mercoledì 26 dicembre 2012

30 Dicembre 2012 – Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe

« Il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero... Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava... “Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. Ed egli rispose loro: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” Scese dunque con loro e venne a Nazaret e stava loro sottomesso… E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,41-52).
La prima domenica dopo Natale la Chiesa celebra la festa della Santa Famiglia.
Quando parliamo di questa famiglia, come non pensarla tranquilla, armoniosa, serena, perfetta? Immaginiamo che Giuseppe, Maria e Gesù, non abbiano mai avuto alcun imprevisto, non abbiano mai dovuto fare i conti con le contrarietà, con i problemi della vita. Invece il vangelo di oggi ci presenta una situazione terribile, quasi drammatica, di grande ansia; un fatto imprevisto molto duro da gestire: la scomparsa del loro piccolo Gesù.
Gesù ha dodici anni: per gli ebrei è l'età in cui i bambini passano dall’infanzia all'età adulta. Fino ad allora, infatti, i ragazzi sono considerati come una “cosa”; ma a questa età diventano adulti con tutte le responsabilità e i diritti di tale posizione. È un po’ come una seconda nascita: significa affrancarsi dalle aspettative dei genitori che li amano, e imboccare la loro strada personale, la strada pensata da Dio proprio per loro.
Penso che tutti saremo passati per questa esperienza, tutti avremo atteso e vissuto questo passaggio con grande trepidazione ed entusiasmo. Ma c’è anche chi lo vede come un grande rischio, un andare verso l’ignoto, e preferisce rimanere così com’è, infantile, chiuso nel suo piccolo mondo ovattato, obbediente e ossequioso, ma privo di ogni responsabilità e di generosi slanci. Ebbene fratelli: non assecondiamo i nostri figli in una simile scelta, sicuramente infausta, magari per paura di perderli dal nostro controllo: rimarrebbero immaturi, non saprebbero mai relazionarsi in modo corretto né con la società né con Dio. Facciamoli crescere i nostri figli, facciamoli maturare, diventare uomini; non fagocitiamoli col nostro egoismo, non instupidiamoli con favolette insulse, facciamo in modo che Dio sia il loro solo Dio: nessun altro! Né la madre, né il padre.
Il vangelo dice che “come tutti gli anni”, secondo l'usanza, la famiglia va a Gerusalemme.
Già, l'usanza: ricordate le usanze di quando eravamo ragazzi? Alla domenica tutti a Messa, si pregava tutti insieme, uno vicino all’altro; poi il pranzo della festa: era l’occasione più bella per stare insieme e godere ciascuno della presenza dell’altro (durante la settimana i grandi lavoravano, i ragazzi a scuola). Un bel giorno, però, ci siamo accorti di essere cresciuti, di voler fare di testa nostra, e abbiamo cominciato a puntare i piedi: “Non vengo più a messa con voi, non vengo più in vacanza con voi!”; e i genitori: “Ma come!? Abbiamo sempre fatto così! Cos'è questa novità? Che sono questi capricci?”. Era l’usanza, si era sempre fatto così; era difficile per loro accettare un drastico cambiamento delle solite cose, riconoscere che noi eravamo cresciuti, che avevamo soprattutto bisogno della nostra indipendenza.
Anche qui, il fatto che Gesù rimanga a Gerusalemme senza che i genitori se ne accorgano e che lo trovino solo dopo tre giorni di estenuanti ricerche, la dice lunga sul dramma vissuto da Giuseppe e Maria; non erano preparati a vederlo nella prospettiva del suo domani; è successo anche a loro esattamente quello che è accaduto, accade e accadrà, in tutte le famiglie di ogni tempo.
Anche da noi: i figli sono il centro della nostra vita. Vivono con noi; li cresciamo, li educhiamo, diamo loro una istruzione, li introduciamo nel mistero della vita, insegniamo loro cosa è buono e cosa non è buono, siamo il loro modello di vita, l’esempio da imitare. Essi imparano da noi, ci stimano, ci amano perché siamo il padre e la madre; ci stimano al di là di ciò che facciamo o non facciamo, per il solo fatto che noi li abbiamo messi al mondo e siamo il loro riferimento. Comandiamo ed essi ci obbediscono. Ma poi, senza che ce ne accorgiamo, di punto in bianco come è successo con Gesù, si staccano da noi, li perdiamo. All'inizio la frattura è velata: qualche risposta, qualche incomprensione, qualche capriccio, qualche domanda in più, qualche risposta che ci mette in difficoltà. Sembra che tutto possa ricomporsi, sembrano solo delle piccole crepe. E invece no! Noi i nostri figli li stiamo perdendo e non ce ne vogliamo rendere conto.
È che noi siamo rimasti anni luce indietro: siamo ancora fermi, sclerotizzati, su “oh, il mio bambino” (ma, fratelli miei, il bimbo ha quindici anni!); “il mio cucciolo” (ma è alto un metro e ottanta!); “il tesoruccio di mamma e papà” (ma lui si sente più legato alla sua comitiva di amici).
Per tutti i genitori, come anche per Maria e Giuseppe, i figli sono “loro”: li hanno fatti nascere, li hanno fatti crescere; hanno faticato tanto, hanno speso per loro energie, tempo e denaro, ansie e notti insonni. Sentirli quindi come una loro “proprietà”, è quasi un diritto. Soprattutto per la madre, i figli sono coloro che l’amano di più: anche se tutto andasse storto, anche se nessuno la amasse più, anche se la sua vita matrimoniale fallisse, anche se tutta la sua esistenza diventasse un inferno, per lei l’amore dei figli è sempre l’unico motivo valido per continuare a vivere e a lottare. Del resto i figli l’amano perché non possono stare senza di lei: la madre per loro è importante, è un punto essenziale di riferimento: è quindi naturale amarla. Una realtà che la rende sicura di ricevere per sempre il loro amore.
Ma attenzione: quante volte abbiamo sentito una madre esclamare: “ho un figlio così dolce che me lo mangerei!”: ora, finché si tratta di coccole e di baci va tutto bene; ma se questo “mangiarlo” lo dovesse fare sul piano emotivo, se non lo lasciasse andare, se lo soffocasse, se gli stesse sempre con il fiato sul collo, se lo iper-proteggesse, se si rifiutasse di accettare la sua crescita, allora “se lo mangerebbe” per davvero, allora rischierebbe di soffocarlo, rischierebbe di uccidergli l'anima.
Un genitore, una madre in particolare, deve invece sacrificare consapevolmente i propri figli, deve offrirli al tempio, deve “perderli”. Deve cioè accettare l’idea che quei suoi figli non sono “suoi”; sono persone “altre” da sé; deve tagliare quel cordone ombelicale che ancora li lega, e lasciarli andare. Deve accettare che quei figli sono figli di Dio, che hanno una loro strada da seguire, che devono raggiungere la loro Gerusalemme, che devono attuare il loro progetto di vita, quel piano che Dio ha pensato per loro, costi quel che costi. Devono andare là. Opporsi a questo, è combattere Dio, andare contro i suoi progetti. È duro capirlo, ma è necessario, è vitale.
Deve essere stato duro anche per Maria e Giuseppe lasciare andare Gesù; era il loro unico figlio, il prediletto, sul quale avevano puntato tutto, avevano riposto in lui tutte le loro attese.
È così difficile accettare che i figli siano grandi; è così difficile lasciare che ci provino da soli, che possano sbagliare; è così difficile smettere di tirarli fuori dai loro problemi, di preoccuparci sempre, di continuare a proteggerli oltre il normale; è così difficile lasciare loro spazio; è così difficile non appianare loro qualunque difficoltà! Vorremmo che i nostri figli non soffrissero mai, non si sentissero mai soli, mai isolati; che non litigassero mai con nessuno, che non fossero mai tristi, che non avessero mai problemi; e facciamo di tutto perché questo si avveri, convinti di fare molto bene. Siamo animati da vero amore, questo è innegabile, ma così facendo non è che facciamo loro del gran bene. Se continuiamo a togliere tutti i sassolini davanti ai loro passi, cosa accadrà quando dovranno superare i macigni, quando dovranno fare i conti con le vere contrarietà della vita? Riusciranno a reggere il peso delle inevitabili delusioni? Cadranno in depressione? Verranno travolti, sommersi?
Quando finalmente trovano Gesù nel Tempio, Maria e Giuseppe gli dicono, decisi: “Perché ci hai fatto questo?”. Sono concentrati sul loro dolore, sull’ansia, sulla disperazione provata nel momento che hanno scoperto la sua assenza. È il dolore dei genitori che di fronte allo scampato pericolo, trovandosi di fronte ad una scelta autonoma del figlio, si sentono messi da parte, traditi: si accorgono in quel preciso momento di averlo perduto: una constatazione molto dura.
Anche perché Gesù risponde altrettanto deciso: “Non sapevate che devo occuparmi delle cose del padre mio?”. In altre parole: “Di che vi lamentate? Dovreste sapere bene anche voi che il mio vero padre è Dio, e che la mia vera madre è la Vita”. Egli ha già fatto il grande salto; è già passato dalla paternità e maternità terrena, a quella più importante del Dio della Vita; deve seguire il mandato del Padre, la Vita, lo Spirito, la Voce della Sua chiamata; e non già la loro di voce.
E qui il vangelo fa scrupolosamente notare che essi non “compresero ciò che aveva detto loro”.
A ben guardare, Maria e Giuseppe non capiscono tante cose nella loro vita: Giuseppe non capisce cosa sta accadendo alla sua fidanzata che è incinta; poi deve scappare in Egitto senza sapere il perché; vede nascere questo suo figlio tra canti, tra angeli e Gloria e non sa spiegarsene la ragione; e ora al tempio, non capisce la risposta di Gesù. Maria dal canto suo non capisce la sua gravidanza; l'angelo le comunica un mistero enorme al quale dice “sì”, ma rimane turbata, perplessa, piena di paure e di domande; alla nascita di Gesù anche lei cerca di darsi una spiegazione in cuor suo di ciò che le sta accadendo; e anche lei, come Giuseppe, non capisce a questo punto la reazione decisa del figlio; e più avanti faticherà ancora molto per capire i gesti di suo figlio: sembra quasi non capacitarsi di avere un figlio così decisamente diverso dagli altri.
La storia di Maria e di Giuseppe è costellata quindi dal non capire, dal non comprendere, dal mistero: anche se tutto quanto succedeva aveva un senso ben preciso, se tutto era chiaramente legato da un filo conduttore, se tutto rientrava in un evidente progetto soprannaturale. Non capivano, ma accettavano e si uniformavano, umili e obbedienti, al volere di Dio.
Allora a questo punto chiediamoci: perché noi vogliamo capire sempre tutto? Perché noi vogliamo avere ad ogni costo tutte le risposte e le spiegazioni? Perché dobbiamo avere tutto sotto controllo, razionalizzare tutto, avere chiaro tutto il progetto fin dall'inizio e in tutti i suoi particolari? E se ci lasciassimo anche noi semplicemente portare, condurre? E se ci fidassimo? Se smettessimo di voler capire tutto, confidando un po’ di più in Dio?
Ebbene, fratelli, fidiamoci dunque di Dio: sappiamo che Lui sa tutto, sappiamo che Lui agisce sempre per il nostro bene; sappiamo che ogni cosa è inscritta nella sua provvidenza; che noi stessi abbiamo un senso solo in Lui, in un Suo progetto. Non pretendiamo di capire tutto nella vita: viviamo accettando quello che Lui ha previsto per noi, per i nostri figli, per la nostra famiglia, per tutti i nostri cari; viviamo sapendo di fare la Sua volontà. Accettiamo che i nostri figli si affranchino da noi: perché in questo modo “perderli”, significherà “ritrovarli”.
Tornò con loro a Nazareth”, dice il vangelo. Gesù, dopo questa esperienza, rimane con i genitori. Ma niente sarà più come prima. La famiglia si ricompone, ma tutti hanno imparato qualcosa di nuovo, tutti sono maturati. Gesù ora ha capito chi è, cosa deve fare, cosa deve essere. Ma non è ancora arrivato il suo tempo: egli aspetta la sua ora, all’ombra della sua famiglia. Giuseppe e Maria hanno ora capito che quel loro figlio non è “loro”, che non possono decidere per lui, che lo devono lasciare andare. E gli stanno vicino; come prima, anzi più di prima; lo rassicurano con tutto il loro amore, lo introducono nella vita umana, gli danno tutto, pur consapevoli che un giorno lui se ne andrà per realizzare la sua missione. Verrà questo suo tempo. Ma intanto, nella famiglia, cresce in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini. Un piccolo esemplare spaccato di vita familiare: serena, piena di amore, di rispetto reciproco, di abbandono alla volontà del Padre. Ecco, fratelli: confrontiamo questa atmosfera con quella che viviamo nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità; verifichiamo i rapporti che abbiamo con i nostri figli, con i nostri fratelli in Cristo, con tutti i nostri compagni di viaggio. E soprattutto meditiamo.
Siamo agli sgoccioli di questo anno. Porgo a voi tutti gli auguri per un radioso 2013.
Anche se fatti con il cuore, so perfettamente che non vi cambieranno la vita. Ma sono altrettanto sicuro che Dio, nel Suo amore, ha il potere di rinnovarla sul serio. Basta chiederglielo umilmente. E meritarcelo. Amen.

 

lunedì 24 dicembre 2012

25 Dicembre 2012 – Natale di nostro Signore

«Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia… E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2,1-14).
Il Vangelo di oggi mette a confronto due re: Cesare Augusto Ottaviano, il re ricco, e Gesù, il re povero. Il re ricco ha il potere, la forza, il dominio; indice un censimento di tutta la terra, perché nessuno possa sfuggire al pagamento delle imposte di Roma; il re ricco impone: “Devi fare così, e basta”. Il re povero ha come potere l'amore, la debolezza, la vulnerabilità. Il re povero propone: “Se vuoi seguirmi… se qualcuno… se uno…”. Il re della forza e della potenza contro il re della dignità e dell'amore. Uno scontro tra re.
Il falso re, quello che si dice “salvatore del mondo”ma non fa nulla per salvarlo, e il vero re, il vero “Salvatore del mondo”, che il mondo lo salva per davvero.
Uno che rapina la gente, ma promette lusso, benessere, godimenti, l’altro che la riempie di regali, dicendole però che la vera ricchezza, la vera gioia non è di questo mondo.
Di fronte però alle lusinghe allettanti del re fasullo di questo mondo, in tanti hanno ceduto, si sono fatti abbagliare: ma noi, fratelli, noi che sappiamo individuare l’autentico re, non lasciamoci sedurre, non abdichiamo alla nostra dignità di cristiani.
Infatti, cosa ci ripete anche quest’anno, cosa vuole confermarci ancora una volta questo vangelo di Natale? Che Dio è venuto per noi esclusivamente per amarci: Dio non è vendicativo, Dio non punisce, non castiga. Dio ama. Sempre. Il suo è un amore giusto, misericordioso, impossibile, generoso, spontaneo. Siamo noi che rifiutiamo questo suo amore. Siamo noi che gli sbattiamo la porta in faccia preferendogli l’infelicità, l’ansia, il dolore, i castighi: siamo noi a girargli le spalle con la  nostra testardaggine, con la nostra poca fede, con la nostra totale assenza di carità, di comprensione, di amore. Lui no, Lui continua nonostante tutto ad amare proprio noi, i lontani, gli esclusi, gli esiliati, i peccatori, i cattivi, gli impuri, i traditori; Dio continua a venire per tutti noi. E viene per continuare ad amarci.
Un giorno una bambina va dalla mamma e le chiede: “Mamma, chi è Dio?”. La mamma si trova in difficoltà: come si fa a spiegare chi è Dio ad una bambina, quando anche noi adulti su ciò abbiamo le idee molto confuse? Allora la mamma le dice: “Vieni qui”: e la prende fra le sue braccia e la stringe a sé forte forte. Poi le sussurra: “Cosa senti?”. “Sento che mi ami tanto, mamma”. “Ecco, amore mio: questo è Dio!”.
Natale: Dio nasce in ciascuno di noi, nasce nella nostra vita. Accogliamolo! Non verrà come vogliamo noi. Ma verrà proprio in questa nostra vita di oggi. Natale è oggi, fratelli, Gesù è qui per tutti noi. “Io sto alla porta e busso. Se qualcuno mi apre la porta…”. Lui c'è! Lui è alla porta! Nascosto, ma è Lui che viene a portarci amore.
E noi? Che desolazione: una crisi internazionale affligge oggi il mondo: homo homini lupus. Viviamo nella cultura dell’uno contro l’altro: ma abbiamo mai pensato che se uno vince, l’altro necessariamente perde? Perché non trovare una soluzione che ci veda tutti d’accordo? Se noi invece lottassimo tutti uniti contro la fame, la miseria, le malattie, le violenze? Certo andare tutti in una direzione oggi non è cosa facilmente realizzabile : ma neppure impossibile. “Io insieme a te”. E se iniziassimo noi, nel nostro piccolo?
Tutti abbiamo un po' di verità: ma ognuno difende le sue vedute, ognuno pretende di essere solo lui nel giusto: e se cominciassimo noi a valorizzare ciò che ci unisce piuttosto che moltiplicare ciò che ci divide? E se iniziassimo noi a stimarci reciprocamente? E se lavorassimo insieme per un ideale comune, più umano? Se ci volessimo tutti veramente bene?
Sono sicuro che i più penseranno: “Impossibile, è fantascienza, questa crisi non si risolverà mai con una stretta di mano!”. Niente di più falso: se tutti insieme lo volessimo veramente, prima o poi raggiungeremmo sicuramente tale obiettivo. L’importante è volerlo. Virgilio disse in proposito una grande verità: “Possiamo! Perché siamo convinti di potere”. Se non siamo convinti di potercela fare, non ce la faremo mai.
È Natale: Dio si è incarnato. L’impossibile è divenuto realtà. Dio è carne, è qui con noi: e con Lui, con il suo amore, tutto è più facile, tutto diventa possibile anche per noi. Amen.

mercoledì 19 dicembre 2012

23 Dicembre 2012 – IV Domenica di Avvento

«Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?» (Lc 1,39-48).
Il vangelo di oggi ci propone l'incontro dell’anima di due donne, entrambe incinte. Maria ed Elisabetta sono parenti, sono cugine. Per la Bibbia, essere parenti, non indica tanto una consanguineità quanto una comunione di vita, una condivisione di esperienze. Entrambe infatti hanno una illuminazione divina, una intuizione profonda. Entrambe vivono una particolare situazione di impedimento, di “chiusura” nei confronti della loro possibilità di generare nuove esistenze: Maria è giovane ed è soprattutto vergine, non conosce uomo e quindi nessun figlio può nascere da lei; lo stesso impedimento vale per Elisabetta, in quanto è vecchia, in età troppo tarda. Ma l’impossibile per gli uomini, diventa possibile per Dio. Nel nuovo Testamento, nella seconda creazione, Dio punta decisamente sul femminile, su Maria. Ciò non va interpretato come una esaltazione della donna sul maschio, quanto piuttosto come affermazione che saranno solo quei valori tipicamente femminili - l'amore, la tenerezza, la misericordia, l'ascolto, l'accoglienza – che ci salveranno. Non sarà la forza, non sarà l'autorità, non sarà la potenza, non sarà la spada, non sarà la violenza, ma saranno solo l'amore e l'accoglienza.
Nelle due nascite accennate dal Vangelo di oggi, le due figure maschili dei mariti non sono di alcun sostegno: Zaccaria diventa muto durante la gravidanza della moglie Elisabetta (non ha creduto all'impossibile) e Giuseppe non partecipa alla generazione di Gesù. Non vogliamo dire che Zaccaria e Giuseppe non abbiano partecipato in quanto uomini, ciascuno con un ruolo diverso, al concepimento dei loro figli; ma che in entrambi i casi l’uomo ha dovuto misurarsi personalmente col divino. Era questo il modo con cui gli antichi tentavano di spiegare la realtà della inabitazione di Dio in ogni uomo: che cioè noi tutti siamo abitati da Dio, che l'Altissimo risiede realmente in noi, e che di conseguenza tutti dobbiamo curare, sviluppare, far emergere quel seme divino, messo a dimora da Dio stesso nella nostra anima. La vera “generazione”, la nostra vera paternità a cui siamo destinati (la nostra chiamata) consiste proprio nel far nascere questo “figlio divino” che è dentro di noi, che vuole nascere, e che ognuno di noi deve partorire. Sì, noi tutti, fin dalla nascita, abbiamo questo “seme” divino dentro di noi: è Gesù, è la nostra anima. E noi tutti siamo responsabili della sua crescita. Se non riusciamo a trasmettere questo concetto, questa verità, ai nostri figli, alle nuove generazioni, al mondo intero, vuol dire che noi stessi non sappiamo di averlo, non abbiamo mai cercato come dovevamo, non abbiamo mai trovato l'anima dentro di noi.
E la natura umana, fratelli, senza l’anima, privata dello stupore e della meraviglia, diventa fonte di inquinamento e di morte. Una creatura vivente, senza l'anima, è come una pianta senza radici. È amorfa. Un uomo senza l'anima diventa un fantoccio, zeppo di lustrini luccicanti, di trucchi e ritocchi, ma senza una linfa o un'energia che gli scorra dentro. Una vita senz'anima diventa una vita venduta esclusivamente al materiale, al lavoro, alla produzione, all'efficienza, all’utile, al divertimento. Una carezza senz'anima diventa uno schiaffo e uno sguardo senz'anima diventa un giudizio tagliente. Una famiglia senz'anima diventa un compromesso; una religione senz'anima diventa pura formalità ed esibizionismo. Così un Natale senz'anima diventa un’abbuffata di dolci, di panettoni, di auguri,di regali e di tristi mediocrità.
Noi genitori diamo di tutto ai nostri figli: basti vedere cos'hanno negli zaini o nelle loro stanze. Diamo di tutto, perché tutte queste cose (appunto cose!) si vendono e si comprano. Ma in questo modo riduciamo tutto a mera esteriorità. Ciò che invece ci è molto difficile trasmettere loro è la nostra anima: perché l’anima non si può comprare e non si può vendere: possiamo trasmetterla solo per vibrazione, per passione, per intensità, per amore. Soprattutto possiamo trasmetterla soltanto se noi per primi ne abbiamo una: se siamo senza, non abbiamo vita, non trasmettiamo vita; senz'anima possiamo vivere e trasmettere solo l'inferno di questa vita, il peggio.
Siamo molto efficienti nella nostra vita: mettiamo al mondo creature, costruiamo case e imprese; creiamo giardini e parchi, posti di lavoro e ricchezza, giochi e divertimenti, hobbies e svaghi di ogni tipo. Escogitiamo iniziative sempre nuove, partoriamo idee, programmi assai brillanti. Ma tutto ciò può essere inutile: i nostri figli ci abbracciano, ma noi non li incontriamo dentro: non possono conoscerci in profondità, perché neppure noi ci conosciamo!
I nostri figli non conoscono l'invisibile che c'è in ognuno di noi, in ogni creatura; e questo crea in loro la mancanza di senso del divino; per questo non riescono ad entrare dentro di loro, dentro di noi, dentro gli altri, dentro al mistero della Vita. Rimangono in superficie e crescono superficiali, destinati a morire di noia e di banalità. I nostri figli muoiono per colpa nostra, perché noi adulti non abbiamo saputo e non sappiamo trasmettere loro l'unica cosa essenziale: l'anima che ci anima, lo spirito che soffia in noi, il Dio che abita in noi e che vuole essere innestato da noi in coloro che amiamo, in quanti avviciniamo.
Quando Maria ed Elisabetta si incontrano, si lasciano andare in un forte abbraccio. Ciascuna, infatti, ha motivi validi per consolare e rassicurare l'altra: si toccano nell'anima, si trasmettono l’anima, si incontrano nel profondo dell’anima e le loro anime esultano; parlano di sé, del grande mistero che sentono in loro, delle emozioni divine che provano. Elisabetta sente il figlio palpitarle dentro, e urla a Maria la gioia di averla lì con lei e quanto sia felice di ciò che sta capitando anche a lei. Maria di rimando parla ad Elisabetta, ma è così felice che canta: si sente così amorevolmente accolta da Elisabetta, da poterle finalmente dire tutto ciò che “custodiva gelosamente nel suo cuore”.
Ecco, questa è vera amicizia, fratelli. Questa è autentica relazione di coppia. Questo è amore. Di questo noi dobbiamo sovrabbondare, di questo dobbiamo esultare quando, nelle nostre relazioni, le anime si sfiorano e si toccano reciprocamente.
Ci sono tre cose che ci appagano pienamente nella vita: entrare nell'animo di qualcuno e sentirci parte della sua vita; far entrare qualcuno nel nostro animo, e sentirlo parte della nostra vita; entrare entrambi nel mistero della Vita, e sentirci in comunione totale, in unione con il Tutto.
Maria si mette in viaggio e raggiunge in fretta Elisabetta: non ci serve sapere se ciò sia realmente accaduto: ciò che conta è il senso di quanto accaduto, cosa esso significhi per queste due donne e per ciascuno di noi: Maria ed Elisabetta infatti si sono incontrate nel profondo, nella loro parte più vera, più viva, più autentica. Succede così anche a noi? Permettiamo anche noi agli altri di incontrarci nel nostro profondo? O li blocchiamo alla superficie, al nostro apparire, alle nostre esibizioni, alle nostre maschere esteriori? No, fratelli: non è così che dobbiamo incontrare l’altro. Non importa quanta distanza abbiamo messo tra noi. Non importa se ci sia qualcosa di irrisolto o di sospeso tra di noi. Non importa se ci troviamo in difficoltà, in crisi, in preda all'angoscia o al panico. Tutto questo non ha nessuna importanza: perché se riusciamo a incontrarci nell'anima, tutto viene spazzato via in un attimo.
Incontrando e facendo incontrare la nostra anima, troviamo la serenità. Solo incontrando e facendo incontrare lo Spirito che ci inabita, nella completa nudità del nostro essere, possiamo aprirci con Lui e con i fratelli: possiamo confidare le nostre paure, esternare ciò che ci fa male, ciò che ci ferisce, confessare le nostre gelosie, le nostre invidie, le nostre meschinità, le cause dei nostri pianti, le nostre sofferenze; solo in questi incontri possiamo aprirci e raccontare i nostri sogni, spiegare le nostre intuizioni, i nostri desideri, i nostri segreti, il mistero che sentiamo vivere in noi. Insomma: dobbiamo comunicare l'anima non parole vuote, quando parliamo con i fratelli; dobbiamo dare l'anima e non un corpo, quando facciamo l'amore; l'anima e non dei riti, quando preghiamo. Allora, e solo allora, incontreremo veramente l’altro; allora, e solo allora, sperimenteremo la sacralità della vita. E se ciò qualche volta ci fa male o è difficile o ci fa soffrire, pazienza, perché la Vita è qui.
Viviamo la Vita, fratelli: viviamo la nostra anima. Perché ogni volta che uccidiamo la nostra anima (il Figlio divino che è in noi), uccidiamo ciò di cui abbiamo più bisogno.
E concludo: all’uscita di un Grande Magazzino di giocattoli, escono un padre, una madre e una figlia di sei-sette anni: sono pieni di pacchi regalo. La figlia però continua a lamentarsi, a “frignare”, a fare capricci. Il padre spazientito le dice: “Ma cosa vuoi di più, ti abbiamo preso di tutto!”. E la figlia: “Ma papà, per favore, prendimi per mano!”.
È di anima, di amore, di cuore, di profondo che abbiamo bisogno, fratelli: non di cose superflue, di regali inutili. Non sono questi che nella vita ci rendono felici e soddisfatti. Amen.


mercoledì 12 dicembre 2012

16 Dicembre 2012 – III Domenica di Avvento


«Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,10-18).
Nel vangelo di oggi la gente va da Giovanni Battista e gli pone una fondamentale domanda: “Che cosa dobbiamo fare?”. Una domanda che anche oggi molti di noi si pongono: “Cosa devo fare? C’è la soluzione al mio problema? C’è un incontro, un gruppo, un’associazione, qualcuno a cui rivolgermi per risolvere la mia situazione? C’è un esercizio, magari di meditazione, di silenzio o di preghiera che mi illumini sul da farsi?”
Cosa non farebbe oggi tanta gente pur di trovare una guida veramente carismatica, in grado di condividere i loro pesi! Purtroppo in giro ce ne sono parecchi di personaggi fasulli che si presentano come inviati di Dio, che si spacciamo per “illuminati”, dotati di poteri extrasensoriali, paranormali, speciali; e siccome nei deboli la pressione della sofferenza, il desiderio di sollievo è grande, l'attaccamento a cialtroni del genere è presto concluso.
E visto che c'è la pillola per tutto: per dimagrire, per far bene l'amore, per essere felici, per non essere tristi, si illudono che ci sia una pillola anche per star bene spiritualmente, per risollevare l'anima; si illudono che la felicità, l'amore, l'ascolto, la fiducia, si possano comprare a basso costo, che ci sia un toccasana che risolve tutti i problemi: ma è solo un'illusione.
Basta guardarci attorno, fratelli, per renderci conto di quanto ricco sia il supermercato religioso. C'è la messa a distanza (purché si paghi); c’è il guru che ci dice cosa fare nella vita; c'è il mago imbroglione che ci comunica la volontà dei nostri morti; c'è l’emulatore di Padre Pio che promette guarigioni a distanza; c’è chi vende numeri sicuri per il lotto e chi ci predice il futuro. In realtà, dando retta a questi trafficoni, rischiamo veramente grosso: anche se non ce ne rendiamo conto!
Quante persone di nostra conoscenza vengono anche da noi a chiederci: “Che cosa devo fare?”. Un modo velato e confidenziale per dirci: “Aiutami, cerca di risolvere tu i miei problemi!”. Ma questo purtroppo, pur con la miglior buona volontà, non è possibile. Ognuno deve affrontare e risolvere i propri di problemi, ognuno deve superare le proprie difficoltà; non ci sono alternative, non sono ammesse deleghe. Questa è la realtà; anche se non ci piace, se non ci soddisfa. Noi siamo tutti indistintamente per le soluzioni facili e indolori. Vorremmo che ci fosse una medicina per tutte le nostre crisi, ma non c'è. Vorremmo che una preghierina ogni tanto, fosse la garanzia sicura contro ogni avversità della vita; ma non è possibile. Vorremmo che ci fosse un bel “decalogo dell’amore” da imparare a memoria e da recitare ogni tanto, per stare a posto con tutti i nostri doveri di carità; ma non c’è. Vorremmo che qualcuno ci suggerisse il sistema giusto per eliminare tutte le nostre difficoltà relazionali, ma non c'è. Abbiamo tutti fame di ricette semplici, sbrigative, perché abbiamo sempre fretta. Ma non esistono ricette semplici. Non esistono elisir miracolosi. Diceva un saggio: “Se il problema è in te, anche la sua soluzione deve arrivare da te”.
Alcuni si danno veramente molto da “fare”: ma non per un motivo valido, come per crescere spiritualmente, per essere più giusti, per amare di più; lo fanno solo per apparire, per sentirsi più bravi degli altri, per essere al centro dell’ammirazione.
Su questo il Battista è molto pratico: chi ha, dia. In sostanza dice: “Inutile girare a vuoto: le occasioni per intervenire ci sono, eccome. Ti accorgi che le persone che incontri sono in difficoltà? È qui che devi agire. Ti accorgi di essere scontroso e di non riuscire a relazionarti? È qui che devi agire. Vedi che in famiglia non si parla, non ci si relaziona? È qui che devi agire. Ti senti insoddisfatto della tua vita cristiana? È qui che devi agire. Ti accorgi che non riesci mai a trovare un momento per Dio? È qui che devi agire. Sei convinto che tutti ce l'abbiano con te, e soffri di vittimismo? È qui che devi agire”. Insomma dobbiamo lavorare miratamente, dobbiamo agire dove c'è il problema, non a casaccio o come piacerebbe a noi!
Perché, ripeto, è sulle nostre opere che saremo giudicati. L’immagine che il vangelo ci propone al riguardo, quella del contadino che divide il grano dalla pula, che raccoglie il primo e brucia la seconda, è molto dura ma emblematica; colui che tiene in mano la pala è Cristo: è lui che separerà le nostre opere buone da tutta la zavorra che ci portiamo addosso: una prospettiva, fratelli, che ci deve far pensare seriamente.
Tuttavia non dobbiamo avere paura di Dio. Dobbiamo essere consapevoli che non è Lui la causa della nostra poca carità: siamo noi che diamo un valore aggiunto alle nostre azioni. Non è Dio che prende l’iniziativa di punirci; siamo noi che ci procuriamo la giusta punizione, come conseguenza del nostro comportamento. Dio non punisce mai nessuno; siamo noi che ci puniamo da soli, scegliendo di vivere in un certo modo.
Se nella vita affrontiamo tutto con superficialità, stupidamente, continueremo a vivere sempre ignorando volutamente i problemi, senza capire mai le grandi leggi della vita; viviamo senza renderci conto che spetta solo a noi dirigere la nostra vita, a nessun altro!
Il Battista battezza con acqua: è il battesimo di quei cristiani un po’ tiepidi, che preferiscono una vita serena e tranquilla, in pace con Dio, senza grandi scossoni. Il vero battesimo, però, non è questo: è quello di fuoco, quello del Cristo della Vita, quello che sconvolge la nostra vita, che si impadronisce della nostra anima, che ci proietta nella nostra parte divina, spirituale. È un battesimo di fuoco perché ci brucia dentro, ci dà passione, energia; ci dà la forza per andare avanti giorno dopo giorno. È un battesimo di fuoco perché illumina il nostro mondo interiore, ci fa vedere chi siamo realmente, ci fa capire dove dobbiamo mettere il piede. È un battesimo di fuoco perché brucia le illusioni del mondo, quelle illusioni che nonostante la loro fatuità, amiamo tanto seguire; ci fa toccare con mano la nostra nullità, la nostra debolezza umana. È un battesimo di fuoco perché illumina, fa venire alla luce, fa nascere, crescere, quel soffio di vita che ci abita dentro, la trasforma in forza impetuosa. È di fuoco perché scuote dentro di noi il seme di Dio che dorme in noi e che aspetta di essere risvegliato per diventare l’unico Signore della nostra vita.
Questo è dunque, fratelli, il grande “sacrificio” (da sacrum facere, fare una cosa santa); questa è la grande opera dell'uomo: trasformare una vita materiale, esteriore, vuota, insignificante, amorfa, in una vita dello Spirito, in una vita di Amore divino, in vita “viva”, piena e vera. In una parola, come dice il Vangelo, dobbiamo “rinascere nello Spirito”. Amen.
 

mercoledì 5 dicembre 2012

9 Dicembre 2012 – II Domenica di Avvento

«Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate. Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!» (Lc 3,1-6).
Giovanni Battista e la vergine Maria sono le due figure che ci accompagnano in questo nostro percorso verso il Natale.
Il Verbo, Parola di Dio, incontra Giovanni nel deserto. È un incontro vivo, che trasforma, che rigenera, che porta a produrre nuovi frutti. Quando la Parola di Dio all'inizio della storia scende sulla creazione, nasce il mondo e ogni essere vivente. Quando la Parola di Dio attraverso l'angelo scende su Maria, nasce Gesù. La Parola che scende su Giovanni lo invia, lo spinge e lo fa profetizzare. L’'incontro con Dio, anche per noi, deve essere quindi un incontro che crea, che cambia, che invia, che implica cioè un nostro movimento in avanti. Ci crea: eravamo infatti ben poca cosa, ma dopo aver ascoltato, nel senso di “mangiato, assimilato, gustato, fatta penetrare” la sua Parola, non siamo più gli stessi. Ha prodotto un cambiamento radicale in noi, una nuova visione della vita e del mondo si apre improvvisamente davanti ai nostri occhi.
Quante parole ascoltiamo durante una giornata! Ma la Parola di Dio è diversa. Quante parole, anche pie e religiose, abbiamo detto e ascoltato nella nostra vita! Ma la Parola di Dio non è di quel tipo. Quante volte abbiamo udito leggere il Vangelo! Ma anche quelle parole ci sono scivolate addosso: non è così che si ascolta la Parola di Dio. La Parola di Dio è quella Parola che penetra in profondità, che ci scuote (quindi è sempre destabilizzante), ci tocca violentemente, ci colpisce nell’intimo. È quella Parola che ci torna sempre in mente, anche se non ne conosciamo il perché; che ci risuona insistentemente nel cervello, che ci fa vibrare il cuore, che ci riguarda da vicino; una Parola per la quale sentiamo un persistente richiamo, un bisogno forte e irrinunciabile. È dunque quella Parola che non ci può lasciare indifferenti. È quella Parola che fa comunque succedere qualcosa.
Molte parole degli uomini hanno il potere di bloccare la nostra vita, di distruggerla, di ucciderla, di chiuderla: al contrario la Parola di Dio, se la lasciamo penetrare dentro di noi, ci infonde sempre sicurezza, carica, ci conduce alla salvezza: “Esci fuori; alzati; ti amo; va bene così; non avere paura; ci sono io; slegati…”.
Il Battista dunque predica nel “deserto”. Geograficamente il deserto palestinese è una regione montuosa, con scarsa vegetazione, inospitale, frequentata solo da pastori, predoni ed eremiti (eremos in greco vuol dire proprio deserto). Nella Bibbia il “deserto” è quel luogo attraverso cui tutti devono necessariamente passare. Non si può arrivare in nessuna parte, in nessuna terra promessa, se non si ha il coraggio e la forza di affrontare il proprio deserto.
Per gli Israeliti il deserto è stato infatti un passaggio obbligato sia dopo la liberazione dall'Egitto che per quella babilonese; è stato un luogo necessario per Mosè, per Elia. Nel nuovo Testamento anche per Gesù, per Paolo, per migliaia di cercatori di Dio.
Il deserto più che un luogo fisico è una dimensione della vita. Arriva, cioè, un momento in cui bisogna smettere di continuare a fuggire fuori da se stessi, smettere di cercare risposte fuori di noi, smettere di riempirci e di imbottirci di idee, di filosofie e di ragionamenti vari, e guardarci per davvero in faccia senza mentirci. Dobbiamo entrare nel nostro deserto, dove non c'è nessun altro, dove finalmente ci siamo solo noi.
Molte persone hanno il terrore di stare sole con sé. C'è chi trova sempre qualcosa da fare; si adatta a fare di tutto pur di non rimanere da solo con la sua anima. C'è chi parla sempre, in continuazione, riempie tutti gli spazi vuoti; ma non si ferma mai ad ascoltarsi. C'è chi non riesce a stare solo e deve stare sempre in compagnia di qualcuno, perché ha paura di sé stesso, della sua solitudine interiore. C'è chi non riesce neppure ad ascoltare le proprie emozioni, che le evita di proposito perché le teme troppo. Si ubriaca di esteriorità. Ci sono persone peraltro che nella loro vita trovano questi spazi, questo “tempo per sé”: si riposano, leggono un libro, fanno qualche sport, escono con gli amici; fanno, insomma, quello che di solito non fanno mai. Ma questo “stare con sé” è tutta un'altra cosa. Per avere un’idea di come vivere sul serio nel “deserto”, facciamo una prova: cerchiamo di stare un giorno intero senza niente e nessuno: niente libri, niente giornali, niente radio e televisione, niente telefono, niente cose da fare, niente da scrivere, pochissimo da mangiare, nessun passatempo. All'inizio proveremo il vuoto, il disorientamento e cercheremo il modo più rapido per scappare. Ma se avremo la forza e la costanza di continuare così per tutto il giorno, giungeremo a scoprire l’esistenza della nostra anima; una importante scoperta, una esperienza singolare, unica, assolutamente mai provata prima. Scopriremo così il lato positivo del deserto. Un deserto che non ci incuterà più paure, un deserto che diventerà un amico fidato. Provare per credere.
Nel deserto il Battista predica un battesimo di conversione per il perdono dei peccati.
Predicare, in greco kerysso, vuol dire “urlare, dire ad alta voce”; la radice ker indica il “cuore”. Giovanni quindi nel deserto non fa una dotta catechesi, lunghe disquisizioni o prediche interminabili; comunica semplicemente dei brevi messaggi carichi di amore, che portano al cuore, che arrivano al cuore; messaggi appassionati, diretti e incisivi, che producono nell’ascoltatore riflessione della mente e adesione del cuore.
Il suo è un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Il senso del verbo greco “metanoèo, convertirsi, implica un “fare inversione di marcia, tornare indietro sui propri passi”; indica cioè un cambiamento radicale nel pensare e nell’agire. Se percorriamo una strada e ci rendiamo conto di aver sbagliato direzione, che facciamo? Ovvio, invertiamo la marcia. Lo stesso dobbiamo fare quando ci accorgiamo che la condotta che stiamo tenendo procura solo del male a noi stessi e agli altri.
Siamo per caso arrabbiati col partner, con un fratello, con chi ci sta vicino, perché ci ha offesi, perché ci ha riservato un comportamento che non abbiamo gradito? Ebbene, che facciamo noi d’impulso? Lo escludiamo immediatamente da noi, lo ignoriamo; gli chiudiamo per ripicca qualunque porta di comunicazione, ostentiamo silenzio e portiamo il muso. Vogliamo cioè “punirlo”, in qualche modo vogliamo vendicarci. Dobbiamo far pagare al malcapitato la pena per lesa maestà. Ebbene, fratelli, non è questa la strada del nostro deserto di conversione: non alziamo muri, non ergiamo barriere, torniamo invece sui nostri passi, cambiamo comportamento; lasciamo perdere, non fossilizziamoci sul chi ha ragione o chi ha torto, andiamo noi incontro al nostro fratello e spieghiamoci con lui.
Quando ci accorgiamo di aver detto qualcosa che non volevamo dire, di aver esagerato o di aver ferito qualcuno, pentiamoci, torniamo indietro (metanoèo). Andiamo dalla persona e diciamogli: “Guarda, ho esagerato; ti chiedo scusa, mi sono lasciato prendere la mano; mi rendo conto di non averti ascoltato o di aver tentato di manipolarti; volevo aver ragione a tutti i costi”. A che serve il nostro orgoglio se non a nascondere a noi stessi di aver sbagliato? Non è forse una prova d’amore ammettere i propri torti? “Quello che ho detto ho detto, e non torno indietro”: intransigenza inutile; convertiamoci, invece, torniamo indietro dalle nostre posizioni. Il ricredersi è una grande conquista del saggio, dell’intelligenza, oltre che della carità.
“Battesimo”, dal greco baptizein, significa immergersi, indica l'immersione nelle acque.
L’acqua, oltre che elemento di distruzione, è stato anche l’elemento vitale che ha portato salvezza al popolo ebraico. Di esempi ne è piena la Bibbia.
Per noi è il presupposto della nostra vita cristiana: per conoscere Dio, la Vita, dobbiamo immergerci nelle acque che contengono la luce del Risorto, la salvezza sicura; e ciò nonostante i nostri lati oscuri, le nostre ataviche cattive inclinazioni. Rigenerati infatti dal battesimo, dopo aver riconquistato il nostro equilibrio e aver sanato la nostra disarmonia con Dio e con le creature, dobbiamo necessariamente confrontarci con i nostri mostri interiori, quelli che noi chiamiamo “male”, per isolarli, eliminarli. L’intera storia della nostra salvezza personale sta appunto nell’affrontare nel deserto queste zone buie, di non-luce, zone tenebrose, di peccato, per uscirne, attraverso l’acqua rigeneratrice, finalmente vincitori, e spaziare nella luce della carità e della grazia.
Il mondo, fratelli, non è un Eden meraviglioso, in cui godere passivamente dell’amore divino; è un territorio sì di luce, condizionata però al superamento della nostra non-luce; è insomma il nostro deserto di conversione, in una alternanza faticosa di gloria, di amore e di tenebre: in tutto questo siamo facilitati dall’elemento acqua: con la nostra nascita, con l'uscita dalle acque materne, abbiamo iniziato il nostro cammino di confronto con la luce e con il buio che vive dentro di noi (battesimo d'acqua); ma solo con le nostre buone azioni (battesimo di sangue) riusciremo a instaurare nella nostra vita la salvezza di Dio.
Infatti, solo per mezzo delle nostre opere possiamo far emergere il Figlio dell'uomo che è dentro ciascuno di noi. Siamo un piccolo seme (figli di uomo); ma un seme che può diventare una pianta forte e rigogliosa (figli dell'Uomo). L'opera è insieme semplice e complessa. Ma non lasciamoci intimidire. Facciamolo invece, fratelli, questo miracolo nella nostra vita: raddrizziamo i nostri sentieri, riempiamo i nostri burroni, abbassiamo i monti, evitiamo i passi tortuosi e i luoghi impervi. Perché solo attraverso questo miracolo noi vedremo la salvezza; solo in questo modo torneremo ad essere quelli che realmente eravamo, nella nostra bellezza originaria, pura, naturale, specchio delle sembianze divine. Quello che siamo ora, lontani dalla luce e dal calore amorevole di Dio, non assomiglia neppure lontanamente a tale immagine divina.
Ecco dunque il tempo favorevole, l’occasione propizia: attraversiamo con coraggio e determinazione questo nostro deserto; perché solo facendo così incontreremo Dio, e potremo contemplarlo faccia a faccia. E allora tutto ci sarà chiaro: non ci saranno più dubbi o domande. Non dovremo temere più nulla, perché potremo vedere distintamente tutto com'è.
Ricordiamoci che da soli non siamo nulla; egli ci tiene tutti - uomini, mondo, universo, bene e male – sul palmo della Sua mano; e ci avvolge tutti con il suo sguardo dolce e amorevole; e mentre noi ci affanniamo per cercare chissà cosa, per conquistare chissà chi, Lui sorride e continua, nonostante tutto, a proteggerci. Amen.
 

giovedì 29 novembre 2012

2 Dicembre 2012 – I Domenica di Avvento

«State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all'improvviso» (Lc 21,25-28.34-36).
Oggi inizia l’Avvento, tempo liturgico che ci prepara al Natale. Sul piano personale, l'avvento è quello spazio di tempo particolarmente adatto perché un “Figlio”, una “nascita”, si possano realizzare in noi. Ogni anno il 25 dicembre festeggiamo la nascita di Gesù; l’occasione non deve ridursi a un dato rituale, di bontà posticcia, cronologico, tradizionale. Deve essere un fatto reale, sentito: Dio continua a nascere in noi, per noi; perché Dio, dove c'è spazio e disponibilità, sicuramente continua a venire. Dobbiamo quindi considerare l'avvento non tanto come un qualunque periodo dell'anno ma come una dimensione della nostra vita che si rinnova continuamente, con la certezza che l'Oltre, l'Altissimo, il Nuovo, una nascita speciale, sta per avvenire ancora una volta in noi. Quello che non è certo, e che ci deve preoccupare, è se noi siamo pronti ad accogliere questi grandi doni.
L'avvento, da advenio, non si limita al presente, ma crea “avvenire”, si proietta nel futuro proprio perché si apre ora, nel presente; genera una novità verso cui andare, una novità che da sempre ci attrae e ci richiama. È un intervento di Dio che vuole far nascere qualcosa di nuovo in noi, sorprendendoci, meravigliandoci, portandoci lontano, molto lontano dalle nostre personali rive di sicurezza. È un tempo di attesa, di un’attesa dinamica e attiva.
Attenzione: ho detto attesa non aspettativa: non confondiamo i due termini; indicano situazioni diverse, da non confondere.
L'attesa infatti non ha oggetto: è apertura del cuore e della mente all’accoglienza totale. L'attesa accetta tutto ciò che le viene incontro (adventus). L'aspettativa invece no: è un “voglio questo”, “questo e questo solo”; ha ben chiaro cosa vuole e cosa non vuole; accetta solo ciò che rientra nei suoi piani; il resto lo rifiuta. Solo l'attesa quindi può portarci a progredire, a rinnovarci, ad evolvere; in una parola ad aprirci al “novum” che ci viene proposto. L'aspettativa invece è circoscritta entro i parametri del nostro giudizio: siamo noi che decidiamo, in base ai nostri criteri personali, cosa ci serve o cosa non ci serve, cosa è buono o non è buono per noi, cosa Dio ci deve mandare, come devono comportarsi gli altri nei nostri confronti; cosa e come noi dobbiamo o non dobbiamo essere. L'aspettativa non ha tempo: vuole tutto e subito, tutto e presto. Non si ha più il piacere dell’attesa: oggi non abbiamo più tempo: tutti i mezzi di comunicazione sono progettati per ridurre sempre più i tempi di attesa: per parlare non serve più l’incontro personale, c’è il telefono; per comunicare velocemente, c’è internet; per muoversi in fretta, abbiamo auto sempre più potenti.
L'aspettativa ci porta a ignorare il presente, per vivere continuamente proiettati nel futuro: “Quando succederà quella cosa, allora finalmente sarò felice, allora mi sentirò realizzato, allora sarò qualcuno…”. E così corriamo, corriamo e corriamo, per raggiungere con affanno un qualcosa che continuamente ci sfugge; un traguardo inarrivabile che accresce in noi ansia, tensione, sconforto, depressione.
L’attesa, al contrario, conosce molto bene il tempo. Attesa, è vivere il presente: “Sento che mi manca qualcosa, sono aperto e disponibile a quello che verrà. Ma intanto vivo oggi il mio momento felice; se verrà dell’altro, tanto meglio”.Ogni evento infatti richiede il suo tempo di preparazione; come la gravidanza per il parto. L'attesa genera pace, tranquillità interiore, non confusione: facciamo le nostre cose, viviamo la nostra vita e lasciamo la porta aperta. Se qualcosa deve arrivare, vedrete che arriverà sicuramente.
Questa, a gradi linee, deve essere la nostra attesa, fratelli; questo, il senso del nostro “avvento”.
Il vangelo di oggi, riproponendo il clima apocalittico della fine dei giorni, allude alla distruzione materiale di questo nostro tempio corporale. Un evento che merita tutta la nostra “attesa”.
Il testo parla esplicitamente di vegliare, di non dormire (21,36). Una raccomandazione che abbiamo sentito diverse volte da Gesù: “Tenete gli occhi aperti, non dormite; non addormentatevi; non anestetizzatevi”. Nessun evento, anche quelli più imprevedibili, accadono senza prima anticipare dei segnali premonitori. Sta a noi saperli cogliere. Dobbiamo dotarci per tempo di una buona scorta di olio per le nostre lampade. Non comportiamoci da sprovveduti.
Quante persone dicono di star male nell’anima, di soffrire, di essere insoddisfatte della loro vita spirituale: è un segnale che dovrebbe scuoterle, farle correre ai ripari; ma cosa fanno per uscire da questa loro situazione? Alcune dicono che non hanno tempo; che cambiare, prendere nuove strade, sono soluzioni troppo impegnative, difficili. E continuano a dormire! Altre invece dicono di voler cambiare, e lo fanno anche, ma a modo loro. Sono i “convertiti super”, gli affamati della novità del “divino, quelli che non si perdono più nessuna cerimonia, nessuna devozione a santi e madonne, nessuna conferenza, nessun incontro, nessun tipo di cammino spirituale: salvo poi a ritrovarsi sempre nelle loro identiche posizioni di partenza, a non fare un benché minimo passo in avanti. Perché? Perché dimenticano che non è la quantità, ma la “qualità”, la convinzione, l’autentica volontà di fare la volontà del Signore, con spirito aperto e tanta umiltà; dobbiamo stare attenti, perché una distorta spiritualità è come la droga: anche se assunta in dosi massicce, non porta mai all’appagamento totale.
Dobbiamo invece “vegliare” sul serio, fratelli; perché se non ci mettiamo veramente in gioco, se non scaviamo dentro di noi, se non mettiamo “mano all’aratro” come si deve, non succederà mai niente: spesso una breve preghiera detta a Dio col cuore, nel silenzio, con riconoscenza, vale sicuramente più di cento rosari biascicati con la bocca, ma col cuore e la mente lontani, occupati in altre faccende: allora a che servono tutte le nostre preghiere distratte e superficiali, tutti i nostri raduni, tutte le nostre liturgie, le nostre conferenze, la nostra caccia al miglior predicatore, all’indirizzo spirituale più alla moda, più “in”, più frequentato da una certa “elite”? Si riducono a pie illusioni; peggio, a forme deplorevoli di sterile esibizione, a soluzioni che non servono assolutamente a nulla, miseri palliativi, inutili fughe dalle nostre oggettive responsabilità.
Non comportiamoci, fratelli, come i farisei che dicevano: “Noi abbiamo Dio per Padre”, e giustificandosi in questo modo, continuavano con tracotanza a fare i comodi loro.
Questo modo di pensare e di comportarci, individualista ed esclusivista, è un paravento, una droga, un'ubriacatura. Perché seguire Dio, non consiste sentirsi “rapiti” da una improbabile estasi divina,o sentirsi “calati” nei più impensati carismi; seguire Dio vuol dire più semplicemente essere noi stessi, esattamente come Lui ci vuole. Fare sempre la “sua volontà”, in tutti i momenti della nostra giornata. Praticare la carità, rimanere svegli, all’erta, vigili.
Capita invece che noi spesso dormiamo e non vogliamo in alcun modo scuoterci perché, lo sappiamo, “svegliarci” vuol dire vedere qualcosa che non vogliamo vedere. Magari per non scoprire i veri motivi del dolore che proviamo dentro; magari per non scoprire di aver sbagliato tutto nella vita; magari per non scoprire di essere ignorati e sopportati; magari per non scoprire di essere nella solitudine più totale; magari per non scoprire le nostre serie carenze, le nostre difficoltà, i nostri blocchi nell’anima.
Diceva il saggio: “Il sonno delle coscienze, genera mostri”: quando l'uomo dorme tutto è possibile, tutto può succedere, qualunque soluzione può prendere piede senza che lui se ne accorga.
Non a caso il vangelo conclude con le parole: “Vegliate e pregate”. In questo caso già il vegliare, non prendere sonno, non dormire, è una forma di preghiera. In greco, questo “pregate”, sta per “avere bisogno, necessitare, desiderare”. Ecco perché abbiamo bisogno (preghiera) di non prendere sonno, di non alienarci (vegliare), per evitare di calarci in un mondo che non c'è. Non dobbiamo permettere che il nostro cuore prenda sonno, dimenticando la gioia per la vita, l'entusiasmo per le cose nuove, la passione per ciò che si ama, lo stupore di fronte alla bellezza; non dobbiamo permettere cioè che la nostra anima si assopisca e non senta più il richiamo di Dio, quel richiamo della vita che ci chiama a definirci e a diventare “Figli dell'uomo”. Vegliare significa non permettere che la nostra mente venga plagiata da filosofie o da idee ingestibili, senza alcun fondamento cristiano, ancorché molto apprezzate dal mondo di oggi. Pregare vuol dire stare attenti che ciò che chiamiamo “Dio” sia Dio, ciò che chiamiamo “amore” sia amore, ciò che chiamiamo “famiglia” sia veramente famiglia e non un volgare e sguaiato surrogato. Perché, fratelli, se noi dormiamo, c’è chi ha tutto l’interesse di sovvertire i valori essenziali e intoccabili della nostra vita. Allora pregare vuol dire vegliare, perché dobbiamo essere noi i protagonisti che contrastano con la loro vita la squallida deriva morale di questo mondo; dobbiamo essere noi, innamorati di Dio, a lasciare un segno, una traccia, un'impronta, perché dobbiamo dimostrare agli altri e a noi stessi, con la nostra vita, con il nostro esempio, che non siamo assenti, ma che siamo lì, vigili, in prima linea.
Il “Figlio dell'uomo” (la nostra realizzazione, l'essere noi stessi,il perseguire quell’ideale di vita che Dio ha impresso nella nostra anima col Battesimo) non potrà mai emergere, non potrà mai uscire, concretizzarsi, prendere vita, se noi dormiamo, se noi continuiamo ad essere indolenti, svogliati, disinteressati.
Fratelli miei, dobbiamo avere la forza di «sfuggire a tutto ciò che sta per accadere», perché un giorno tutti dobbiamo comparire davanti al “Figlio dell'uomo”. Tutti un giorno ci spegneremo: ma guai a coloro che non si sono mai accesi. Tutti ci addormenteremo nel sonno della pace, ma guai a chi non si è mai svegliato dal suo torpore. Per tutti la vita ha una fine: ma guai a chi non l’ha mai neppure iniziata. Che non succeda a noi, fratelli!
Tu verrai, Signore, noi lo sappiamo: ed è sulla tua Parola che noi costruiamo oggi la nostra casa sulla roccia. Perciò, non permettiamo mai che la nostra coscienza si addormenti: restiamo svegli. Non permettiamo che la facciata, ciò che sembra e che appare, nasconda agli altri il cuore e l'anima che non si vedono: restiamo svegli. Non permettiamo di avere così tante cose da fare e vie da seguire, da non percepire più cosa realmente vogliamo, proviamo, sentiamo: restiamo svegli. Non permettiamo mai che ciò che fanno gli altri diventi ciò che facciamo anche noi, solo perché lo fanno loro: restiamo svegli. Non permettiamo che l'odio, la rabbia, il cinismo inondino il nostro cuore, così da non provare più meraviglia e stupore per ciò che vive e palpita: restiamo vivi. Non permettiamo che il “duro quotidiano” cancelli i nostri sogni, le nostre aspirazioni, il nostro desiderio di infinito: restiamo vivi. Non permettiamo a nessuno di manipolarci, di gestirci, di toglierci la nostra vita interiore, così da perderci o da annullarci: restiamo vivi. Non permettiamo al dolore e alla sofferenza di eliminare dalla nostra memoria la gioia, la fiducia e la fede nel Padre: restiamo vivi. Non permettiamo alla società “laica” contemporanea di soffocare l’avvento di un mondo nuovo, migliore, con più fede, un mondo meno alienato e ottuso: stiamo attenti. Non permettiamo alle chiacchiere stupide e senza senso dei media di convincere il nostro cuore, né alle loro facili soluzioni, di sedurci e ingannarci: stiamo attenti. Non permettiamo che qualcosa o qualcuno zittisca ciò che abbiamo dentro di noi, la forza, i sentimenti, la tenacia, la voce dello Spirito: restiamo vivi. Non permettiamo alla disperazione di vincerci, né all'angoscia di smarrirci, né alla paura di azzerarci: restiamo sempre fiduciosi. Nulla deve distoglierci da Lui. Nulla deve mai staccarci dalla nostra sorgente di Vita: perché il nostro vivere è tale, solo se viviamo nella Vita. Amen.

mercoledì 21 novembre 2012

25 Novembre 2012 – XXXIV Domenica del Tempo Ordinario – Cristo Re dell’universo

«Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» Gv 18, 33b-37.
Siamo arrivati all’ultima domenica dell’anno liturgico. Con domenica prossima entreremo nel tempo di Avvento. Oggi la liturgia celebra la festa di Cristo Re dell’universo, e il vangelo ci presenta un dialogo tra re: tra Pilato e Gesù. Siamo durante la Passione: Gesù è già stato catturato e si trova nel pretorio davanti a Pilato. Pilato è “il re” della Palestina: un governatore brutale, ci dicono gli storici. Faceva uccidere e crocifiggere così tante persone che ad un certo punto Roma dovette richiamarlo! Pilato, nella sua carriera politico militare, ne ha visti tanti di pazzi ed esaltati, ma l'uomo che gli sta ora davanti è davvero affascinante: si definisce re! A lui non interessa affatto la questione di Gesù: gli hanno rifilato questo problema da risolvere, dal quale cerca di uscirne senza troppi grattacapi. Il tutto per lui ha una importanza irrisoria; l'unica sua attenzione è di non andare al alterare i già delicati equilibri diplomatici con i focosi ebrei.
Nelle scene del processo a Gesù, descritte dai vangeli, Pilato infatti continua ad entrare e uscire. Da una parte egli è attratto da Gesù (entra), perché ne sente la verità e la bellezza. Ma dall'altra teme i Giudei (esce); teme le conseguenze, teme di perdere l'immagine e il potere che ha. Il dubbio, l'inquietudine, sono il tormento di questo uomo: è l’indeciso per eccellenza.
Un po’ come noi, gli eterni indecisi: sentiamo la bellezza di un percorso, intuiamo il fascino della meta, ma sappiamo che seguirlo vuol dire abbandonare le nostre sicurezze, le nostre abitudini. A questo punto che facciamo? Sentiamo la verità di una cosa, ma sappiamo che aderirvi è diventare impopolari; sentiamo la passione per qualcosa di “nostro”, ma seguirla vorrebbe dire cambiare vita; sentiamo che dovremmo aprirci su certe questioni, ma temiamo di soffrire o di vergognarci; sentiamo che dovremmo porci dei limiti, porci dei paletti, ma ne temiamo le conseguenze. Insomma noi, di fronte a queste situazioni che facciamo? Come ci comportiamo? Per quanto riguarda Pilato il vangelo più avanti ci dice che se ne uscì” dalla situazione. Preferì non approfondire la questione; preferì rimanerne fuori, non farsi coinvolgere. Aveva troppo da perdere.
Ebbene, non è anche il nostro stesso comportamento? Gesù ci dice: “se vi accontentate delle carrube dei porci (Lc 15,15) e non cercate, non desiderate qualcosa di più e di meglio, io non posso farci niente. Se vi basta il superfluo, le cose terrene, l'auto, la tv, la macchina, le sigarette e non cercate qualcosa di più, io non posso farci niente. Se vi basta vivacchiare, mangiare e bere, e non sentite il richiamo di qualcos'altro, se non sentite la voce interiore che vi invita a darvi da fare in questa vita, a desiderare di più, io non posso farci niente. Se vi accontentate e non desiderate qualcosa di più nobile, di più grande, io non posso farci niente. Da ciò che desiderate vi dirò quanto valete come uomini”.
Allora, se dobbiamo farci un augurio, fratelli, auguriamoci quello che soleva ripetere un santo prete: “Che Dio ci tormenti, che ci perseguiti, che non ci lasci stare, purché non ci permetta di risolvere banalmente i nostri problemi, di lasciarci vincere dalla paura e dal rispetto umano, di addormentarci, di raccontarci frottole”.
Pilato chiede a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?» (v. 33). La domanda ha il tono di una presa in giro, fatta con evidente ironia, come a dire: “Io sono il re della Palestina, tu di chi sei re?”. Pilato ragiona pensando al suo ruolo sociale: “Sei per caso un nobile, un dirigente, un personaggio importante, un dottore, uno scriba, uno che ha studiato molto?” Egli non può capire Gesù: perché per lui “re” è solo chi ha potere. Ma Gesù parla di un altro mondo! Pilato non può neppure lontanamente immaginare a cosa alludano le parole di Gesù.
A certe persone è inutile parlare di anima, di verità, di Dio, di dare un senso alla vita, di fuoco interiore, di libertà: non capirebbero; ascoltano solo se si parla di soldi, di case, di investimenti, di guadagni, di divertimenti.
Gesù gli risponde: «Dici questo da te oppure altri te lo hanno detto sul mio conto?» (v. 34). Pilato crede di poter salvare Gesù: ma è Gesù che invece tenta in tutti i modi di salvare lui. Gesù tenta in tutti i modi di farlo uscire dalla spirale di paura in cui si trova. Vorrebbe che si ascoltasse, una buona volta; che desse retta alla sua coscienza. Vorrebbe che non ragionasse spinto solo dalla paura, condizionato dalle conseguenze di una sua scelta veramente libera. Vorrebbe che almeno una volta egli fosse davvero sovrano della sua vita. Ma non è così.
Pilato, re della Palestina, è ancora condizionato, schiavo dell'opinione pubblica e della ragion politica. E gli risponde in maniera banale, distratta, superficiale: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cos'hai fatto?» (v. 35). Gesù aveva tentato di riportare Pilato dentro di sé; ma Pilato scappa e si rifà a quello che dicono e che fanno gli altri; non riesce a guardarsi dentro, non riesce a stare con sé, a porsi domande vere, a fermarsi. E se ne lava elegantemente le mani (Mt 27,24).
Ma «chiunque è dalla verità»(v. 37), non può far finta di niente per stare tranquillo. Non lo possiamo più neppure noi. E allora bisogna cercare; allora bisogna aprire gli occhi e far cadere le nostre false illusioni di vita; anche quando ci accorgiamo che “la verità fa male”; quando ci accorgiamo che la verità va oltre la realtà che conosciamo; perché è facendo così che riaffiorano quelle emozioni e quei sentimenti che tenevamo segreti e nascosti, perché pericolosi.
Non esiste l'amore in astratto: esistono persone che amano. Non esiste la libertà in quanto tale: esistono persone che si liberano, persone che sono libere perché liberate. Non esiste la verità in sé: esistono persone vere, autentiche. Solo Lui è essenzialmente l'Amore, la Verità, la Libertà.
Pilato si sottrae alla questione, esce. È questo il grande rischio anche per noi: trovare soluzioni facili, veloci, uscire dalle questioni in fretta, evitarle, risolverle magari con la violenza delle parole, ma senza rimanere coinvolti nei fatti.
E Gesù risponde: «Il mio regno non è di questo mondo…»(v. 36).
Gesù e Pilato non potranno mai incontrarsi, perché viaggiano (e parlano) su due binari diversi. Per Pilato “regno” vuol dire esercito, armi, potenza e territori. Per Gesù “regno” vuol dire verità, dominio su di sé, essere liberi di amare, di esprimere ciò che si sente, di avere Dio come unico punto di riferimento, e non dipendere passivamente dagli altri.
A volte i nostri ragionamenti sono esattamente identici a quelli di Pilato: anche noi viaggiamo su un piano diverso rispetto alla Parola di Gesù: e camminando su due piani diversi è impossibile incontrarlo.
È quello che succede spesso anche tra padre e figlio. Uno esclama: “Non sono felice!”. E l’altro: “Ma cosa vuoi di più dalla vita? Non ti manca niente, di ho dato tutto! Sapessi come ho vissuto io!”. Però l’uno parla dell'amore, dell'affetto, della presenza paterna nella sua vita; l'altro, il padre, per “tutto” intende i soldi, il lavoro, potersi permettere il superfluo, gli sfizi, i divertimenti. E così tra fidanzati: “Ti amo”. Solo che lui con queste parole vuole portarsela a letto; lei invece lo vuole sposare. La madre dice continuamente: “Lo faccio per il tuo bene”: ma lui, il figlio, si sente sempre comandato a bacchetta. Quando torna da scuola la prima domanda che gli viene rivolta è: “Come è andata?”, che per i genitori è: “Ci interessa sapere cosa ti è successo”. Ma lui dice dentro di sé: “Ancora domande! Ancora interrogazioni! Ma lasciatemi un po' in pace, per favore!”.
Pilato chiede dunque a Gesù: «tu sei re?» (v. 37). E dentro di sé avrà sorriso di commiserazione: “Ma guardati! Senza esercito, senza soldati, senza appoggi politici; dove vuoi andare? Sei qui davanti a me, ti posso uccidere o salvare, e tu mi sfidi dichiarandoti re? Ti rendi conto di quello che dici? Sei incatenato, tutti ti odiano, tutti non vedono l'ora di metterti in croce e tu ti proclami re davanti a me, l'unico che, tutto sommato, può e vuole salvarti? Sei proprio senza ritegno!”. E Gesù risponde: «Tu lo dici; io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce» (v.37).
Pilato si crede re, ma non si comporta da re. Si crede re, ma condanna un uomo che ritiene innocente. Si crede un re libero, ma è costretto ad assecondare una folla assetata di sangue: pur di salvare la sua“ragione di stato”, si sottomette vigliaccamente al volere altrui. Si crede sicuro di sé ma, non sapendo come uscire da questo imbroglio, se ne lava le mani.
“Chi è, allora, il vero re?”, ci chiede Giovanni. La risposta è ovvia: Gesù! Ma è una verità non facilmente comprensibile per chi guarda solo con occhi umani. Gesù è un Re singolare. Sulla croce è affisso un cartello: «Costui è Gesù, il Re dei Giudei» (Mt 27,37). E la gente si fa beffe di lui: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso» (Lc 23,37). Per i Romani arrogarsi il titolo di re è motivo valido per appendere Gesù ad una croce; per i Giudei, un pretesto per schernirlo, per umiliarlo. Gesù non corrisponde in nulla alla loro idea di re. Ma Gesù è realmente re: solo che lo è in maniera diversa da come i Giudei se l’aspettano. Gesù è re perché nel suo regno immateriale è l’unico, in assoluto, che regna; Lui solo è al comando; è Lui che decide, lui che ha il controllo su tutto. Non esistono forze nemiche che possano batterlo. Lui è il re della vita, il vincitore della morte, il re della Luce, della Speranza, dell’Amore. È il nostro re. Il nostro Salvatore, il nostro Maestro. È Lui che ci ha insegnato ad essere anche noi “re” di noi stessi, della nostra anima: impresa ardua; non è cosa facile essere re del nostro cuore, se ci lasciamo sopraffare continuamente dai nostri nemici: paura, dubbio, disperazione, angoscia, odio, rabbia, dolore, vergogna, aggressività, male.
Come possiamo dirci re, infatti, se siamo condizionati dal giudizio della gente, da tutto ciò che ci circonda? Come possiamo dirci re, se non riusciamo a dominare i nostri istinti? Come possiamo dirci re, se ad ogni occasione scarichiamo tutta la nostra rabbia su chi è più debole, su chi ci sta più vicino? Come possiamo dirci re, se non riusciamo a controllare i nostri comportamenti? Come possiamo dirci re, se continuiamo a fare meccanicamente e stupidamente ciò che ci proponiamo in continuazione di non fare più? Come possiamo dirci re, sovrani della nostra vita, se sistematicamente ci inganniamo per paura, nascondendoci la verità? Ma chi comanda nel nostro regno? Chi è il re? Siamo noi che decidiamo e guidiamo la nostra vita, o c’è qualcun altro che lo fa per noi? È vero, la nostra vita è tutto il nostro regno. Ma perché dimostriamo così poco interesse per viverla bene?
Chiudiamo per un istante gli occhi, fratelli, e pensiamo a Gesù; Re innalzato sul patibolo, inchiodato sul trono della croce, esposto allo scherno dei suoi nemici: lo vediamo spogliato di tutto: privato della sua dignità, nudo davanti ad amici e nemici. Privato della sua reputazione: eppure la nostra mente ricorda scene di entusiasmo per lui, gente che lo acclamava, gente guarita che parlava bene di lui, piena di ammirazione. Lo vediamo spogliato della credibilità: non scende dalla croce, non è in grado di salvare se stesso, quindi è un impostore, un simulatore. Addirittura privato del suo Dio, abbandonato dal Padre, dal quale sperava aiuto, salvezza. Lo vediamo, infine, privato della vita, di quella esistenza qui sulla terra a cui lui, come noi, si aggrappava tenacemente, riluttante ad abbandonarla. E fissando quel corpo senza vita capiremo a poco a poco di ammirare in Lui il simbolo della liberazione totale, della vittoria estrema sul mondo.
Appunto perché inchiodato e morto sulla croce, Gesù diventa vivo e libero. La sua vita è un crescendo di conquiste, non di sconfitte. Suscita invidia, non commiserazione. 
Abbiamo davanti ai nostri occhi il nostro vero Re, libero, maestoso, invincibile: e in Lui possiamo contemplare la nostra nuova condizione di essere umani, affrancati da tutto ciò che ci rende schiavi, da tutto ciò che distrugge la nostra felicità. Fissando quella libertà, fratelli, guardiamo tristemente alle nostre schiavitù, che ancora resistono in noi. Sì, fratelli, perché noi siamo ancora schiavi: siamo schiavi del mondo, della nostra cattiveria, della nostra sfiducia, del giudizio degli altri; schiavi di ciò che gli altri possono dire e pensare di noi.
Siamo schiavi del successo; ma evitiamo qualunque sfida del bene, per paura e ignavia. Siamo schiavi del benessere, del consenso umano, della gloria, delle lusinghe di questo mondo, sempre pronto a colmare ogni nostra solitudine interiore. Siamo schiavi anche di Dio: non del Dio di Gesù, ma di un Dio fasullo che ci siamo costruito noi su misura. Un Dio che pieghiamo continuamente al nostro egoismo, un Dio che ci serve solo per tranquillizzarci e renderci sicura, tranquilla e indolore la vita; un Dio che soprattutto non deve interferire con noi, porre sul nostro cammino ostacoli e antipatiche condizioni.
Ecco fratelli, questi siamo noi. A fine anno liturgico, facciamo un bilancio serio e onesto della nostra vita cristiana: affranchiamoci definitivamente da queste schiavitù, torniamo ad essere uomini liberi, re di noi stessi: e preghiamo col cuore, pieni di ammirazione e di pietà, il vero Re, il Crocifisso; Colui che ha conquistato il Regno dell’universo attraverso la passione e la morte: quel Re, che una volta lassù, sulla croce del Golgota, con un ultimo grido di immenso amore ha attirato a sé tutto e tutti. Amen.