giovedì 29 novembre 2012

2 Dicembre 2012 – I Domenica di Avvento

«State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all'improvviso» (Lc 21,25-28.34-36).
Oggi inizia l’Avvento, tempo liturgico che ci prepara al Natale. Sul piano personale, l'avvento è quello spazio di tempo particolarmente adatto perché un “Figlio”, una “nascita”, si possano realizzare in noi. Ogni anno il 25 dicembre festeggiamo la nascita di Gesù; l’occasione non deve ridursi a un dato rituale, di bontà posticcia, cronologico, tradizionale. Deve essere un fatto reale, sentito: Dio continua a nascere in noi, per noi; perché Dio, dove c'è spazio e disponibilità, sicuramente continua a venire. Dobbiamo quindi considerare l'avvento non tanto come un qualunque periodo dell'anno ma come una dimensione della nostra vita che si rinnova continuamente, con la certezza che l'Oltre, l'Altissimo, il Nuovo, una nascita speciale, sta per avvenire ancora una volta in noi. Quello che non è certo, e che ci deve preoccupare, è se noi siamo pronti ad accogliere questi grandi doni.
L'avvento, da advenio, non si limita al presente, ma crea “avvenire”, si proietta nel futuro proprio perché si apre ora, nel presente; genera una novità verso cui andare, una novità che da sempre ci attrae e ci richiama. È un intervento di Dio che vuole far nascere qualcosa di nuovo in noi, sorprendendoci, meravigliandoci, portandoci lontano, molto lontano dalle nostre personali rive di sicurezza. È un tempo di attesa, di un’attesa dinamica e attiva.
Attenzione: ho detto attesa non aspettativa: non confondiamo i due termini; indicano situazioni diverse, da non confondere.
L'attesa infatti non ha oggetto: è apertura del cuore e della mente all’accoglienza totale. L'attesa accetta tutto ciò che le viene incontro (adventus). L'aspettativa invece no: è un “voglio questo”, “questo e questo solo”; ha ben chiaro cosa vuole e cosa non vuole; accetta solo ciò che rientra nei suoi piani; il resto lo rifiuta. Solo l'attesa quindi può portarci a progredire, a rinnovarci, ad evolvere; in una parola ad aprirci al “novum” che ci viene proposto. L'aspettativa invece è circoscritta entro i parametri del nostro giudizio: siamo noi che decidiamo, in base ai nostri criteri personali, cosa ci serve o cosa non ci serve, cosa è buono o non è buono per noi, cosa Dio ci deve mandare, come devono comportarsi gli altri nei nostri confronti; cosa e come noi dobbiamo o non dobbiamo essere. L'aspettativa non ha tempo: vuole tutto e subito, tutto e presto. Non si ha più il piacere dell’attesa: oggi non abbiamo più tempo: tutti i mezzi di comunicazione sono progettati per ridurre sempre più i tempi di attesa: per parlare non serve più l’incontro personale, c’è il telefono; per comunicare velocemente, c’è internet; per muoversi in fretta, abbiamo auto sempre più potenti.
L'aspettativa ci porta a ignorare il presente, per vivere continuamente proiettati nel futuro: “Quando succederà quella cosa, allora finalmente sarò felice, allora mi sentirò realizzato, allora sarò qualcuno…”. E così corriamo, corriamo e corriamo, per raggiungere con affanno un qualcosa che continuamente ci sfugge; un traguardo inarrivabile che accresce in noi ansia, tensione, sconforto, depressione.
L’attesa, al contrario, conosce molto bene il tempo. Attesa, è vivere il presente: “Sento che mi manca qualcosa, sono aperto e disponibile a quello che verrà. Ma intanto vivo oggi il mio momento felice; se verrà dell’altro, tanto meglio”.Ogni evento infatti richiede il suo tempo di preparazione; come la gravidanza per il parto. L'attesa genera pace, tranquillità interiore, non confusione: facciamo le nostre cose, viviamo la nostra vita e lasciamo la porta aperta. Se qualcosa deve arrivare, vedrete che arriverà sicuramente.
Questa, a gradi linee, deve essere la nostra attesa, fratelli; questo, il senso del nostro “avvento”.
Il vangelo di oggi, riproponendo il clima apocalittico della fine dei giorni, allude alla distruzione materiale di questo nostro tempio corporale. Un evento che merita tutta la nostra “attesa”.
Il testo parla esplicitamente di vegliare, di non dormire (21,36). Una raccomandazione che abbiamo sentito diverse volte da Gesù: “Tenete gli occhi aperti, non dormite; non addormentatevi; non anestetizzatevi”. Nessun evento, anche quelli più imprevedibili, accadono senza prima anticipare dei segnali premonitori. Sta a noi saperli cogliere. Dobbiamo dotarci per tempo di una buona scorta di olio per le nostre lampade. Non comportiamoci da sprovveduti.
Quante persone dicono di star male nell’anima, di soffrire, di essere insoddisfatte della loro vita spirituale: è un segnale che dovrebbe scuoterle, farle correre ai ripari; ma cosa fanno per uscire da questa loro situazione? Alcune dicono che non hanno tempo; che cambiare, prendere nuove strade, sono soluzioni troppo impegnative, difficili. E continuano a dormire! Altre invece dicono di voler cambiare, e lo fanno anche, ma a modo loro. Sono i “convertiti super”, gli affamati della novità del “divino, quelli che non si perdono più nessuna cerimonia, nessuna devozione a santi e madonne, nessuna conferenza, nessun incontro, nessun tipo di cammino spirituale: salvo poi a ritrovarsi sempre nelle loro identiche posizioni di partenza, a non fare un benché minimo passo in avanti. Perché? Perché dimenticano che non è la quantità, ma la “qualità”, la convinzione, l’autentica volontà di fare la volontà del Signore, con spirito aperto e tanta umiltà; dobbiamo stare attenti, perché una distorta spiritualità è come la droga: anche se assunta in dosi massicce, non porta mai all’appagamento totale.
Dobbiamo invece “vegliare” sul serio, fratelli; perché se non ci mettiamo veramente in gioco, se non scaviamo dentro di noi, se non mettiamo “mano all’aratro” come si deve, non succederà mai niente: spesso una breve preghiera detta a Dio col cuore, nel silenzio, con riconoscenza, vale sicuramente più di cento rosari biascicati con la bocca, ma col cuore e la mente lontani, occupati in altre faccende: allora a che servono tutte le nostre preghiere distratte e superficiali, tutti i nostri raduni, tutte le nostre liturgie, le nostre conferenze, la nostra caccia al miglior predicatore, all’indirizzo spirituale più alla moda, più “in”, più frequentato da una certa “elite”? Si riducono a pie illusioni; peggio, a forme deplorevoli di sterile esibizione, a soluzioni che non servono assolutamente a nulla, miseri palliativi, inutili fughe dalle nostre oggettive responsabilità.
Non comportiamoci, fratelli, come i farisei che dicevano: “Noi abbiamo Dio per Padre”, e giustificandosi in questo modo, continuavano con tracotanza a fare i comodi loro.
Questo modo di pensare e di comportarci, individualista ed esclusivista, è un paravento, una droga, un'ubriacatura. Perché seguire Dio, non consiste sentirsi “rapiti” da una improbabile estasi divina,o sentirsi “calati” nei più impensati carismi; seguire Dio vuol dire più semplicemente essere noi stessi, esattamente come Lui ci vuole. Fare sempre la “sua volontà”, in tutti i momenti della nostra giornata. Praticare la carità, rimanere svegli, all’erta, vigili.
Capita invece che noi spesso dormiamo e non vogliamo in alcun modo scuoterci perché, lo sappiamo, “svegliarci” vuol dire vedere qualcosa che non vogliamo vedere. Magari per non scoprire i veri motivi del dolore che proviamo dentro; magari per non scoprire di aver sbagliato tutto nella vita; magari per non scoprire di essere ignorati e sopportati; magari per non scoprire di essere nella solitudine più totale; magari per non scoprire le nostre serie carenze, le nostre difficoltà, i nostri blocchi nell’anima.
Diceva il saggio: “Il sonno delle coscienze, genera mostri”: quando l'uomo dorme tutto è possibile, tutto può succedere, qualunque soluzione può prendere piede senza che lui se ne accorga.
Non a caso il vangelo conclude con le parole: “Vegliate e pregate”. In questo caso già il vegliare, non prendere sonno, non dormire, è una forma di preghiera. In greco, questo “pregate”, sta per “avere bisogno, necessitare, desiderare”. Ecco perché abbiamo bisogno (preghiera) di non prendere sonno, di non alienarci (vegliare), per evitare di calarci in un mondo che non c'è. Non dobbiamo permettere che il nostro cuore prenda sonno, dimenticando la gioia per la vita, l'entusiasmo per le cose nuove, la passione per ciò che si ama, lo stupore di fronte alla bellezza; non dobbiamo permettere cioè che la nostra anima si assopisca e non senta più il richiamo di Dio, quel richiamo della vita che ci chiama a definirci e a diventare “Figli dell'uomo”. Vegliare significa non permettere che la nostra mente venga plagiata da filosofie o da idee ingestibili, senza alcun fondamento cristiano, ancorché molto apprezzate dal mondo di oggi. Pregare vuol dire stare attenti che ciò che chiamiamo “Dio” sia Dio, ciò che chiamiamo “amore” sia amore, ciò che chiamiamo “famiglia” sia veramente famiglia e non un volgare e sguaiato surrogato. Perché, fratelli, se noi dormiamo, c’è chi ha tutto l’interesse di sovvertire i valori essenziali e intoccabili della nostra vita. Allora pregare vuol dire vegliare, perché dobbiamo essere noi i protagonisti che contrastano con la loro vita la squallida deriva morale di questo mondo; dobbiamo essere noi, innamorati di Dio, a lasciare un segno, una traccia, un'impronta, perché dobbiamo dimostrare agli altri e a noi stessi, con la nostra vita, con il nostro esempio, che non siamo assenti, ma che siamo lì, vigili, in prima linea.
Il “Figlio dell'uomo” (la nostra realizzazione, l'essere noi stessi,il perseguire quell’ideale di vita che Dio ha impresso nella nostra anima col Battesimo) non potrà mai emergere, non potrà mai uscire, concretizzarsi, prendere vita, se noi dormiamo, se noi continuiamo ad essere indolenti, svogliati, disinteressati.
Fratelli miei, dobbiamo avere la forza di «sfuggire a tutto ciò che sta per accadere», perché un giorno tutti dobbiamo comparire davanti al “Figlio dell'uomo”. Tutti un giorno ci spegneremo: ma guai a coloro che non si sono mai accesi. Tutti ci addormenteremo nel sonno della pace, ma guai a chi non si è mai svegliato dal suo torpore. Per tutti la vita ha una fine: ma guai a chi non l’ha mai neppure iniziata. Che non succeda a noi, fratelli!
Tu verrai, Signore, noi lo sappiamo: ed è sulla tua Parola che noi costruiamo oggi la nostra casa sulla roccia. Perciò, non permettiamo mai che la nostra coscienza si addormenti: restiamo svegli. Non permettiamo che la facciata, ciò che sembra e che appare, nasconda agli altri il cuore e l'anima che non si vedono: restiamo svegli. Non permettiamo di avere così tante cose da fare e vie da seguire, da non percepire più cosa realmente vogliamo, proviamo, sentiamo: restiamo svegli. Non permettiamo mai che ciò che fanno gli altri diventi ciò che facciamo anche noi, solo perché lo fanno loro: restiamo svegli. Non permettiamo che l'odio, la rabbia, il cinismo inondino il nostro cuore, così da non provare più meraviglia e stupore per ciò che vive e palpita: restiamo vivi. Non permettiamo che il “duro quotidiano” cancelli i nostri sogni, le nostre aspirazioni, il nostro desiderio di infinito: restiamo vivi. Non permettiamo a nessuno di manipolarci, di gestirci, di toglierci la nostra vita interiore, così da perderci o da annullarci: restiamo vivi. Non permettiamo al dolore e alla sofferenza di eliminare dalla nostra memoria la gioia, la fiducia e la fede nel Padre: restiamo vivi. Non permettiamo alla società “laica” contemporanea di soffocare l’avvento di un mondo nuovo, migliore, con più fede, un mondo meno alienato e ottuso: stiamo attenti. Non permettiamo alle chiacchiere stupide e senza senso dei media di convincere il nostro cuore, né alle loro facili soluzioni, di sedurci e ingannarci: stiamo attenti. Non permettiamo che qualcosa o qualcuno zittisca ciò che abbiamo dentro di noi, la forza, i sentimenti, la tenacia, la voce dello Spirito: restiamo vivi. Non permettiamo alla disperazione di vincerci, né all'angoscia di smarrirci, né alla paura di azzerarci: restiamo sempre fiduciosi. Nulla deve distoglierci da Lui. Nulla deve mai staccarci dalla nostra sorgente di Vita: perché il nostro vivere è tale, solo se viviamo nella Vita. Amen.

mercoledì 21 novembre 2012

25 Novembre 2012 – XXXIV Domenica del Tempo Ordinario – Cristo Re dell’universo

«Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» Gv 18, 33b-37.
Siamo arrivati all’ultima domenica dell’anno liturgico. Con domenica prossima entreremo nel tempo di Avvento. Oggi la liturgia celebra la festa di Cristo Re dell’universo, e il vangelo ci presenta un dialogo tra re: tra Pilato e Gesù. Siamo durante la Passione: Gesù è già stato catturato e si trova nel pretorio davanti a Pilato. Pilato è “il re” della Palestina: un governatore brutale, ci dicono gli storici. Faceva uccidere e crocifiggere così tante persone che ad un certo punto Roma dovette richiamarlo! Pilato, nella sua carriera politico militare, ne ha visti tanti di pazzi ed esaltati, ma l'uomo che gli sta ora davanti è davvero affascinante: si definisce re! A lui non interessa affatto la questione di Gesù: gli hanno rifilato questo problema da risolvere, dal quale cerca di uscirne senza troppi grattacapi. Il tutto per lui ha una importanza irrisoria; l'unica sua attenzione è di non andare al alterare i già delicati equilibri diplomatici con i focosi ebrei.
Nelle scene del processo a Gesù, descritte dai vangeli, Pilato infatti continua ad entrare e uscire. Da una parte egli è attratto da Gesù (entra), perché ne sente la verità e la bellezza. Ma dall'altra teme i Giudei (esce); teme le conseguenze, teme di perdere l'immagine e il potere che ha. Il dubbio, l'inquietudine, sono il tormento di questo uomo: è l’indeciso per eccellenza.
Un po’ come noi, gli eterni indecisi: sentiamo la bellezza di un percorso, intuiamo il fascino della meta, ma sappiamo che seguirlo vuol dire abbandonare le nostre sicurezze, le nostre abitudini. A questo punto che facciamo? Sentiamo la verità di una cosa, ma sappiamo che aderirvi è diventare impopolari; sentiamo la passione per qualcosa di “nostro”, ma seguirla vorrebbe dire cambiare vita; sentiamo che dovremmo aprirci su certe questioni, ma temiamo di soffrire o di vergognarci; sentiamo che dovremmo porci dei limiti, porci dei paletti, ma ne temiamo le conseguenze. Insomma noi, di fronte a queste situazioni che facciamo? Come ci comportiamo? Per quanto riguarda Pilato il vangelo più avanti ci dice che se ne uscì” dalla situazione. Preferì non approfondire la questione; preferì rimanerne fuori, non farsi coinvolgere. Aveva troppo da perdere.
Ebbene, non è anche il nostro stesso comportamento? Gesù ci dice: “se vi accontentate delle carrube dei porci (Lc 15,15) e non cercate, non desiderate qualcosa di più e di meglio, io non posso farci niente. Se vi basta il superfluo, le cose terrene, l'auto, la tv, la macchina, le sigarette e non cercate qualcosa di più, io non posso farci niente. Se vi basta vivacchiare, mangiare e bere, e non sentite il richiamo di qualcos'altro, se non sentite la voce interiore che vi invita a darvi da fare in questa vita, a desiderare di più, io non posso farci niente. Se vi accontentate e non desiderate qualcosa di più nobile, di più grande, io non posso farci niente. Da ciò che desiderate vi dirò quanto valete come uomini”.
Allora, se dobbiamo farci un augurio, fratelli, auguriamoci quello che soleva ripetere un santo prete: “Che Dio ci tormenti, che ci perseguiti, che non ci lasci stare, purché non ci permetta di risolvere banalmente i nostri problemi, di lasciarci vincere dalla paura e dal rispetto umano, di addormentarci, di raccontarci frottole”.
Pilato chiede a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?» (v. 33). La domanda ha il tono di una presa in giro, fatta con evidente ironia, come a dire: “Io sono il re della Palestina, tu di chi sei re?”. Pilato ragiona pensando al suo ruolo sociale: “Sei per caso un nobile, un dirigente, un personaggio importante, un dottore, uno scriba, uno che ha studiato molto?” Egli non può capire Gesù: perché per lui “re” è solo chi ha potere. Ma Gesù parla di un altro mondo! Pilato non può neppure lontanamente immaginare a cosa alludano le parole di Gesù.
A certe persone è inutile parlare di anima, di verità, di Dio, di dare un senso alla vita, di fuoco interiore, di libertà: non capirebbero; ascoltano solo se si parla di soldi, di case, di investimenti, di guadagni, di divertimenti.
Gesù gli risponde: «Dici questo da te oppure altri te lo hanno detto sul mio conto?» (v. 34). Pilato crede di poter salvare Gesù: ma è Gesù che invece tenta in tutti i modi di salvare lui. Gesù tenta in tutti i modi di farlo uscire dalla spirale di paura in cui si trova. Vorrebbe che si ascoltasse, una buona volta; che desse retta alla sua coscienza. Vorrebbe che non ragionasse spinto solo dalla paura, condizionato dalle conseguenze di una sua scelta veramente libera. Vorrebbe che almeno una volta egli fosse davvero sovrano della sua vita. Ma non è così.
Pilato, re della Palestina, è ancora condizionato, schiavo dell'opinione pubblica e della ragion politica. E gli risponde in maniera banale, distratta, superficiale: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cos'hai fatto?» (v. 35). Gesù aveva tentato di riportare Pilato dentro di sé; ma Pilato scappa e si rifà a quello che dicono e che fanno gli altri; non riesce a guardarsi dentro, non riesce a stare con sé, a porsi domande vere, a fermarsi. E se ne lava elegantemente le mani (Mt 27,24).
Ma «chiunque è dalla verità»(v. 37), non può far finta di niente per stare tranquillo. Non lo possiamo più neppure noi. E allora bisogna cercare; allora bisogna aprire gli occhi e far cadere le nostre false illusioni di vita; anche quando ci accorgiamo che “la verità fa male”; quando ci accorgiamo che la verità va oltre la realtà che conosciamo; perché è facendo così che riaffiorano quelle emozioni e quei sentimenti che tenevamo segreti e nascosti, perché pericolosi.
Non esiste l'amore in astratto: esistono persone che amano. Non esiste la libertà in quanto tale: esistono persone che si liberano, persone che sono libere perché liberate. Non esiste la verità in sé: esistono persone vere, autentiche. Solo Lui è essenzialmente l'Amore, la Verità, la Libertà.
Pilato si sottrae alla questione, esce. È questo il grande rischio anche per noi: trovare soluzioni facili, veloci, uscire dalle questioni in fretta, evitarle, risolverle magari con la violenza delle parole, ma senza rimanere coinvolti nei fatti.
E Gesù risponde: «Il mio regno non è di questo mondo…»(v. 36).
Gesù e Pilato non potranno mai incontrarsi, perché viaggiano (e parlano) su due binari diversi. Per Pilato “regno” vuol dire esercito, armi, potenza e territori. Per Gesù “regno” vuol dire verità, dominio su di sé, essere liberi di amare, di esprimere ciò che si sente, di avere Dio come unico punto di riferimento, e non dipendere passivamente dagli altri.
A volte i nostri ragionamenti sono esattamente identici a quelli di Pilato: anche noi viaggiamo su un piano diverso rispetto alla Parola di Gesù: e camminando su due piani diversi è impossibile incontrarlo.
È quello che succede spesso anche tra padre e figlio. Uno esclama: “Non sono felice!”. E l’altro: “Ma cosa vuoi di più dalla vita? Non ti manca niente, di ho dato tutto! Sapessi come ho vissuto io!”. Però l’uno parla dell'amore, dell'affetto, della presenza paterna nella sua vita; l'altro, il padre, per “tutto” intende i soldi, il lavoro, potersi permettere il superfluo, gli sfizi, i divertimenti. E così tra fidanzati: “Ti amo”. Solo che lui con queste parole vuole portarsela a letto; lei invece lo vuole sposare. La madre dice continuamente: “Lo faccio per il tuo bene”: ma lui, il figlio, si sente sempre comandato a bacchetta. Quando torna da scuola la prima domanda che gli viene rivolta è: “Come è andata?”, che per i genitori è: “Ci interessa sapere cosa ti è successo”. Ma lui dice dentro di sé: “Ancora domande! Ancora interrogazioni! Ma lasciatemi un po' in pace, per favore!”.
Pilato chiede dunque a Gesù: «tu sei re?» (v. 37). E dentro di sé avrà sorriso di commiserazione: “Ma guardati! Senza esercito, senza soldati, senza appoggi politici; dove vuoi andare? Sei qui davanti a me, ti posso uccidere o salvare, e tu mi sfidi dichiarandoti re? Ti rendi conto di quello che dici? Sei incatenato, tutti ti odiano, tutti non vedono l'ora di metterti in croce e tu ti proclami re davanti a me, l'unico che, tutto sommato, può e vuole salvarti? Sei proprio senza ritegno!”. E Gesù risponde: «Tu lo dici; io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce» (v.37).
Pilato si crede re, ma non si comporta da re. Si crede re, ma condanna un uomo che ritiene innocente. Si crede un re libero, ma è costretto ad assecondare una folla assetata di sangue: pur di salvare la sua“ragione di stato”, si sottomette vigliaccamente al volere altrui. Si crede sicuro di sé ma, non sapendo come uscire da questo imbroglio, se ne lava le mani.
“Chi è, allora, il vero re?”, ci chiede Giovanni. La risposta è ovvia: Gesù! Ma è una verità non facilmente comprensibile per chi guarda solo con occhi umani. Gesù è un Re singolare. Sulla croce è affisso un cartello: «Costui è Gesù, il Re dei Giudei» (Mt 27,37). E la gente si fa beffe di lui: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso» (Lc 23,37). Per i Romani arrogarsi il titolo di re è motivo valido per appendere Gesù ad una croce; per i Giudei, un pretesto per schernirlo, per umiliarlo. Gesù non corrisponde in nulla alla loro idea di re. Ma Gesù è realmente re: solo che lo è in maniera diversa da come i Giudei se l’aspettano. Gesù è re perché nel suo regno immateriale è l’unico, in assoluto, che regna; Lui solo è al comando; è Lui che decide, lui che ha il controllo su tutto. Non esistono forze nemiche che possano batterlo. Lui è il re della vita, il vincitore della morte, il re della Luce, della Speranza, dell’Amore. È il nostro re. Il nostro Salvatore, il nostro Maestro. È Lui che ci ha insegnato ad essere anche noi “re” di noi stessi, della nostra anima: impresa ardua; non è cosa facile essere re del nostro cuore, se ci lasciamo sopraffare continuamente dai nostri nemici: paura, dubbio, disperazione, angoscia, odio, rabbia, dolore, vergogna, aggressività, male.
Come possiamo dirci re, infatti, se siamo condizionati dal giudizio della gente, da tutto ciò che ci circonda? Come possiamo dirci re, se non riusciamo a dominare i nostri istinti? Come possiamo dirci re, se ad ogni occasione scarichiamo tutta la nostra rabbia su chi è più debole, su chi ci sta più vicino? Come possiamo dirci re, se non riusciamo a controllare i nostri comportamenti? Come possiamo dirci re, se continuiamo a fare meccanicamente e stupidamente ciò che ci proponiamo in continuazione di non fare più? Come possiamo dirci re, sovrani della nostra vita, se sistematicamente ci inganniamo per paura, nascondendoci la verità? Ma chi comanda nel nostro regno? Chi è il re? Siamo noi che decidiamo e guidiamo la nostra vita, o c’è qualcun altro che lo fa per noi? È vero, la nostra vita è tutto il nostro regno. Ma perché dimostriamo così poco interesse per viverla bene?
Chiudiamo per un istante gli occhi, fratelli, e pensiamo a Gesù; Re innalzato sul patibolo, inchiodato sul trono della croce, esposto allo scherno dei suoi nemici: lo vediamo spogliato di tutto: privato della sua dignità, nudo davanti ad amici e nemici. Privato della sua reputazione: eppure la nostra mente ricorda scene di entusiasmo per lui, gente che lo acclamava, gente guarita che parlava bene di lui, piena di ammirazione. Lo vediamo spogliato della credibilità: non scende dalla croce, non è in grado di salvare se stesso, quindi è un impostore, un simulatore. Addirittura privato del suo Dio, abbandonato dal Padre, dal quale sperava aiuto, salvezza. Lo vediamo, infine, privato della vita, di quella esistenza qui sulla terra a cui lui, come noi, si aggrappava tenacemente, riluttante ad abbandonarla. E fissando quel corpo senza vita capiremo a poco a poco di ammirare in Lui il simbolo della liberazione totale, della vittoria estrema sul mondo.
Appunto perché inchiodato e morto sulla croce, Gesù diventa vivo e libero. La sua vita è un crescendo di conquiste, non di sconfitte. Suscita invidia, non commiserazione. 
Abbiamo davanti ai nostri occhi il nostro vero Re, libero, maestoso, invincibile: e in Lui possiamo contemplare la nostra nuova condizione di essere umani, affrancati da tutto ciò che ci rende schiavi, da tutto ciò che distrugge la nostra felicità. Fissando quella libertà, fratelli, guardiamo tristemente alle nostre schiavitù, che ancora resistono in noi. Sì, fratelli, perché noi siamo ancora schiavi: siamo schiavi del mondo, della nostra cattiveria, della nostra sfiducia, del giudizio degli altri; schiavi di ciò che gli altri possono dire e pensare di noi.
Siamo schiavi del successo; ma evitiamo qualunque sfida del bene, per paura e ignavia. Siamo schiavi del benessere, del consenso umano, della gloria, delle lusinghe di questo mondo, sempre pronto a colmare ogni nostra solitudine interiore. Siamo schiavi anche di Dio: non del Dio di Gesù, ma di un Dio fasullo che ci siamo costruito noi su misura. Un Dio che pieghiamo continuamente al nostro egoismo, un Dio che ci serve solo per tranquillizzarci e renderci sicura, tranquilla e indolore la vita; un Dio che soprattutto non deve interferire con noi, porre sul nostro cammino ostacoli e antipatiche condizioni.
Ecco fratelli, questi siamo noi. A fine anno liturgico, facciamo un bilancio serio e onesto della nostra vita cristiana: affranchiamoci definitivamente da queste schiavitù, torniamo ad essere uomini liberi, re di noi stessi: e preghiamo col cuore, pieni di ammirazione e di pietà, il vero Re, il Crocifisso; Colui che ha conquistato il Regno dell’universo attraverso la passione e la morte: quel Re, che una volta lassù, sulla croce del Golgota, con un ultimo grido di immenso amore ha attirato a sé tutto e tutti. Amen.


giovedì 15 novembre 2012

18 Novembre 2012 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria» (Mc 13, 24-32).
Quando fu scritto questo testo i cristiani vivevano le terribili persecuzioni di Nerone e Domiziano. Erano momenti molto difficili, duri, drammatici: sembrava che l'annuncio evangelico potesse finire, che si potesse chiudere, sembrava veramente la fine del mondo o di un mondo. Tutti i riferimenti validi cadevano addosso ai cristiani che si sentivano sconvolti e persi.
La loro fede era sconvolta. Eppure un barlume di speranza li confortava: vivevano nell’ansia, ma dentro il loro cuore sentivano chiaramente l’invito a non temere, ad essere certi che Dio c’era, che Dio non era sparito, che Dio non li avrebbe mai abbandonati. Perché il cielo, la terra, come pure ogni cosa, ogni certezza, ogni vita, possono passare, finire: ma Dio no. Nei momenti più bui della storia, quando sembra che tutto cada, che tutto finisca, proprio in quei momenti, Dio interviene con tutta la sua potenza, con la sua gloria immortale.
«Il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno» dice Gesù: parole che noi possiamo sicuramente adattare al corso della nostra vita: quella di veder crollare tutte le nostre sicurezze è infatti una delle esperienze più terribili; e penso che più o meno tutti avremo avuto modo di provarlo nel nostro piccolo mondo personale.
Ognuno di noi ha i suoi “astri”, le sue “stelle” in cielo; punti di riferimento, che ci aiutano nel nostro peregrinare; ma non solo in cielo: anche attorno a noi, abbiamo i nostri punti fermi, i nostri riferimenti, molto più vicini, più accessibili, più misurabili e riscontrabili, che ci danno maggior sicurezza: sono il padre, la madre, le persone che ci hanno aiutato a crescere, a maturare, sono le persone che con il loro amore continuano a darci sicurezza e serenità.
Ora, cosa succede quando questi riferimenti, quando nostro padre, nostra madre, le nostre guide vengono improvvisamente a mancare, quando cessano di essere un riferimento per la nostra vita? Un disastro, fratelli.
Fino ad un certo giorno della nostra vita essi erano i nostri riferimenti fermi, fissi, stabili. Poi di punto in bianco, di fronte ai nostri occhi “cresciuti”, sono crollati: li abbiamo guardati e ci siamo accorti dei loro limiti; li abbiamo guardati e abbiamo visto i loro difetti; li abbiamo visti umani, impegolati anche loro nei problemi e nella fatica di vivere. Non erano più i nostri miti.
E noi ci siamo sentiti in qualche modo “traditi”, ci siamo sentiti persi, disorientati, senza certezze; e ci siamo rivolti a guardare a destra e a sinistra in cerca di nuovi riferimenti.
Qualche volta li abbiamo cercati dove non c’erano, dove non poteva arrivarci nulla di concreto: li abbiamo cercati tra le “stelle” del momento, dello spettacolo, della cultura, nei cantanti, nei calciatori, nei personaggi televisivi. Ci siamo adattati a qualunque compromesso pur di ricreare in noi quelle certezze che ci davano nuovi impulsi, sicurezza e tranquillità.
Ma ci siamo accorti che niente di questo genere tiene; sono case costruite sulla sabbia, senza alcun fondamento; alla prima pioggia, al primo vento, crollano inesorabilmente.
Per questo, ad ogni esperienza di questo genere, cadiamo nella tristezza, nello smarrimento, nello sconforto: perché nulla di ciò che ci circonda, nulla di ciò che è al di fuori di noi stessi, può costituire un riferimento valido, fisso e certo. Sembra la fine di ogni speranza, nessun progetto sembra realizzabile, e ci sentiamo cadere nel pessimismo e nella rassegnazione. Ma invece no! Perché allora il “Figlio dell'uomo” verrà sulle nubi “con grande potenza e gloria”: improvvisamente, dal nostro più profondo, sentiamo riemergere le nostre energie, le nostre risorse, le nostre forze. Con Lui, con il “figlio dell'uomo”, riusciremo allora a trovare in noi stessi la sicurezza; la nostra personalità si rafforzerà, conosceremo in maniera chiara chi siamo e cosa vogliamo.
Quando cadono tutti i nostri riferimenti esterni, noi avremo a disposizione quelli interni, più forti, più veri, più duraturi. Possiamo paragonare questa esperienza di vita alla fine del mondo, del nostro piccolo mondo personale: ma è una fine che ci ha permette di rinascere in un altro mondo, più autentico, più profondo e più nostro; è in questi momenti, infatti, che ritroviamo sempre la forza di cercare la nostra strada, quella che ci conduce alla vera casa, al nostro nido, al luogo dove possiamo sentirci noi stessi; un luogo dove ci sentiremo sempre accolti, amati e accettati.
Qualche esempio? Sono casi di normale storia quotidiana: ci siamo sposati e credevamo ciecamente nel matrimonio; pensavamo: “Ci ameremo per sempre, comunicheremo bene e non ci saranno contrarietà nella nostra vita di coppia”. È nato un primo figlio e poi un secondo. Pensavamo tutto sommato di essere sulla strada giusta, una strada tutta in discesa. Ma poi ci siamo accorti che il nostro partner è diverso da noi; ci siamo accorti che non siamo uguali, che ognuno di noi ha sue esigenze e sue aspirazioni; abbiamo scoperto insomma che la pensiamo in maniera diversa. I nostri figli non sono come noi li pensavamo, come noi li avremmo voluti; e questa cosa, anche se non lo diamo a vedere, ci infastidisce parecchio. Scopriamo poi che l’aver scelto quella donna non è stato proprio per vero amore, ma per un motivo ben più meschino: da spiriti liberi e indipendenti, avevamo bisogno di una come lei, docile e remissiva, per continuare a fare egoisticamente quello che ci pareva (e non ci piace scoprire questo!). E scopriamo ancora che, sotto sotto, condizioniamo i nostri figli, li manipoliamo costringendoli a fare quello che piace a noi. Ebbene, quando ci rendiamo conto di questa triste realtà, le nostre sicurezze vengono meno, i nostri riferimenti cadono, ci sentiamo persi e disorientati. Dovremo affrontare momenti dolorosi, momenti di radicale trasformazione, di turbamenti profondi; ma saranno anche momenti che ci obbligheranno a risanare la nostra esistenza, a ristabilire la nostra vita su fondamenta più solide e sicure, su relazioni più sincere e trasparenti.
Andavamo in chiesa: pregavamo, vivevamo convintamente i nostri ideali religiosi; ma ad un certo punto tutto è crollato. Ci siamo accorti che la vita non era come ci avevano insegnato una volta, che alcune delle nostre convinzioni erano indefinibili, sospese in aria, senza fondamento. Allora siamo entrati in crisi, la fede non aveva più senso per noi; non avevamo più voglia né di pregare né di cercare. Anche qui un disastro: eppure ci ha offerto la nostra grande possibilità: trovare e scoprire un’immagine di Dio più vera, più reale, più biblica e forse più vicina all'umano, meno giudicante e colpevolizzante.
Abbiamo obbedito alla chiamata di Dio di servirlo nella vita religiosa: tutto era bello, tutto facile, tutto meraviglioso. Eravamo felici di sentirci vicini a Dio, di essere tra gli “eletti”, di sentirci importanti e fortunati rispetto a tanti altri. Gli esempi delle persone “sante” ci erano di guida e di conforto. Poi abbiamo incontrato la bufera: l’intolleranza nei confronti dei superiori, la fatica di obbedire, l’irrinunciabilità alle nostre vedute, il rifiuto di dire sempre “si” soprattutto quando dentro di noi era un “no”; la vita comune, un tormento, i confratelli e le consorelle, insopportabili; tutto era diventato inutile, insignificante: l’umiltà, la povertà, la castità. Allora abbiamo cercato di scrollarci di dosso questo mondo divenuto invivibile: e non abbiamo capito che era invece l’occasione buona per incontrare “il Figlio dell’uomo”, per rafforzare cioè le nostre difese, purificare la nostra fede, sgombrare il campo dalle false certezze e guardare con rinnovata gioia e serenità alla nostra chiamata.
Questa è la vita, fratelli. E questo è il messaggio del vangelo di oggi: perché anche per noi prima o poi verrà il giorno in cui ci verrà detto, o ci renderemo conto, (oppure ci sorprenderà): “Amico, stai per morire”. Allora le gambe ci tremeranno veramente, la testa ci andrà in completa confusione, e tutte le angosce mai sentite prima si scateneranno in noi. In quel giorno capiremo di essere soli, anzi, di esserlo sempre stati: non abbiamo proprio niente a cui attaccarci, nessuno a cui ricorrere. Tutti gli amici, tutte le nostre certezze, non ci serviranno più; ci sentiremo persi e abbandonati da tutti e da tutto. Le nostre buone azioni, la nostra vita corretta, la nostra carità, tutto il nostro amore, ci sembreranno un nulla. E in quel momento tragico incontreremo “il Figlio dell'uomo”. Lo scopriremo per davvero, questa volta; lo vedremo in volto e gli saremo davanti faccia a faccia. E ci accorgeremo che il poco che abbiamo fatto, il poco che abbiamo accantonato per Lui, sarà l'inizio di tutto. È allora che l’esperienza del tragico abbandono di questa vita, del salto nel nulla, diventerà invece l'esperienza più consolante e meravigliosa, l’esperienza che ci introdurrà in una nuova vita.
Il nostro cammino verso l’eterno è fatto di un continuo “cambiare”, di un continuo abbandonare; passo dopo passo lasciamo sempre la posizione di prima per assumerne una nuova. Ogni momento è un lasciare qualcosa indietro per iniziare qualcosa di nuovo. Evolvere vuol dire lasciare, separarsi, andare. La vita và, non si può fermare. Ogni nuovo passo in avanti è una crisi: lasciamo il certo per l’incerto; anche nelle cose più insignificanti: cambiamo modo di vestire perché cambiano i nostri gusti; cambiamo gli amici perché le esigenze cambiano; cambiamo gli hobbies perché cambiano i nostri desideri; insomma noi cambiamo di continuo: nel modo di amare, di educare, di rapportarci con noi stessi e con gli altri. E ogni cambio è un po' come morire; in ogni cambio c'è qualcosa da lasciare, perché qualcosa di nuovo possa nascere.
Il vangelo oggi ci riporta dunque a questa realtà. E dice: «In verità non passerà questa generazione (= il genere umano) prima che tutte queste cose siano avvenute»; in altre parole, “questi fenomeni accadranno prima che tua vita finisca”; ossia “tutte le attuali certezze verranno meno, cadranno; sarai tu da solo ad incontrare Dio”. Ma questo, fratelli, per noi credenti sarà la nostra grande occasione: è il dato confortante della nostra fede: il Dio dell’amore, il Dio della misericordia, il Dio della Vita, ci verrà in soccorso e ci offrirà di entrare nella vera Vita, di godere la Vita.
«Quanto all'ora o al giorno nessuno lo sa»: per questo dobbiamo essere pronti, fratelli; ogni giorno, ogni ora, ogni minuto può essere quello buono. Questo lo sappiamo: allora perché rimandare continuamente la nostra conversione? Perché non cogliere le occasioni, i segnali che Dio ci manda, per rivedere a fondo la nostra esistenza? Vogliamo essere colti impreparati?
E concludo. «Dalla pianta di fico imparate la parabola».
Come ci accorgiamo dal fiorire della natura che l’estate è in arrivo, così certi particolari della nostra vita ci devono mettere in allarme, ci devono far correre ai ripari: non comportiamoci da stolti e da ciechi.
Così, se vediamo che il rapporto con il nostro partner non è più quello di una volta, dobbiamo sapere che il nostro matrimonio è in pericolo. Quando le nostre giornate sono sempre tristi e senza sussulti, dobbiamo sapere che non stiamo reagendo alla Vita, che ci stiamo lasciando andare. Quando non cerchiamo più incontri, momenti di silenzio, di preghiera, di profondità, di ricarica dell'anima, dobbiamo sapere che il nostro cuore sta inaridendo. Quando il nostro spirito si ribella e inizia a mandarci messaggi di malessere e di insofferenza, dobbiamo sapere che la nostra vita interiore si sta inaridendo.
Ebbene: non sottovalutiamo la percezione di questi segnali di disagio; dobbiamo essere pronti ad agire di conseguenza. Se dobbiamo evitare una mina posta sul nostro cammino, e ci hanno fornito le indicazioni della sua posizione, prendiamo subito le nostre precauzioni, non aspettiamo di calpestarla: perché in quel caso, sarebbe troppo tardi! Non facciamo finta di niente. Non sottovalutiamo i campanelli d’allarme. Perché “l'estate” arriverà comunque dopo l’inverno: sia che lo vogliamo o non lo vogliamo, sia che siamo pronti oppure no: Amen.

 

martedì 6 novembre 2012

11 Novembre 2012 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario

«Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa» (Mc 12, 38-44).
Gesù si trova nel tempio. E guarda, osserva quello che gli accade intorno. E commentando ciò che vede, insegna.
«Gli scribi amano esibire le loro lunghe vesti». Al tempo di Gesù, tutti indossavano il tallit (una specie di scialle), era un normale accessorio di abbigliamento; quello degli scribi però si distingueva dagli altri perché era molto ampio, lungo e sontuoso. Era impossibile non notarlo e ammirarlo. Un simile vestito, da solo, qualificava già la persona che lo indossava, ne stabiliva l’alto grado sociale, ne sottolineava le cospicue possibilità finanziarie. Camminavano lentamente tra la folla, avvolti nelle loro ricche vesti, per “ricevere saluti nelle piazze”, per essere ammirati, riconosciuti, temuti; incutevano, nella gente comune che incontravano, un senso di inferiorità, di soggezione, di sudditanza.
Nelle sinagoghe avevano un posto riservato, un posto d'onore, di fronte a tutta l'assemblea. Nelle feste e nei banchetti erano sempre a capotavola, nei posti più avanti e più vicini al festeggiato.
Promettevano preghiere e sostegno spirituale alle vedove, che nella società di allora costituivano l’elemento più debole, più sfruttato. In realtà era solo un pretesto per spillare loro quattrini, spogliandole dei loro miseri averi, con la scusa di difenderle. Insomma erano delle persone poco raccomandabili, questi scribi: pieni solo di sé stessi, tutta e sola apparenza, anche nei momenti di preghiera, che dovevano essere i più sentiti e autentici.
“Essi riceveranno una condanna più grave”. Gesù non ha pietà per questo genere di falsari della religione e del culto, per questi amanti dell'esteriorità, della vanità, dell'esibizione personale, del proprio tornaconto.
Ebbene, fratelli, ci ricorda nessuno questo genere di persone descritte da Gesù? Proprio nessuno? Eppure chi è oggetto della nostra ammirazione? Chi guardiamo noi con invidia? Chi è importante ai nostri occhi? Chi sono i personaggi che fanno notizia, che fanno alzare gli indici di ascolto televisivo, che sono sempre sulle prime pagine dei giornali, facendone aumentare la tiratura? Sono gli “scribi” del ventunesimo secolo; sono i “fortunati”, quelli che possono, quelli che girano con le scorte…
Quanti vip, quanti politici, quanti attori e attrici, quanti ammalati di “divismo”, spendono centinaia di migliaia di euro per un vestito, una giacca, per poi ostentarli esibendosi nei salotti televisivi, pavoneggiandosi nelle prime teatrali, nelle manifestazioni mondane, cercando ad ogni costo l’ammirazione e il consenso del pubblico. E la massa li guarda estasiata, ammaliata; si lascia condizionare dal loro fascino, arrivando a sostenere viaggi e attese snervanti pur di poterli avvicinare un solo istante, al loro passaggio, o assistere a qualche loro esibizione!
Del resto loro presenza determina il successo di qualsiasi avvenimento; per questo sono gli ospiti d’onore fissi, gli opinionisti ricorrenti in ogni salotto televisivo; sono ammirati e applauditi, sempre e comunque, anche quando dimostrano grande superficialità e una preoccupante carenza di cultura.
Ma non basta: quello che preoccupa ancora di più è il numero impressionante, soprattutto di giovani, che pur di imitarli, pur di provare anche solo per un attimo l’ebbrezza della notorietà, non esitano a calarsi in spettacoli e trasmissioni degradanti (Grande fratello), a sostenere prove demenziali o umilianti (Isola dei famosi). Purtroppo il “gossip” per tanta gente è diventato l’unico nutrimento culturale e spirituale.
Siamo proprio caduti in basso, fratelli! Siamo letteralmente abbagliati non dalla Luce vera, ma da fuochi fatui. Soprattutto non ci rendiamo conto, o meglio non vogliamo rendercene conto, di quanto squallido sia il rovescio della medaglia di questo stile di vita; non vogliamo vedere cosa si nasconda realmente dietro certe facciate di lusso e notorietà: un abisso di solitudine, un cumulo di cattiverie, di vuoto, di violenze, di lacerazioni interiori. Ma di ciò nessuno se ne fa un problema!
Noi scribi di oggi, siamo disponibili a tutto purché la nostra immagine esteriore sia sempre affascinante, luminosa, attraente; purché in nessun modo trapeli agli altri il nostro nulla, il nostro vuoto di personalità, di amicizia vera, di amore. Siamo uomini di cartapesta, dei pupazzi, fenomeni da baraccone.
Ce ne rendiamo conto, ma ci sta bene così: non vogliamo cambiare, non vogliamo metterci veramente in gioco. Dimostriamo di non aver capito che essere individui veri, genuini, protagonisti aperti alla vita, non vuol dire stare sopra gli altri, apparire, essere osannati; ma vuol dire essere se stessi, essere i primi in basso, nell’umiltà; vuol dire fare il bene nel silenzio, senza guardare ai riconoscimenti, agli applausi degli altri; vuol dire primeggiare nella carità, nell’amore. Solo questo basso profilo ci renderà primi, vincitori della buona battaglia, benvoluti agli occhi di Dio, fruitori della Vita.
Essere vivi vuol dire avere gli occhi luminosi, i sentimenti fluidi; vuol dire che ascoltiamo gli altri con interesse, che ciò che diciamo ha un senso e non è banale; che c'è spazio per noi e per gli altri, che ci sentiamo a nostro agio con le persone più umili; che non abbiamo bisogno di attaccare il prossimo, né di difendere la nostra reputazione; in una parola vuol dire non avere il bisogno di elevarci sopra i fratelli. Soprattutto vuol dire non inseguire il successo ricorrendo a mezzi meschini, come giudicare e sparlare del prossimo. E invece noi giudichiamo, sparliamo, demoliamo: sulle rovine del prossimo costruiamo la nostra gloriosa facciata. Che tristezza, fratelli, cercare con tanta meschinità onori, gloria, consensi!
L'egoista (lo scriba, il narcisista) è uno che si preoccupa soltanto della propria immagine; l'uomo di fede invece si interessa della vita. L'egoista crede nella magia dell'apparire e del buon nome; l'uomo di fede invece crede nella vita dello Spirito che lo inabita. La sua preoccupazione non è risultare gradito ad ogni costo, ma sviluppare il divino e lo Spirito che abita nella sua anima.
Agli scribi Gesù dice: “Guai a voi, guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all'esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d'ipocrisia e d'iniquità” (Mt 23,27-28). Ciò che fa infuriare maggiormente Gesù è che queste persone false, non sono persone anonime, insignificanti; sono “scribi”, sono gli esperti della Scrittura, della Bibbia, di Dio, i custodi e amministratori della legge. Sono persone che parlano continuamente di Dio, che hanno sempre il consiglio pronto su come ci si deve comportare, su cosa si deve fare; persone che si vantano di saper interpretare la volontà di Dio, ma che lo fanno soltanto per gli altri. Hanno sempre in bocca il nome di Dio, ma il loro cuore è vuoto, arido. Lo conoscono benissimo con la mente, ma lo ignorano totalmente nel cuore.
Un po’ come talvolta capita anche a noi, fratelli. Possiamo infatti sapere tutto di Dio, rispettare tutte le regole formali e andare a messa tutte le domeniche e confessarci ogni mese, essere insomma “uomini di chiesa”; ma se il nome di Gesù non ci fa sussultare l'anima, se le sue parole non ci fanno vibrare il cuore, se il suo pensiero non ci trasmette desiderio di verità e di ricerca, in una parola non ci “prende”, non ci appassiona l'anima, a che ci serve tutto quello che sappiamo, che ce ne facciamo di tutte le nostre conoscenze?
Ebbene, sono proprio questi sedicenti “uomini di Dio”, questi “scribi e farisei”, le persone che Gesù considera false, senza fede, eretiche e ingannatrici. E a tutti noi dice: “State attenti”, non fatevi ingannare: chi ama Dio, non si vede dal vestito o dalla talare; da come appare nel tempio o da quanto sa di Dio; da come predica bene, o dalla carica che occupa. Chi ama Dio si riconosce dalle opere, dalla coerenza con cui vive, dalla forza d'animo, dall'amore e dalla bontà che gli traspare luminosa dagli occhi e dal cuore.
Concluso questo sfogo contro gli scribi, nauseato, irritato dal loro comportamento, Gesù va a sedersi in prossimità dell'ingresso del tempio, dove stazionavano gli incaricati alla raccolta delle offerte libere. Era lì che i ricchi contrattavano con i sacerdoti l'entità delle loro cospicue donazioni, accolte da soddisfatti sorrisi di compiacimento; ed era sempre lì che i poveretti, in particolare le povere donne, disponendo di somme molto esigue, erano costretti a subire da loro biasimo e disprezzo.
Essere vedove, all’epoca, significava essere senza reddito, senza un minimo di sostentamento: le donne non lavoravano, erano costrette a vivere di elemosina, di carità, di quel poco che altri donavano loro. Le vedove vivevano mendicando. Non avevano niente di niente se non due tre figli sempre affamati da nutrire.
Probabilmente i pochi spiccioli offerti dalla vedova notata da Gesù, costituivano l’intera somma della sua giornata di elemosina. Agli occhi superficiali e boriosi degli addetti, quella donna non offre praticamente nulla, una cosa irrisoria, un'inezia. Ma agli occhi profondi e misericordiosi di Gesù, quella donna offre il massimo, tutto quello che possiede, tutto quello di cui dispone, tutto di tutto. Il criterio di valutazione di Dio è molto diverso dal nostro. Dio non vuole mai “qualcosa” di noi; Dio vuole “tutto” di noi. Dio non vuole da noi “cose”; vuole noi. Dio vuole stare al centro della nostra vita. Egli vuole che noi, per Lui, ci mettiamo in gioco del tutto. Vuole che noi per Lui, cambiamo radicalmente il nostro modo di pensare, di relazionarci, di amare, di vivere, di credere; vuole che diamo un ordine diverso alle nostre priorità.
Se dunque non fosse stato per lo sguardo di Gesù, nessuno mai avrebbe saputo di questa donna. Quello che per gli addetti al culto era dozzinale, insignificante, senza valore, per Lui non lo era affatto. Perché anche le cose più misere, più insignificanti, alla sua luce acquistano valore, lucentezza, splendore!
Gesù ha sempre amato gli umili; ad essere suoi discepoli non ha certo chiamato i sacerdoti del Tempio, né i ricchi farisei, né gli scribi, i sapienti di allora. Gesù scelse al contrario persone di poca cultura, dei pescatori un po’ rozzi, a volte di testa dura e ostinati (come Pietro). I “grandi” maestri dell’epoca lo avranno sicuramente commiserato per questa sua scelta così scombinata. Ma Lui sapeva quel che voleva, Lui vedeva dentro: quelle persone avevano poco o nulla, è vero; ma erano pronte a dare tutto quello che avevano.
Ai tuoi occhi, Signore, tutto si trasforma: il mio buio per te è luce abbagliante; la mia povertà, per te è inestimabile ricchezza, il mio poco, per te è un tesoro prezioso; perché il tanto di uno, ai tuoi occhi è nulla; il niente di un altro, ai tuoi occhi è tutto. Amen.
 

mercoledì 31 ottobre 2012

4 Novembre 2012 – XXXI Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?» (Mc 12,28-34).
E Gesù di rimando, come al solito, senza esitazioni: «Shemà Israel, ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza». Una risposta che soddisfa anche l’interrogante, “hai detto bene”; una risposta che contiene il cuore palpitante della fede biblica. Il primo e più importante comandamento. I rabbini avevano condensato la Legge di Mosè in 613 comandamenti: 365 in forma negativa (“non devi…”), considerati lievi, e 248 in forma positiva (“devi…”), che erano invece ritenuti gravi. Una giungla di prescrizioni, tra le quali anche i più esperti studiosi della Torah, si muovevano con difficoltà.
Il “sapiente” di turno, dunque, uno scriba che forse vuol saggiare la preparazione di Gesù, o forse mosso anche da sincera voglia di sapere, gli rivolge una domanda secca: fra tutti questi precetti, qual è il primo, quello più importante?
Gesù lo lascia perplesso, lo prende in contropiede, ripetendogli prontamente quella stessa professione di fede deuteronomica che lui, da buon israelita, ha il dovere di recitare tutti i giorni, più volte al giorno. Una professione di fede chiara, intoccabile, intramontabile. È come il Padre Nostro per noi Cristiani.
Sono parole semplici, ma di grande interiorità, con le quali si proclama e si riconosce la stretta relazione del popolo con il suo Dio, la sua appartenenza a Lui, anzi l'appartenenza reciproca: siamo del Signore e il Signore è nostro: «Il Signore è il nostro Dio». È per questo che Israele rinuncia a rendere qualunque forma di culto alle divinità pagane, inesistenti, dedicandosi interamente al suo Dio e all'osservanza della sua Legge. Perché solo affidandosi esclusivamente a Lui, egli sa di non aver bisogno più di nulla da nessun altro.
Ma nonostante la validità e l’universalità della risposta, Gesù non si ferma qui. Egli va oltre; vuole integrare l’antica legge, completandola, mettendosi sulla linea della grande tradizione profetica e rabbinica: «Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c'è altro comandamento più grande di questi».
Il comandamento dell'amore è fondamentale, unico: prima di tutto l’amore a Dio, indiscutibilmente; poi l’amore verso il prossimo. Il primo non può esistere separato dal secondo.
Pur rimanendo distinti, i due comandamenti si intrecciano, si richiamano a vicenda. Non possiamo amare Dio, se non amiamo anche quelli che Egli ama. Se ci impegnassimo ad amare Dio soltanto, escludendo il nostro prossimo, la nostra relazione con Dio sarebbe semplicemente falsa, inesistente e quindi illusoria. Se investissimo ogni nostra energia nell'amare gli uomini, fossero pure i più bisognosi, i derelitti, gli abbandonati, escludendo espressamente Dio dal nostro orizzonte, il nostro rapporto con loro sarebbe semplicemente esibizionismo, voglia di emergere, amore non genuino. Ogni nostro gesto di amore nei confronti del prossimo è autentico soltanto se è mosso anche dall’amore verso Dio. L’amore è unico, inscindibile.
«Shemà Israel, ascolta Israele». Da questa solenne esortazione Gesù prende lo spunto per rivelarci quel rapporto totalizzante con Dio e con il prossimo, che Egli condensa in un’unica parola: amore.
«Amerai con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze; amerai come stesso». Non c’è possibilità di fraintendimenti: il “cuore, l'anima, le forze” non sono tre facoltà separate, ma costituiscono l'uomo nella sua completezza: il “cuore” è il centro profondo della sua persona, dove nascono gli affetti e maturano le decisioni; l' “anima” indica la sua intera esistenza permeata dal divino soffio vitale; le “forze” dicono anche il coinvolgimento della totalità del suo corpo vivente, di tutte le sue energie e risorse fisiche.
In pratica Dio non si accontenta di una parte: o solo quella spirituale oppure solo quella materiale. Egli vuole che l’uomo sia interamente, completamente, esclusivamente suo. Non gli basta di essere servito, onorato, pregato dall’uomo: Egli vuole essere amato, e non di un amore qualsiasi, ma di un amore esclusivo, completo.
Ecco: la novità e l'originalità di Gesù sta nell'avere rivelato e insegnato l'unità, l’inscindibilità dei due comandamenti dell'amore; e sta anche nel fatto, che nessuno è mai riuscito a viverli in maniera così perfetta di come ha fatto Lui. La novità sta anche nel fatto che un tale amore, impossibile alle sole nostre forze umane, ci viene comunicato gratuitamente da Gesù e dal Padre attraverso il dono del loro Spirito. Implorare da Dio il dono dello Spirito Santo significa chiedere proprio tale capacità d'amare.
La religione di Gesù, dunque, è la religione dell'amore, non della paura; la religione della fiducia, non del timore; la religione del cuore e non delle pratiche esteriori. È soprattutto la religione dell'amore, in quanto in essa noi scopriremo sempre di più che Dio ci ama di un amore infinito, pieno di tenerezza, di bontà, di misericordia, di fiducia. Perché Dio è Amore; e anche noi, nel nostro piccolo e con tutti i nostri limiti, siamo chiamati a diventare amore. Gesù, infatti, nella pienezza della sua missione, non si accontenta di dire: Ama il prossimo come te stesso, come puoi o come vuoi; ma ci invita ad amare secondo la misura del suo Cuore: “Amatevi gli uni gli altri, come Io vi ho amati”. E Lui non ha posto limiti, ci ha amati offrendo tutto se stesso per noi, fino al sacrificio della sua vita. Ecco, questo deve essere “il nostro” comandamento, il comandamento “nuovo” omologato da Gesù stesso.
Certo, fratelli, parlare di amore è abbastanza facile. Ma l'amore non lo si dimostra con le parole, con i grandi discorsi, con programmi grandiosi: l’amore si pratica con i fatti. Anzi dobbiamo imparare a parlare poco, a non esibirci, a non pubblicizzarci in iniziative straordinarie, ma a compiere invece molte piccole azioni di amore autentico, generoso, disinteressato; verso tutti, ma con particolare attenzione verso le persone che hanno più bisogno, anche quelle che non ci sono simpatiche o verso le quali non ci sentiamo portati. Gesù ci ha detto di amare perfino i nemici... “perché se amate coloro che vi amano, che merito ne avete?”
Se vogliamo intraprendere la strada dell'amore, non dobbiamo riempirci la bocca di belle parole, ma dobbiamo riempire la nostra vita di fatti concreti. Dobbiamo prendere coscienza che, nonostante tutto ciò che ci ha detto Gesù e che noi stessi conosciamo quasi a memoria, è molto facile sbagliare e peccare contro la carità e l'amore del prossimo. È infatti soprattutto verso il prossimo che noi siamo peccatori. Basti pensare alle mancanze che facciamo con le persone che ci sono più vicine, in casa nostra, nel lavoro, nelle relazioni con gli altri: egoismo, parole, giudizi, critiche... Basti pensare anche ai peccati tra noi cristiani: le divisioni, le critiche, i personalismi, le incomprensioni... In fondo anche le divisioni, i giudizi malevoli, i protagonismi all’interno della chiesa, della parrocchia, sono peccati contro la carità, contro l'amore. E dire che Gesù ci aveva raccomandato solo questo! Lo aveva anzi posto come nostro “distintivo”: «Da questo conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri».
Allora, fratelli, non basta la preghiera, non basta la messa domenicale, la comunione, le elemosine, la caritas... Dobbiamo amare veramente! Ma è possibile amare veramente? Sì è possibile, fratelli! Ed è la cosa più bella, più facile, più vera: basta provarci ogni giorno. E la preghiera, la messa, la comunione ecc. saranno non il punto esclusivo di arrivo, ma il punto di partenza per chiedere a Dio di aiutarci a diventare sempre più cristiani in grado di amare con tutto il nostro cuore Lui e il prossimo. Questo ci porta pertanto ad essere umili, a chiedere perdono, a essere molto concreti nei nostri propositi.
Se noi chiediamo umilmente a Gesù: “Qual è il senso ultimo della nostra vita?” Sono certo che la sua risposta sarà: “lasciatevi amare, amatevi, amate”. Prima di tutto “lasciatevi amare” da Dio; Dio ci ama tantissimo, fratelli, quando lo capiremo? Ci ama senza condizioni, senza possesso, senza fragilità. Ci ama non perché siamo meritevoli, ci ama non perché siamo buoni; è Lui che, amandoci, ci rende buoni.
Capisco che a volte è difficile, fratelli. So bene che il nostro cuore talvolta è indurito, rinchiuso in una gabbia di dolore, non riusciamo a vedere questo Amore perché la rabbia di non essere stati amati ci ha intossicato il cuore e la mente. Fidiamoci di Lui, lasciamoci andare. Dio sul serio ci ama, sul serio desidera per noi il bene; davvero: Gesù è morto per affermare questa certezza, ci ha creduto e ne è morto.
La seconda condizione per cui vivere è “amarci”. Accettarci cioè così come siamo, con i nostri limiti, le nostre parti oscure. Un falso cristianesimo ci impedisce di gioire di noi stessi, vedendo in questo atteggiamento un atto di egoismo da parte nostra. L'egoismo è, invece, non accettare i propri limiti, voler accaparrare, prendere, impossessarsi, piuttosto che fare della propria vita un dono. L'egoista appare, si sforza di vendere un'immagine di sé che gli impedisce di rientrare in se stesso e gioire. Ci amiamo, fratelli? Ci perdoniamo? Siamo convinti che possiamo trasformare ciò che siamo in un capolavoro di amore? Certo, per imparare ad amare ci vuole tutta una vita, tutta la nostra vita. Ma possiamo farcela, sul serio; guardarci come ci vede Dio, non come il mostro delle nostre paure e neppure come l’eroe dei nostri sogni, ma come la persona che Dio ha pensato e amato. Allora possiamo amare dell'amore che abbiamo ricevuto e che ha trasfigurato il nostro cuore, allora possiamo davvero vivere, riconciliati nel profondo con i nostri fratelli.
Infine la terza condizione è: “amate”. Amiamo Dio perché ci scopriamo teneramente amati, amiamolo perché ce ne innamoriamo, amiamolo come riusciamo, ma tutto, interamente. Non potremo amarlo in maniera assolutamente pura, non avremo forse mai la forza di un gesto totale; il nostro amore, spesso, è vincolato, fragile, appesantito. Non importa, fratelli, amiamolo con tutto ciò che riusciamo, come riusciamo, amiamo senza paura. È questo il segreto, fratelli: scoprire di essere amati, di essere amabili, di diventare capaci di amare nel nostro modo un po' grossolano e fragile. Dio ci rende capaci di amore, di luce, di pace, di essere segno e dono, di donare, di contrastare la logica di questo mondo. È difficile, vero. Abbiamo l'impressione di nuotare controcorrente. Ma l'esempio di tanti santi ci conforta. Come loro, anche noi, entro le nostre possibilità, possiamo vivere l'amore; molti di noi già lo fanno: basti pensare alle mamme e ai papà accanto ai loro figli, le famiglie accanto ai propri anziani, i cristiani accanto a chi nella società è malato, povero, emarginato, solo.
E allora coraggio: ciascuno di noi, in questo momento, può certamente offrire a tante persone atti di bontà, di generosità, di incoraggiamento, di aiuto, sia morale che materiale. Facciamolo col cuore, con disinteresse, anche con sacrificio, ma soprattutto con amore sincero. Perché alla fine della vita, saremo giudicati proprio su questo, sull'amore.
E concludo. Esaminiamoci spesso, fratelli; chiediamoci con tutta sincerità, nell’intimo del nostro cuore: “In questo momento, sto amando veramente o mi sto illudendo di amare? Amo realmente Dio più di tutto il resto? Dio è realmente il mio tesoro più caro? Amo concretamente il prossimo, vale a dire voglio il suo bene e lo compio, direttamente o indirettamente?”
Ecco, cerchiamo di ricordare ogni sera se abbiamo compiuto durante la giornata qualche atto di amore genuino a Dio e al prossimo. Proviamo a recitare lentamente l’«atto di carità» (ce lo ricordiamo ancora?), cercando di coglierne il significato; esaminandoci se siamo sinceri nel fare a Dio una tale dichiarazione d'amore: «Mio Dio, ti amo con tutto il cuore sopra ogni cosa, perché sei bene infinito e nostra eterna felicità…; per amor tuo amo il prossimo mio come me stesso…, perdono le offese ricevute… Signore, che io ti ami sempre più». Facciamolo, fratelli: così, umilmente, semplicemente, come l’hanno fatto e come ci hanno insegnato i nostri genitori, i nostri nonni. Perché la cosa più bella che possiamo fare nella nostra vita è amare Dio e tutti i nostri fratelli: questo ci rende persone di luce, di gioia, di pace; persone che fanno trasparire anche dal proprio volto una pallida sembianza della bontà di Dio. E la gente, fratelli miei, ha proprio bisogno di questo! Solo di questo. Amen.

mercoledì 24 ottobre 2012

28 Ottobre 2012 – XXX Domenica del Tempo Ordinario

«Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: Che cosa vuoi che io faccia per te?. E il cieco gli rispose: Rabbunì, che io veda di nuovo! E Gesù gli disse: Va', la tua fede ti ha salvato» (Mc 10, 46-52).
Abbiamo visto nel vangelo di domenica scorsa come i discepoli si siano dimostrati ciechi nei confronti di Gesù e della sua missione. Ebbene: oggi Marco torna sul tema della cecità ponendo l’incontro con il cieco Bartimèo immediatamente prima dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme: come a dire che per comprendere il senso della Sua vita e della Sua sofferenza, dobbiamo avere gli occhi penetranti della fede, dobbiamo vedere perfettamente e soprattutto dobbiamo saper cosa vedere; perché non basta avere gli occhi, anche se buoni, per dire “ci vedo!”.
E sono i lontani, quelli con cui Gesù ha che fare occasionalmente, che riescono a “vederlo” nella maniera giusta: è il cieco del vangelo di oggi, che riacquistata la vista, si mette spontaneamente come discepolo al suo seguito, unico a seguirlo ad occhi aperti e consapevoli nel cammino della passione e della croce; è il centurione sul Golgota che, subito dopo la morte di Gesù ci vede improvvisamente chiaro quando esclama: «Veramente quest'uomo era Figlio di Dio» (15,41); il giorno dopo la morte, saranno delle pie donne “a vederci” e a capire tutto. Al contrario i più vicini, gli apostoli, i prescelti, i chiamati per nome, arriveranno “a vedere” dopo, molto dopo. La loro “storia” della passione è la storia di uomini che “non hanno visto niente”. Non sono riusciti, cioè, a penetrare il mistero, sono rimasti ciechi. Esattamente come succede nella nostra vita quando rimaniamo indifferenti, quando ci fermiamo alla superficie delle cose e degli eventi
Gesù dunque sta per lasciare Gerico quando improvvisamente, al suo passaggio, un uomo si mette a urlare: è Bartimèo, un cieco che chiede l’elemosina ai margini della strada. Dal suo nome gli esegeti risalgono alla sua personalità (Bar-timeo = figlio di Timeo; ora “tìmeo” = aver paura; quindi: figlio della paura); si tratta cioè di uno che è cieco nell’anima più che negli occhi; è uno che ha paura, che teme di affrontare la vita, che non crede più in sé, che si ritiene incapace di affrontare da solo la vita: e questa sua insicurezza, questa sua paura, lo costringe a fermarsi lungo la strada, a mendicare, a chiedere l’aiuto degli altri. È cieco, è vero. Ma un cieco che non vuol vedere.
Né più né meno di come siamo anche noi quando non vogliamo affrontare la realtà: chiudiamo gli occhi, rimuoviamo gli ostacoli; siamo convinti di vedere, ma brancoliamo nel buio. Ci comportiamo irrazionalmente: se non vediamo una cosa, pensiamo che non ci sia. Soltanto, fratelli, che questo metodo non funziona. Lo sappiamo che non funziona: eppure di fronte a certi dolori, a certe sofferenze della vita, alle quali non possiamo sottrarci, continuiamo a chiudere gli occhi. E non c’è niente che ce li faccia aprire: così ci lasciamo andare, diventiamo preda della depressione, ci diamo all'alcool, alla droga, agli eccessi: ci alieniamo, mendicando la carità altrui. Abbiamo paura di conoscerci, fuggiamo da noi stessi, dalla nostra anima. Ma il problema rimane, perché non potremo mai sfuggire a noi stessi. Diventare “ciechi”, per paura della sofferenza, della vita, è perfettamente inutile!
Il cieco è seduto lungo la strada: è ovvio perché quando non sappiamo chi siamo realmente, non sappiamo neppure dove andare, cosa fare. Allora chiediamo ansiosamente a destra e a sinistra: “Chi sono? Cosa devo fare? Come devo vivere?”; ci sentiamo persi, ci sentiamo impossibilitati a vedere; se guardassimo dentro di noi, non avremmo certo bisogno di elemosinare opinioni e consigli. Non volendolo fare, ci accontentiamo di vegetare: non abbiamo una direzione da seguire, siamo senza una meta precisa, non sappiamo come muoverci nella vita; ci accasciamo e vaghiamo stupidamente di qua e di là.
Il cieco mendica: quello che non vediamo in noi, lo chiediamo agli altri. Abbiamo bisogno di continue conferme, ci serve che qualcuno si sostituisca a noi. In questo modo gettiamo via quello che siamo e accettiamo supinamente qualunque soluzione gli altri ci propongano. Ci accontentiamo delle briciole, ci svendiamo, scendiamo a compromessi terribili. Siamo convinti di trovare fuori di noi, quello che invece abbiamo già dentro e non vogliamo vedere.
Quando passa Gesù il cieco comincia a gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me».
Il cieco sa di aver sbagliato; si rende conto che se è finito in quella condizione è perché non ha voluto vedere certe cose e chiede perdono: “Abbi pietà di me”. E lo fa gridando; non si rassegna, non demorde. Gridare aiuto, indica la volontà di uscire da una certa situazione negativa, vuol dire che uno è disposto a tutto pur di venirne fuori. Significa avere fede. E sarà proprio la fede che salverà Bartimèo.
Al suo urlare la folla lo zittisce. Talvolta proprio chi è più vicino a noi ci distoglie dai nostri propositi, dal nostro desiderio di guarigione. Per questo dobbiamo “urlare”, dobbiamo far sentire a tutti la nostra voglia di vivere; per fare questo, dobbiamo però credere nuovamente in noi, nella nostra fede; dobbiamo cioè “riconoscere” il passaggio di Gesù nel nostro cuore. Perché è lui che ci sentirà e ci salverà. Dobbiamo avere la forza e il coraggio di sfidare il giudizio della gente “perbene”, dobbiamo creare scompiglio nella “folla” che ci rallenta; insomma dobbiamo fare di tutto per bloccare il passaggio di Gesù. Se non siamo convinti di poterlo fare, se non ci crediamo noi stessi con tutte le forze, non succederà mai nulla. Noi infatti riusciamo ad ottenere solo ciò che siamo convinti di volere, ciò in cui crediamo fermamente: se non crediamo di guarire, non guariremo; se non crediamo di poter cambiare, non cambieremo; se non crediamo al nostro sogno, non arriveremo mai a realizzarlo; se non crediamo nella forza del nostro cuore, non arriveremo mai ad amare. Se non crediamo nel Dio che abita in noi, non saremo mai felici. Insomma, se non crediamo in noi, non realizzeremo mai niente.
Bartimèo vuole riottenere la vista con tutte le sue forze, a tutti i costi; lo vuole così tanto che non gli interessa di fare brutta figura, di essere ripreso dai presenti, di essere deriso o di sfigurare. Non chiediamoci mai, fratelli, se vogliamo una cosa; chiediamoci piuttosto quanto la vogliamo; quanto siamo disposti a giocarci, quanto siamo disposti a rischiare; fino a che punto siamo disposti a lasciarci coinvolgere. Invece purtroppo noi vorremmo tutto, ma senza privarci di nulla, senza faticare; vorremmo guarire dai nostri difetti, ma continuando a vivere con le nostre abitudini. Vorremmo conoscere Dio, ma senza troppi coinvolgimenti, senza sconvolgere la nostra quieta esistenza. Vorremmo conoscere noi stessi, ma senza correre il rischio di capire che così non va, senza soffrire, senza provare delusioni. Vorremmo amare, ma senza esporci, senza sbagliare, senza perdere, senza cadere.
Allora Gesù si ferma e lo chiama. È l'unico caso del vangelo in cui Gesù viene fermato da qualcuno: Egli non si lascia condizionare dalla folla, non ascolta i giudizi della gente: in questo caso forse non lo aveva neppure visto o sentito, il cieco; o non aveva intenzione di fermarsi; ma di fronte al suo gridare, di fronte a un desiderio così grande, non può che cambiare i suoi piani. E si ferma. La fede dell'uomo cambia il destino, sconvolge la vita.
Appena si sente chiamato da Gesù, il cieco Bartimèo si comporta come se avesse già riacquistato la vista, come se ci vedesse da sempre: getta via il mantello, balza in piedi e corre da Gesù.
Diverso è invece il comportamento della folla: prima lo sgrida (10,48), poi, all’invito di Gesù, si fa in quattro per agevolarlo, per farlo avvicinare (10,49). All'improvviso tutti diventano gentili, bravi, caritatevoli e santi. Prima fanno di tutto per scoraggiare il pover'uomo; poi tutti ad incitarlo ad avere coraggio, a farsi avanti, a congratularsi con lui per essere stato notato da Gesù. Le famose “pacche” sulle spalle! Di fronte al prete o al vescovo tutti diventiamo buoni cristiani. Davanti al capo tutti i dipendenti sorridono. Quando invece c’è da esporsi, da dire come le cose dovrebbero andare, tutti si dileguano.
Quando Gesù si accorge di lui e “lo guarda”, Bartimèo trova improvvisamente la forza di fare ciò che non aveva mai fatto prima: scatta e corre. È umano: quando ci sentiamo importanti per qualcuno, anche la nostra vita cambia di prospettiva. È per questo che abbiamo bisogno di sentire che per qualcuno siamo veramente importanti, che valiamo. Sappiamo di essere importanti, ma se nessuno ce lo dice, se nessuno ce lo fa vedere, se nessuno ce la fa sentire, ci sentiamo comunque inutili, pensiamo che tanto, esserci o non esserci, è la stessa cosa. E allora, tanto vale non esserci. Almeno è più comodo.
Il cieco si alza in piedi (letteralmente “si lancia”): adesso trova la forza di contare sulle proprie gambe, ritrova la piena fiducia in sé. Butta vita il mantello da mendicante: ora non è più tale, non deve più occupare il suo tempo a elemosinare amore e rispetto.
Anche a lui, come domenica scorsa ai due discepoli (Mc 10,36), Gesù riformula la stessa identica domanda:  «Cosa volete che io faccia per voi?» - «Cosa vuoi che io faccia per te?». I suoi discepoli, i più vicini, avevano chiesto cose materiali (gloria, potenza, successo, fama); Bartimèo chiede solo la Luce, chiede di vedere.
Grande lezione anche per noi! E allora smettiamo, fratelli, di chiedere a Dio solo cose materiali, cose terrene: non ce le può dare. Dio non può darci i soldi; Dio non può darci la ricchezza, Dio non può darci questa o quella cosa preziosa, questa o quella persona. Dio può concederci la fiducia, la consapevolezza, la luce, la verità, il senso della nostra strada, la fiducia nella Vita. Il resto dipende da noi. Ma molti, purtroppo, non sanno cosa farsene di tutto questo.
«Cosa vuoi che io ti faccia?». La domanda di Gesù, a noi superficiali, fa un po' sorridere: l’uomo è cieco; sa che Gesù opera miracoli, cosa vorrà mai? È ovvio, vuole guarire! Ma la domanda di Gesù non è affatto superflua. Perché non è importante sapere ciò che Gesù deve o non deve fare, egli lo sa perfettamente; Gesù invece vuol sapere ciò che l’uomo “vuole” esattamente: quanto cioè egli voglia guarire dalla sua cecità.
E l'uomo senza esitare risponde: «Fammi vedere». Il verbo greco “anablepo” indica l’azione di “vedere in su, alzare lo sguardo”. Quest'uomo nella sua vita ha sempre abbassato lo sguardo per paura. Ora vuole poter finalmente guardare in alto, senza timore. Quante volte anche per noi basta una semplice osservazione per farci guardare in basso, per toccarci sul vivo, per farci chiudere in noi stessi, per farci sentire senza valore, in colpa. Siamo succubi dell'opinione altrui. Dobbiamo invece “alzare lo sguardo”, avere un altro punto di riferimento, un riferimento ben più alto; dobbiamo cioè “guardare” solo a come Lui “ci vede”, non a come ci vede il mondo. Dobbiamo guardarci con gli occhi di Gesù, perché solo negli occhi di Dio possiamo vedere il nostro vero volto. Solo fissando il suo volto. Perché se giriamo le spalle al Sole, non vediamo altro che la nostra ombra!
Un’ultima annotazione: «E lo seguiva per la strada». In realtà anche i discepoli, gli apostoli, la gente, tutti, seguono Gesù: ma il vangelo per nessuno di loro si è mai soffermato a sottolineare che “lo seguivano”: lo fa solo per quest'uomo. Perché? Perché quelli che lo seguono abitualmente ci vedono tutti ma si comportano da ciechi. Quest’uomo invece, già completamente cieco, è l’unico che dimostra di vedere benissimo come seguire Gesù. Amen.
 

mercoledì 17 ottobre 2012

21 Ottobre 2012 – XXIX Domenica del Tempo Ordinario


«Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo» (Mc 10,35-45).
È la terza volta che Gesù spiega ai suoi, in maniera chiara ed esplicita, quello che dovrà affrontare a Gerusalemme; finisce appena di dire testualmente, riferito al “Figlio dell’uomo”, a se stesso, «lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno, lo uccideranno…»(v.34), che immediatamente (v. 35), Giacomo e Giovanni danno prova, ancora una volta, di non aver capito nulla della vera missione di Gesù. Essi tornano ancora, con insistenza, sull’assegnazione dei posti d’onore nel Regno: e chiedono esattamente il contrario di quello che Gesù vuole per loro.
Non capiscono: andare a Gerusalemme, per loro, è tutt'altra cosa rispetto a quello che dice Gesù: per loro significa la grande occasione di una vita; significa l’occasione per acquistare potere, onori, prestigio, fama. E allora, perché non sfruttare il momento? Perché non mettere le cose in chiaro, e ottenere da Gesù la dovuta garanzia su ciò che si aspettano come riconoscimento finale? Sono purtroppo ciechi: non riescono a capire che Gesù non è il Cristo dei loro desideri, ma quello della promessa di Dio.
Essi lo amano: ma lo fanno a modo loro, senza preoccuparsi di conoscerlo veramente: non importa se si chiama Gesù o in qualunque altra maniera. L’importante è seguire uno che garantisca la realizzazione dei loro sogni, della loro voglia di emergere.
Ma il regno di Dio non è gloria e potere, ma “calice da bere” e “battesimo in cui immergersi”. Non si tratta di chiacchiere e di vuoto prestigio, ma di realtà concrete che implicano coinvolgimento, immersione, passione intensa, a volte anche dolorosa.
Seguire Gesù è fuoco, ardore, partecipazione piena e totale. Seguire Gesù non dà privilegi, dà solo vita vera.
Chi vuol vivere alla sequela di Gesù, fratelli, deve “bere”: deve cioè accogliere, incontrare, accettare tutto ciò che contiene il calice della sua vita. Sarebbe troppo bello sottrarsi ad alcune situazioni, evitare certe questioni dure e certe zone oscure. Ma non si può.
E come nel battesimo ci si immerge completamente nell’acqua, così chi segue il Signore deve lasciarsi andare a fondo, deve mettersi completamente nelle sue mani, deve confidare in Lui sapendo di fidarsi di Lui. Bisogna smettere di pianificare, di progettare, di decidere con la mentalità di questo mondo; bisogna al contrario abbandonarsi e lasciarsi portare da Lui.
Per Giacomo e Giovanni seguire Gesù significa sicuramente essere migliori degli altri, sentirsi superiori, ma non nel senso di Gesù: loro continuano a non capire, per cui Gesù è costretto a spiegarlo ancora una volta: il suo “regno” non è come quelli di quaggiù. Nei regni umani i sovrani abusano del loro potere, calpestano i popoli, li umiliano, li rendono schiavi, in ginocchio, così da sentirsi superiori, da sentirsi potenti e forti. Sfruttano i popoli e li usano per i loro scopi e per i loro interessi.
Nel Regno di Dio non è così. Nel Regno di Dio, il primo non è chi comanda ma chi serve. Nel Regno di Dio il primato non appartiene al potere ma all'amore; bisogna sentirsi come “schiavi”: non nel senso di appartenere a qualcuno, ma nel senso di sentirsi come quelli che sono ultimi, al gradino più basso della società, all’ultimo posto; non in senso negativo e statico, quindi, ma in senso positivo e dinamico: perché se è giusto non sentirsi superiori  ai propri fratelli, è altrettanto giusto non sentirsi troppo inferiori (doulos, sottomessi), chiudersi in facili commiserazioni; perché seguire Gesù vuol dire mettersi a fianco dei fratelli, alla pari, per amarli e servirli (diakonos) con gesti concreti , perché la Vita che è in loro, viva e si espanda.
È così che Gesù concepisce la sua vita: “Il figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.
In che cosa consiste per Gesù il suo “servire” (diakoneo)? Nel rivelarci, nel farci finalmente capire mediante la sua vita, che il Padre lo ha mandato, gli ha fatto assumere la natura umana, a nostro esclusivo beneficio, per pagare il nostro “riscatto”.
Gli ebrei conoscevano perfettamente la procedura del “riscatto”. Era un’usanza molto comune a quel tempo: il lytron (riscatto) era infatti il denaro con cui potevano liberare uno schiavo dalla sua condizione servile, per ridargli dignità e autonomia.
Ebbene, noi eravamo schiavi del peccato: vivevamo nella “disarmonia” con le cose, con gli uomini e con Dio: vivevamo lontani da Dio, armonia dell’universo. Gesù accettando di assumere la nostra natura umana, non considerò irrinunciabile l’essere uguale a Dio, ma si “svuotò”, si annientò per diventare simile a noi (kenosis, Fil 2,7); e lo fece per riscattarci dalla nostra schiavitù.
Con la sua vita, Gesù ci ha dunque amati e “serviti”, ci ha dimostrato con i fatti che non c'è alcun motivo di aver paura di Dio, che non lo dobbiamo temere, che possiamo davvero fidarci di Lui, che non ci abbandonerà, che possiamo vivere questa vita anche rischiando, perché in ogni caso, Lui c'è e ci ama. Con la sua morte Egli ci ha liberati dalla paura della morte.
Leggendo questo vangelo ritroviamo molti punti in comune con la nostra vita; scopriamo che molti dei comportamenti dei discepoli, dai quali magari ci dissociamo, ci riguardano invece molto da vicino, fanno parte del nostro vivere quotidiano. E, ammettiamolo fratelli, vedere che perfino gli apostoli hanno vissuto e provato gli stessi nostri sentimenti, beh, un po’ ci consola.
Quante volte, fratelli, anche il nostro chiedere si esprime in questi termini: “io pretendo…, io voglio…, devi fare come dico io”. È chiaro che anche il nostro è egoismo, si tratta cioè di voler sopraffare gli altri ad ogni costo, di piegarli irrazionalmente al nostro volere.
L'amore invece chiede, non pretende. L'amore non modifica, non manipola l'altro. Pertanto, se abbiamo bisogno di qualcosa, se stiamo male, se c'è qualcosa che ci piacerebbe avere dagli altri, chiediamolo, serenamente. Possono dirci di sì o di no. Ma non possiamo pretendere niente, perché nessuno ci deve niente.
Spesso ci creiamo delle false aspettative. Spesso accusiamo il partner, il confratello, chi ci sta vicino, del nostro malessere, della nostra insoddisfazione. Ma se stiamo così, il più delle volte dipende solo da noi. Gli altri non ne hanno colpa. Non aspettiamoci dagli altri quello che noi stessi non siamo in grado di fare e di dare.
Anche nella preghiera, molto spesso ci comportiamo allo stesso modo: “Signore fammi questo, Signore fammi quello, Signore dammi...”. Noi non “preghiamo”, non chiediamo umilmente, pretendiamo, reclamiamo, esigiamo da Dio la risposta che vogliamo noi. “Ho pregato tanto, ma Dio non mi ha ascoltato”. No, non è vero: Dio ci sente e ci ascolta benissimo; soltanto che quello che noi chiediamo evidentemente non coincide con il nostro bene. La preghiera, fratelli, non funziona come al supermercato: prego, pago, ottengo. La preghiera deve essere disponibilità ad accettare ciò che Dio ritiene giusto per noi: “Sia fatta la tua volontà…”.
Giacomo e Giovanni sono uomini; sono come noi, molto vogliosi: cercano di trarre il meglio dalle situazioni. Sono ambiziosi: in latino “ambitio” significa appunto “andare attorno”, “circuire”, per ottenere qualcosa. L'ambizioso mira soprattutto a quei risultati che lo rendono importante; circuisce il potente di turno solo per stare in alto, per stare anche lui tra i potenti.
E se l'ambizione diventa sfrenata, automaticamente si accoppia con l’avidità: allora nulla ci basta, nulla ci appaga, nulla ci frena; la nostra aspirazione più grande, quasi maniacale, sta nell’ottenere riconoscimenti, nel sentirci i più importanti, nel considerare tutto e tutti a nostro servizio: persone, potere, denaro.
L’ambizioso, se avido, è sempre arrogante. Perché la sua arroganza nasce dalla sua insicurezza interiore; l'arrogante crede di avere sempre ragione, si crede forte, crede di non avere mai paura, crede di poter fare tutto e di sapere tutto. In realtà è un poveraccio che non riesce a gestire neppure se stesso: e questo lui, nel suo intimo, lo sa bene.
Con l'arrogante è impossibile dialogare, perché egli non sa dialogare, non vuole “dialogare”; non ha motivo di dialogare. Basta lui.
Per fortuna c’è anche il lato positivo dell’ambizione, un lato sano, che consiste nel cercare di migliorare noi stessi, di dare corpo ai nostri progetti di vita, di realizzare i nostri sogni: in altre parole significa essere attivi, tenaci, motivati, porci di fronte alla vita in maniera costruttiva: e questo, lo ripeto, è lodevole, encomiabile. Non vi è nulla di male se mettiamo a frutto i nostri talenti, combattendo contro l’indifferenza, l’apatia, il disinteresse.
Ecco, fratelli: questa settimana puntiamo l’attenzione proprio su questi comportamenti; interroghiamoci, esaminiamoci: noi, che magari abbiamo qualche compito di responsabilità all’interno della chiesa, noi catechisti, noi ministri, noi animatori, come ci poniamo nei confronti di Dio e dei nostri fratelli? A cosa miriamo?
Nel mio peregrinare per il mondo, fratelli, ho visto persone straordinarie, umili, consapevoli dei propri limiti e innamorate di Dio, consumare la vita nell'annuncio del Vangelo, senza mai nulla chiedere per loro stessi. Ho visto sacerdoti in età di pensione, pieni di acciacchi, portare ancora personalmente, tra le intemperie, l'immenso dono del Pane di Vita ai malati, in piccole comunità sperdute; ho visto monaci che solo passando, ti trasmettono con il loro incedere modesto e riservato, il loro intimo e incessante colloquio con Dio, la loro serenità e tranquillità, nella consapevolezza di essere un nulla nelle mani di Dio; ho visto nelle periferie giovani preti passare tutto il loro tempo libero ad educare ragazzi, magari giocando pazientemente con loro in un polveroso e improbabile campo di calcio. Persone che hanno capito l'importanza del "servire" evangelico.
Ma ho visto anche ecclesiastici in rosso molto sensibili alla tentazione dell'applauso e della gloria, preoccupati più di rispolverare vecchi titoli e privilegi che di dedicarsi alla carità e alla cura spirituale del prossimo. Ho visto preti oltremodo “esuberanti”, convinti che bastasse la loro costante e pavoneggiante presenza mediatica per confermare i fratelli nella fede e dare credibilità alla chiesa. Ho visto collaboratori laici, molto attenti a quantificare e pubblicizzare i loro insignificanti risultati, desiderosi solo di riconoscimenti umani. Ho visto catechisti offendersi per un richiamo, lettori incupirsi per una minore attenzione loro riservata, educatori stancarsi al primo soffio di vento.
Purtroppo, fratelli, anche questo è prestare il fianco alla ricerca di potere, alla propria affermazione personale, senza pensare che qualunque forma di potere, qualunque ricerca di prestigio, è contraria al “servizio”. Nel servizio noi “serviamo”, e basta; ci mettiamo cioè a disposizione dell'altro; nella ricerca di potere, invece, nella ricerca di gloria, nella superbia, noi pretendiamo solo, esigiamo che sia l'altro a servire noi, che sia l’altro a mettersi sempre a nostra disposizione, che sia sempre lui a riconoscere la nostra superiorità assoluta.
Ecco, fratelli: penso che tutti (io per primo) abbiamo ancora tanta strada da fare; penso che tutti dobbiamo stare attenti a non cedere al richiamo della mentalità del mondo, della vanagloria, del prestigio personale; dobbiamo invece guardare sempre e solo a Gesù, al Maestro che ha amato tutti, in assoluta umiltà e mitezza.
E concludo con la preghiera del Salmista: “Signore, assolvimi dalle colpe che non vedo, dalle colpe delle quali non mi rendo conto. Salvami dall'orgoglio; fa che esso non abbia mai alcun potere su di me; perché solo così mi renderò irreprensibile, solo così potrò liberarmi dal grande peccato”. Amen.