dallo zelo, e riversarlo sugli altri. Significa essere aperti. Quanti di noi invece, fratelli miei, non hanno più fuoco, non hanno più anima, non hanno più nulla, dentro di loro, da spendere per gli altri; niente di niente. Sono spinti in avanti solo dall’inerzia di una vita inutile, che si trascina stancamente giorno dopo giorno, nella routine delle solite cose. Immergersi nella vita di chi ci sta intorno, significa al contrario immergersi nella solidarietà, calarsi nelle singole situazioni. Quando succede un fatto, molti dicono in cuor loro: “Non è affare mio, si arrangino. È un problema che non mi riguarda”. Ebbene, questo non è “immergersi”, fratelli; immergersi vuol dire: “Ciò che è toccato a te, mi riguarda eccome, mi interpella direttamente; non posso rimanere indifferente, non posso chiudere gli occhi e far finta di niente”. Essere “solidali” comporta un nostro preciso atteggiamento: “Io ci sono. Io ti aiuto. Io sono dalla tua parte; perché ho un cuore che brucia, che batte prepotentemente, che ama, che si appassiona”.
Il cristiano, il battezzato, non può rimanere indifferente. Deve anzi scendere con decisione dalle sue sicurezze, dal suo io, dal suo egoismo; e darsi da fare!
Nel secondo caso, l'immersione battesimale sta per “entrare dentro la nostra anima”, scendere in profondità, nell'intimo del nostro cuore, individuare i nostri demoni, conoscerli, guardarli bene in faccia, confrontarsi con loro.
Non a caso anche Gesù, subito dopo il battesimo e prima dell’attività pubblica, ha dovuto affrontare le tentazioni. Anzi Marco ci dice che fu lo stesso Spirito del battesimo a spingere Gesù nel deserto (Mc 1,12), nella solitudine, perché si immergesse nei suoi demoni e potesse confrontarsi duramente con loro.
E noi, siamo forse speciali? No fratelli, anche noi dobbiamo saggiare le nostre forze, anche noi dobbiamo fare i conti con le nostre deformità, con le nostre inclinazioni malvagie, con le nostre debolezze; dobbiamo conoscerle bene, dobbiamo capire perfettamente quante e quali sono, per poterle combattere strategicamente e uscirne vittoriosi. È questo che ci richiede il nostro vero battesimo, quello di fuoco.
Del resto tutti abbiamo i nostri demoni più o meno nascosti (io ho i miei, e vi assicuro che a volte ne esco con le ossa rotte, con tremende batoste). Tutti noi, nessuno escluso, abbiamo una seconda facciata: quella segreta, privata, nascosta, quella che non vorremmo che gli altri vedessero mai, quella di cui molto spesso ci vergogniamo. È proprio su questa che dobbiamo lavorare sodo. È in questa che dobbiamo immergerci, per scavare, setacciare, lavare, purificare.
Lo so, è duro, fratelli, è difficile; è come passare attraverso le fiamme. Ma è da lì che dobbiamo passare. È lì, nel nostro Giordano, che dobbiamo immergerci; è lì, nel nostro deserto, che dobbiamo batterci con i demoni infidi. Perché fintanto che non li avremo individuati, affrontati e soggiogati, saranno sempre loro ad averla vinta, a dominarci; saranno loro, in definitiva, a cantare vittoria. Ripeto: non sarà affatto piacevole, anzi sarà come scendere all’inferno, ma quella è l’unica nostra possibilità.
Oggi dobbiamo dunque ri-attizzare il nostro battesimo di fuoco: dobbiamo ridargli forza e ossigeno, perché è solo così che, con la forza di Dio, dopo anche lunghe battaglie, ne usciremo sicuramente vittoriosi. Non solo vittoriosi ma completamente trasformati, grandi.
Perché, nell’ottica divina, essere “grandi” non significa essere perfetti, ma dimostrare di conoscere bene i propri demoni, il proprio niente. Essere “grande”, non significa non sbagliare mai, ma avere l’umiltà di riconoscere i propri errori. Non è andare avanti, sempre uguali, tanto per andare avanti, ma avere il coraggio di cambiarci. Dio non ci ama perché siamo perfetti, no; Dio ci ama per quello che siamo: deboli, a volte spazzatura, ma combattivi, reattivi. Gente umile ma tosta, che non si arrende mai, che ricomincia sempre daccapo, che pur di crescere in Dio, non teme il fuoco della purificazione, come l’oro nel crogiolo!
«Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento».
Il punto centrale del battesimo di Gesù non è come per l’uomo la liberazione dal peccato originale, chiaramente incompatibile con la sua natura divina, quanto l’esperienza della Voce del Padre: una esperienza che è stata decisiva per la vita di Gesù, ne ha causato la svolta: l’essersi cioè percepito Figlio del Padre, Figlio amato, prediletto, unico.
Voce e parole che Gesù risentirà identiche nella Trasfigurazione, altra esperienza forte di Dio nella sua vita umana. E per questo, rivolgendosi al Padre, Egli lo faceva dicendogli: “Padre, Abbà, papà mio”.
Gesù aveva un rapporto confidenziale con Dio, perché si sentiva amato da lui. Non lo sentiva come un superiore, come uno da temere e a cui tenere nascoste certe cose o fargli vedere solo la faccia bella, quella buona. Era suo padre e Gesù si sentiva amato e al sicuro con Lui.
Bene, fratelli: quello che qui è detto per Gesù vale per noi.
Tutti siamo infatti figli di Dio, i prediletti. Tutti, indistintamente, siamo i figli amati: 
“Tu sei amato…; tu ai miei occhi sei grande…; tu sei mio figlio prediletto…; non ti lascerò…; tu sei importante per me…; ho dato la mia vita per te…; non ti abbandonerò…; non sfuggirai dalla mia mano…; nessuno ti porterà via da me…; per quanto tu vada lontano io rimarrò sempre tuo padre e tua madre, e tu sarai sempre mio figlio…; tu non sei come nessun altro: tu sei unico per me…; qualunque cosa ti succeda, non aver mai paura, perché io sono tuo Padre…”.
Ricordate? Sono parole sue: ora, se credessimo veramente a queste parole, fratelli, niente e nessuno potrebbe mai farci paura: chi dovremmo mai temere?
L’amore umano, anche il più grande, pone sempre delle condizioni. Quello di Dio no. Il suo non è mai condizionato o condizionante. Dio non è come l’uomo. Perché Dio ci ami, noi non dobbiamo diventare chissà cosa o chissà chi; per andare bene a Dio, non dobbiamo avere successo e ricchezze, né dobbiamo diventare qualcosa di diverso da noi stessi. Non dobbiamo comportarci bene davanti agli uomini, perché Dio ci ami; non dobbiamo rinunciare alla serenità e alla felicità, perché Dio ci ami; lui ci ama comunque, per quello che siamo, nonostante tutto, così come siamo. Punto.
Dio è nostro Padre e nostra Madre: a Lui possiamo raccontare tutto; anche ciò di cui più ci vergogniamo, anche ciò che più ci fa male, ci ripugna, ci fa schifo. Lui ci ama lo stesso. Anzi ci ama di più; un po’ come quella madre che ama tutti i suoi figli, ma riserva più affetto e più cure a chi è ammalato.
È difficile per noi, fratelli miei, credere e capire che Dio ci ami così, al di là di tutto, proprio di tutto! Certo, noi vorremmo che Lui ci amasse, ma non vorremmo scoprirci, non vorremmo fargli vedere i nostri lati deboli, le nostre miserie: le cose di cui ci vergogniamo… gli errori del passato… le infedeltà… i peccati… l’odio che coviamo per molte persone… la rabbia furiosa che ci cova dentro… le nostre piccolezze o meschinità… il nostro rifiuto nei suoi confronti….
Ci rendiamo conto che il problema non è Lui, con il suo amore comunque assicurato; siamo noi, che siamo restii a farci amare. Non è lui che non ci accetta, ma siamo noi che, conoscendoci, non ci sentiamo a nostro agio, ci vergogniamo di tanta bontà. Insomma, ci rendiamo conto che anche lasciarci amare da Dio, per noi è difficile; perché è difficile, nel nostro niente, nella nostra mentalità contorta, credere ad un amore incondizionato, disinteressato, ad un amore fedele per sempre, ad un amore in cui noi non dobbiamo fare nulla, ad un amore granitico che non ci tradirà e non ci abbandonerà mai. È proprio così, fratelli! Siamo noi il problema. Allora fidiamoci, chiudiamo gli occhi e abbandoniamoci, completamente; ascoltiamo con Gesù la voce suadente del Padre che ci dice: Tu sei il mio figlio prediletto. Sì, fratelli, Dio è nostro Padre; e noi siamo tutti figli suoi! Amen.