giovedì 14 febbraio 2013

17 Febbraio 2013 – I Domenica di Quaresima

«Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo» (Lc 4,1-13).
Con il mercoledì delle ceneri abbiamo iniziato il tempo di quaresima, i quaranta giorni, cioè, che ci conducono alla Pasqua. Perché proprio quaranta giorni? Perché questo è nella Scrittura il periodo di tempo necessario per il raggiungimento di un obiettivo, di una trasformazione, di un passaggio da una situazione ad un’altra. È chiaro allora che per noi cristiani la quaresima, più che i 40 giorni che precedono la Pasqua, deve essere un sistema, uno stile di vita; per noi, “quaresima”, è quel tempo che ci serve per rialzarci, per fortificarci di fronte ad una situazione spirituale un po’ compromessa; è quel tempo in cui camminiamo, cresciamo, fatichiamo, piangiamo, lavoriamo; è il tempo di “conversione”, del ritornare sui nostri passi e del rimetterci nella giusta carreggiata facendo una inversione di marcia; è quel tempo in cui dobbiamo riconoscerci deboli, inadatti, insufficienti, non potendo prescindere da Dio. Noi spesso pecchiamo di una autostima eccessiva, ci consideriamo immuni da ogni debolezza, tetragono a qualunque tentazione: ma nel cammino della vita la verità è un’altra. Tutti dobbiamo fare i conti con le nostre debolezze, con il nostro egoismo, con la nostra superbia, tutti dobbiamo affrontare i nostri “mostri”; tutti insomma dobbiamo fare il nostro percorso quaresimale, se vogliamo ricongiungerci a Cristo nostra Pasqua. Ricordiamocelo, fratelli: chi non compie il proprio “esodo”, chi non oltrepassa il suo Mar Rosso, non potrà neppure incamminarsi verso la libertà; chi non percorre il deserto della propria quaresima non potrà mai raggiungere la Terra Promessa, le acque sorgive e limpide della Pasqua.
Anche Gesù ha percorso il cammino della quaresima, del deserto. E il vangelo di oggi, parlando appunto delle tentazioni da Lui subite, ce ne chiarisce le modalità, le caratteristiche, la tempistica. Il maligno attacca proprio in quei momenti in cui ci sentiamo più forti, più difesi, più “tranquilli”, come è successo a Gesù: Egli infatti ha appena ricevuto il battesimo, è il momento in cui si sente più amato dal Padre, in cui è “pieno di Spirito Santo”, e proprio allora arriva la tentazione di Satana: subdolo, calcolatore, sempre all’erta, sempre pronto all’azione. L’importante è non arrendersi mai, non aver paura; dobbiamo esorcizzarle queste “tentazioni”, fratelli; dobbiamo guadarle in faccia, cercare di capirne il contesto, le movenze. Se non possiamo evitarle, dobbiamo almeno combatterle a fronte alta, senza tentennamenti o indolenze. La vita, il mondo in cui viviamo, la società, è il nostro “deserto” naturale, il luogo della tentazione, la zona operativa del “serpente tentatore”, il luogo in cui veniamo messi alla prova. “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel deserto, per umiliarti e per metterti alla prova, per sapere quello che tu avevi nel cuore” (Dt 8,2). Ecco questo è il punto: quaresima, deserto, tentazioni, non fanno altro che metterci di fronte alla nostra realtà, alla nostra coscienza, all’autentica nostra essenza. Nudi, senza fronzoli, maschere, infrastrutture di comodo, abbellimenti ad uso esterno.
In greco “tentare” (peirzein), significa infatti “provare”, “verificare”. La tentazione ci verifica, ci illumina, fa luce, ci rivela impietosamente la verità su di noi, su come siamo, su cosa abbiamo veramente dentro il nostro cuore; ci dice, insomma, chi siamo noi di fronte a Dio e al prossimo.
Tutti i grandi profeti e i grandi personaggi biblici sono stati tentati; come pure tutti i santi di questo mondo: la tentazione non è quindi un incoraggiamento a fare del male, ma la verifica delle nostre forze, l’autenticazione della nostra vera identità, della nostra personalità.
Una certa morale restrittiva del passato ci ordinava: “Attenzione, dovete evitare assolutamente le tentazioni!”. E così la gente si sentiva in colpa anche solo se veniva sfiorata dal pensare ad un'altra donna, se provava qualche naturale impulso cattivo di odio o di rabbia. “Sono cose gravi che non si devono fare”, ci diceva, “e guai a chi le fa!”. Ma le tentazioni, fratelli, non dipendono da noi, non le possiamo evitare. L’importante è non aderirvi. Del resto tutta la vita è una tentazione: è un banco di prova, un tester, che ci rivela impietosamente la tenuta delle nostre convinzioni, la profondità delle nostre radici; ci segnala i valori sui quali possiamo contare con sicurezza; ci documenta sulla sincerità e autenticità della nostra fede.
Le tentazioni pertanto devono tenerci umili, devono fugare tutte quelle velleità del nostro ego, basate sulla eccessiva considerazione di noi stessi. Il vero male è la nostra innata superbia, non le tentazioni. Assecondarle, criticando gli altri con supponenza, sparando giudizi velenosi, facendo paragoni antipatici, significa assecondare il nostro orgoglio, significa minare alla base non solo la nostra fede, ma anche quella di chi ci sta vicino. Sono situazioni con cui dobbiamo confrontarci quotidianamente. Ci sentiamo delusi dai nostri preti, dai nostri superiori, in famiglia? Non ci sentiamo valorizzati, considerati, compresi? Immediatamente una voce ci suggerisce: “A che serve credere, a che serve frequentare questa comunità, a che serve darsi da fare, essere fedele, se poi chi ci dovrebbe insegnare, chi dovrebbe guidarci con il buon esempio, chi dovrebbe aiutarci, confortarci, capirci, si comporta così male con noi?” Oppure: “Quel prete non ci piace; inutile andare in quella chiesa; non ci andiamo più e basta! Preferiamo, per un maggior profitto spirituale, andare in quell’altra Chiesa, frequentare quell’altra parrocchia; perché lì troviamo tanta pace, c’è un prete veramente in gamba!”. Eccola la tentazione: è veramente il “profitto spirituale” che ci fa muovere, o il nostro orgoglio “ferito”? Perché, fratelli, a monte di tutto, c’è sempre il nostro “ego”: noi valiamo, siamo i più preparati, potremmo fare cose eccelse, potremmo far resuscitare una comunità “moribonda”, solo se “qualcuno” ci desse credito! e ci convinciamo, ci illudiamo, ci caschiamo dentro in pieno. Vale la pena allora, nel nostro “deserto”, domandarci sinceramente: “tutta qui la grande fede in Dio che mi pavoneggio di ostentare davanti a tutti”? Inganno: è bastata una semplice contrarietà per farci scappare, un piccolo disappunto per farci abbandonare tutto; è bastato che uno non ci piacesse, che uno non facesse come noi avremmo voluto, per abbandonare la nostra vocazione, la nostra missione, piantare tutto. Che fine hanno fatto la preghiera, la sopportazione, la sofferenza, la carità? Un bagno di umiltà ci aspetta, fratelli: percorriamo con grande compostezza e obiettività il nostro “deserto” quaresimale! Dicevamo di avere una solida fede, ma poi si è rivelata una montatura a beneficio degli altri: non fede profonda, convinta, ma orgoglio travestito da religiosità. Ecco, fratelli; la “quaresima” della vita, con le sue prove, con le sue tentazioni, deve farci capire cosa abbiamo veramente dentro di noi: perché il tempo passa, lo scorrere vertiginoso dei giorni non si arresta: è necessario quindi percorrere ancora una volta questo nostro cammino quaresimale. Non possiamo perdere altro tempo. Dobbiamo agire.
Il vangelo dice che Gesù fu spinto nel deserto e non mangiò in quei 40 giorni: Gesù dunque è spinto dalla Spirito nel “deserto”. Perché? Perché nel deserto si è soli, non c'è nessuno e niente altro. Nel deserto siamo solo noi, di fronte a noi stessi, con la nostra coscienza, con ciò che siamo veramente. Ed è proprio lì che dobbiamo riprendere la nostra vita in mano, è lì che dobbiamo fortificare la nostra fede, le nostre decisioni. Come? “Digiunando”.
Purtroppo oggi non capiamo più il senso profondo del digiuno: per questo non lo pratichiamo. Pensiamo che digiunare corrisponda solo a limitarci nel cibo. Ma il digiuno, quello autentico, non consiste tanto nell’astenerci dal mangiare carne o in alternativa nel sacrificarci per chissà quale iniziativa filantropica, o nel privarci di qualche soddisfazione materiale. Certo, sono cose buone anche quelle. Ma “digiunare” vuol dire “fare verità” su noi stessi. Vuol dire scrutarci dentro, riesumare la nostra autenticità, specchiarci con serenità e sincerità nella nostra anima, e individuare le vere tentazioni della vita. Noi abbiamo paura di guardarci dentro: siamo pieni, zeppi di “anestetici” che smorzano le nostre voci interiori. Come nella vita normale. Se non dormiamo prendiamo i tranquillanti. Se andiamo facilmente in ansia, assumiamo “alcune gocce” per calmarci. Se siamo “troppo eccitati”, con dei tranquillanti torniamo a poterci gestire. Ci droghiamo o eccediamo nell’alcool per eliminare il disagio che proviamo dentro, pensando in tal modo di calmare le nostre tensioni. Perché la cocaina è così diffusa e in continuo aumento? Perché aumenta sempre più il numero di quelli che cercano di dare una parvenza di felicità alla loro esistenza infelice, disperata. Ci rimpinziamo di cibo per non percepire la fame d'amore che bussa dentro di noi. Ci buttiamo nel lavoro per dare importanza e senso ad un'esistenza che altrimenti non avrebbe senso. Abbiamo bisogno ogni giorno di cambiamenti, di novità, di sesso, di provocazioni, per eccitare una vita evidentemente sterile e piatta. Abbiamo bisogno di parlare sempre, siamo dei parolai, dei logorroici, un fiume in piena, che cerca di affogare nelle parole le urla disperate del nostro cuore.
Cosa succede quando dobbiamo “digiunare”, fare silenzio, quando dobbiamo stare soli con noi stessi, senza chiasso, senza rumori, senza radio né televisione? Succede che tutto quello che cerchiamo di nascondere, improvvisamente esce fuori! Tutti i mostri che abbiamo dentro escono allo scoperto e sembrano sbranarci. Ci vediamo finalmente nella nostra più completa nudità. E questo non ci piace. Non vogliamo vederci così. Niente “deserto”, niente “digiuno”, niente “quaresima”.
Eppure, fratelli miei, quella è la strada; di là dobbiamo andare; è là che dobbiamo necessariamente fare i conti con noi stessi. È Dio che lo vuole. Se non affrontiamo i nostri demoni interiori, continueremo ad essere sempre in loro balìa. È una questione di libertà. È inutile che ci illudiamo pensando: “Io sono tranquillo! Non ho di questi problemi; non ho rabbia dentro di me. Sono felice, soddisfatto delle mia vita, in pace con me stesso”. No, amici miei; se pensiamo questo vuol dire che non ci conosciamo! È Satana che si diverte a crearci queste illusioni; il suo mestiere è quello di distoglierci dalla realtà, di farci evadere da noi stessi e dalla nostra coscienza. Cerca di insinuarci il miraggio dell’essere “diversi”, del non essere come tutti gli altri: ci fa vedere quello che non esiste, ciò che è irrealizzabile. Ma a noi tutto questo piace, ci piace così tanto da crederlo vero: siamo stregati da questa illusione, la ammiriamo, la inseguiamo, orientiamo tutta la nostra vita nella sua direzione. E poi quando ci accorgiamo che è solo una chimera diabolica, che non esiste nulla di ciò, che con tanto impegno abbiamo vanamente inseguito, allora ci sentiamo falliti.
Ecco: la quaresima ci insegna ad evitare proprio questo.
Il vangelo si conclude infine con l'annotazione che “esaurita ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da Gesù per tornare al tempo fissato”. Qual è questo “tempo fissato”? È l’oggi, ovviamente; è il tempo in cui viviamo; la prova, la tentazione non si è fermata a Gesù; è ritornata, ritorna e ritornerà ancora, continuamente, finché ci saranno uomini su questa terra. Sarebbe infatti troppo bello dire: “Abbiamo superato la prova, ora finalmente siamo a posto”. Non lo siamo proprio per niente: a livelli sempre diversi, con intensità e difficoltà variabili, per tutta la vita saremo sempre messi alla prova. Ed è bene che sia così; perché ogni prova, se superata, contribuisce a radicarci sempre più nell’amore di Dio.
La più grande tentazione dell’uomo è quella di ignorare la “tentazione”; evita cioè di misurarsi continuamente con le difficoltà e le avversità della vita, rincorrendo l’effimero, il superficiale. Potrebbe sembrare una soluzione, ma non lo è. Purtroppo, fratelli, il deserto è lì davanti a noi e non può essere evitato: dobbiamo attraversarlo, combattendo e “digiunando” per tutto il tempo che serve.
Un pensiero deve però consolarci e darci fiducia: nessuna “tentazione” diabolica in sé può farci male: potrà farci soffrire, questo sì, ma gli unici artefici del nostro male siamo noi, quando acconsentiamo alle sue lusinghe. Ma “si nobiscum Deus, quis contra nos?” Se Dio è con noi, chi potrà mai sopraffarci? Radichiamoci dunque nel mistero di Dio, affidiamoci alla sua onnipotente bontà. E affrontiamo fiduciosi e convinti la nostra “quaresima”. Amen.
 

mercoledì 6 febbraio 2013

10 Febbraio 2013 – V Domenica del Tempo Ordinario

«Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano» (Lc 5,1-11).
Dopo il disprezzo e la rabbia dimostrati con tanta cattiveria contro la sua persona, dai suoi stessi concittadini, Gesù non si scoraggia e continua la sua opera evangelizzatrice, predicando e guarendo. E un po' alla volta le persone che lo seguono, che lo appoggiano, che lo aiutano, che lo ospitano, aumentano a vista d’occhio. D'altronde è abbastanza ovvio: se Gesù avesse guarito un nostro figlio, come potremmo non essergli riconoscenti? Se fossimo noi i morti ai quali egli ha ridato la voglia di vivere: come potremmo non ringraziarlo per tutta la vita? Se fossimo noi i paralizzati che ha fatto camminare, come potremmo non seguirlo, lui che ci ha guariti? Se fossimo noi gli indemoniati che ha liberato, come potremmo non amare chi ci ha ridato la dignità di vivere?
Ad un certo punto però Gesù decide di fare una scelta: tra tanti, chiama in particolare un ristretto gruppo di persone, gli apostoli, i Dodici. Ciò che Gesù fa è qualcosa di nuovo. Egli vuole che questo piccolo gruppo lo segua, osservi, impari, per poi essere in grado di fare come Lui. Infatti un giorno dirà loro “Andate, predicate e guarite” (Mc 3,14; Lc 10,1-20).
E lo dice anche a noi. Ecco perché non possiamo rimanere sempre discepoli. Ad un certo punto dobbiamo diventare maestri, adulti, crescere. Non possiamo spendere tutta la vita a chiedere ogni cosa a Dio o al prossimo; non possiamo essere solamente passivi; non possiamo sempre aspettare; non possiamo vivere facendo finta di non avere doti e capacità; non possiamo rimanere sempre bambini. Un bel momento Dio ci manda fuori.
Il vangelo non è un cenacolo chiuso, esclusivo: il vangelo è andare nel mondo per cambiare il mondo. Il vangelo è missione, portare la vita; è passione, fuoco, luce, verità; cose che con Lui abbiamo sperimentato dentro e fuori di noi. È una conseguenza normale: se proviamo una grande gioia, come possiamo tenerla solo per noi? Se abbiamo trovato un tesoro meraviglioso, come facciamo a lasciarlo nascosto? Se abbiamo scoperto ciò che fa vivere, sicuramente vogliamo che tutti vivano, che tutti si appassionino e che si riempiano di questa “meraviglia”!
Il vangelo è come la scuola: si studia ingegneria non per studiare sempre, ma per diventare ingegneri, per lavorare! Andiamo alla scuola di Gesù per diventare degli altri Gesù, non per rimanere eterni bambini, dei piccoli egoisti che pretendono solo di ricevere e basta. Siamo stati anche noi “segnati”; rientriamo cioè anche noi tra i “dodici” della prima chiamata, che hanno costituito il “nuovo popolo”, il popolo di Gesù di allora e di oggi. Nostro compito è quello di assicurare nel tempo la presenza liberatrice e guaritrice di Gesù. Gesù infatti non vuole più riunire le dodici tribù di Israele, ma vuole riunire tutti i popoli della terra.
Luca, nel vangelo di oggi, ci riporta la chiamata dei primi quattro di quei dodici: i due fratelli Pietro e Andrea, pescatori, e i due fratelli Giacomo e Giovanni, anch'essi pescatori ma di un livello sociale più elevato (avevano, diciamo, una “impresa” di pesca).
Il vangelo in realtà si focalizza e si concentra sulla figura di Pietro. Siamo presso il lago di Genèsaret. Ora, nei vangeli, l’idea del “lago” oltre che essere strettamente legata a fenomeni di cambiamento improvviso, di tempesta, di rovesciamento di situazione, di scombussolamento, di paura (Mc 4,35-41; 6,45-52), con la sua superficie liscia, immobile, tranquilla, ci fa pensare anche alla condizione di vita di quei pescatori, prima dell’incontro con Gesù: monotona, ogni giorno sempre le stesse cose. La loro è una vita di superficie, piatta come le acque del lago.
Un po’ come la nostra vita spirituale. Non siamo cattivi, non siamo gente di malaffare, tant'è che permettiamo anche noi a Gesù di usare la nostra “barca”. Però siamo convinti che stiamo bene così, che la vita è tutta qui. Pensiamo che questo sia il solo modo di vivere. E invece, fratelli, neppure sappiamo come si vive “uscendo” con Lui! Sì, abbiamo provato, ma abbiamo combinato ben poco, anzi proprio nulla!
A questo punto domandiamoci: Siamo davvero felici? C'è fuoco, c'è passione nel nostro agire? C'è luce nei nostri occhi? C'è sole nel nostro viso? C'è profondità nelle nostre parole? “Maestro abbiamo pescato tutta la notte e non abbiamo preso nulla”. Come a dire: “Facciamo tante cose, corriamo tanto e sempre, ma dentro “non peschiamo nulla, non ci riempie niente”.
La realtà, fratelli, è che se continuiamo a vivere in superficie è difficile combinare qualcosa di buono: lì, a quel livello, è proprio impossibile!
Gli apostoli stanno lavando le reti, ma mentre le lavano, ascoltano Gesù. Sentono la vibrazione che li tocca dentro; sentono che quelle parole ridestano emozioni “morte”, emozioni che fanno vivere; sentono che Egli mostra loro “la vita vera”, che li spinge ad osare.
Allora che facciamo? Beh, prima o poi arriva il momento in cui dobbiamo deciderci: la nave è pronta, l'equipaggio c'è, il comandante c’è, e l'occorrente pure. Adesso dobbiamo sciogliere gli ormeggi e prendere il largo. O si va o si sta. Non ci sono vie di mezzo. O ci fidiamo di lui e andiamo, o rimaniamo lì fermi per sempre. Ad un certo punto dobbiamo rischiare, dobbiamo osare, dobbiamo andare. Significa semplicemente avere fede: ci fidiamo e andiamo. Non sappiamo dove ma ci fidiamo di te. “Che ne sarà di noi? Che succederà? Perderemo qualcuno? Soffriremo? E se poi ci sbagliamo?”: domande legittime, certo. Ma se ascoltiamo la paura non prenderemo mai il largo.
Gesù non fa mai tanti discorsi. Infatti seguirlo, non è questione di essere convinti su quanto ha detto, ma basta amore e fiducia. Non lo seguiamo perché ci ha convinti, ma perché ci siamo innamorati di Lui, di ciò che con Lui possiamo essere e vivere.
Le proposte di Gesù sono sempre incisive, ma di grande respiro, di larghe, profonde, ampie visioni: ci costringe cioè a scegliere, a metterci in gioco; ci fa andare là dove mai avremmo pensato di poter andare, e vivere in luoghi che neppure pensavamo esistessero. Per questo quelli che lo incontravano gli dicevano: “Tu sei la Vita”; perché Lui li faceva veramente vivere!
La chiamata si articola in due inviti, semplici, decisi e chiari. Il primo: “Prendi il largo”: non ha bisogno di molte spiegazioni. Vuol dire: “inoltrati nell'ignoto, esci fuori dai tuoi soliti schemi, dai tuoi soliti modi di pensare, di fare, e inoltrati nella vita”. “Ma io ho paura!”. “Lo so”. “Ma è rischioso!”. “Lo so”. “E poi?”. “Non lo so!”. “E se non riesco, se non funziona?”. “Possibile”. Domande lecite, fratelli: dubbi più che leciti; ma se vogliamo “il nuovo” dobbiamo osare, decidere una buona volta; altrimenti continueremo a vivere così; però poi non lamentiamoci! Il treno della vita passa una volta sola: tocca a noi prenderlo. Nessuno può farlo al posto nostro. O noi, o nessun altro.
Molti dicono: “Non è per me; sarebbe bello ma non ne sono capace” e ne sono convinti. In realtà dovrebbero dire: “Ho paura; mi è più comodo così!”.
Fratelli miei, continuiamo a trastullarci con le solite compagnie, col solito giro di amici che non ci offre più nulla? “Prendi il largo!”. Frequentiamo colleghi o amici che parlano solo di donne, di sport, di soldi e lavoro? “Prendi il largo!”. Frequentiamo sempre quell’ambiente e ci sentiamo oppressi dai soliti giudizi velenosi, dagli sguardi di traverso, dalle invidie? “Prendi il largo!”. Abbiamo una sete terribile di verità, di ricerca, di scoprire, di capire; non ci accontentiamo delle risposte preconfezionate, classiche, ma vogliamo andare al centro della vita? “Prendi il largo!”.
L'altro invito è: “Cala le reti!”. Cioè: “Vai dentro; vai a fondo; vai nel mistero della Vita”. La Vita, Gesù, non si può vivere stando in superficie, fuori; bisogna immergersi. Non è un caso che “battesimo”, in greco, voglia dire proprio questo.
Siamo figli di Dio? Oh, certo che sì! Ma cosa vuol dire “si”? Perché è una risposta che non risolve nessuno dei nostri problemi e non ci cambia la vita; “Entra dentro, immergiti” e solo allora sentiremo su di noi tutta la forza, la potenza, la dignità di essere figli suoi.
Abbiamo una missione da compiere? Ma certo! Ma siamo noi che lo dobbiamo scoprire! Siamo noi che dobbiamo entrare in noi stessi (introire secum). E come si fa? Dobbiamo entrare dentro di noi: punto. Non c'è altra strada.
Quando Pietro si rende conto di come si può vivere con Gesù (la rete è piena, stracolma di pesci!), ha paura: “Allontanati da me, sono peccatore”. Cosa vuol dire con questo? Prima di tutto non si sente degno: “Non ce la faccio! Non ne sono capace! Non è possibile!”. La gente ha paura di essere felice. Poi si sente in colpa per aver sprecato tutto quel tempo. Una delle sensazioni più amare della vita è il giorno in cui a quarant'anni (o cinquanta o quello che è!) ci svegliamo, ci rendiamo conto di quanto sia inebriante e meraviglioso vivere con Lui, e diciamo: “Dio, quanta vita ho perso!”. E ci rendiamo conto di non aver mai vissuto finora; la chiamavamo “vita” ma era “vegetare”. Fa male scoprire quanto tempo abbiamo sprecato! Infine si rende conto del suo “peccato”: ha chiamato “vita” ciò che era superficie, vegetare, “tirare avanti”, vivacchiare. “Peccato”, in ebraico, significa “freccia che manca il bersaglio”: viviamo e crediamo che la nostra sia la vita vera; poi ci rendiamo conto che la vita è tutto un'altra cosa: non abbiamo fatto centro, non era vero: questo è il vero peccato. Gettandosi in ginocchio Pietro riconosce di aver chiamato “vita” ciò che era “morte”. Bisogna accettare di aver sbagliato se vogliamo trovare la strada giusta; perché se ci intestardiamo a proseguire per la strada sbagliata, non arriveremo mai là dove vogliamo arrivare.
Siamo umili, fratelli. Quando una cosa è sbagliata, quando non ci offre ciò che ci dovrebbe dare, diciamo semplicemente: “Ho sbagliato, non vale la pena andare avanti”. Abbandoniamo la vecchia strada e imbocchiamone una nuova.
Da pescato a pescatore: oggi Pietro ha toccato, sentito, sperimentato, cosa vuol dire incontrare il Signore. Capite ora perché lo ha seguito? Capite perché Andrea, Giacomo e Giovanni hanno fatto altrettanto? Cos'altro avrebbero potuto fare? Erano morti e sono stati pescati, riportati in vita; cos’altro avrebbero potuto fare se non i pescatori di Vita?
«Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». Sono le parole che Gesù ha detto anche a noi, dopo che lo abbiamo incontrato. La nostra vita era vuota, come una rete senza pesci: Gesù l'ha riempita al punto da farla traboccare. Prima chiamavamo “vita” quello che era solo “vegetare”, sopravvivere: è Lui che ce l’ha fatto capire. Prima eravamo impauriti, ma Egli ci ha insegnato quanto sia bello prendere il largo e non rimanere fermi al porto. Prima ci accontentavamo, ma Lui ci ha insegnato a raggiungere il massimo che possiamo vivere. Prima parlavamo a vanvera; ora, soltanto ora, possiamo invece trasmettere agli altri ciò che Lui ci ha insegnato. Signore, “Tu hai parole di vita eterna”: l’ho capito, l’ho provato. Per questo voglio seguirti; voglio lasciare tutto, voglio mettermi a rischio, voglio osare, voglio vivere per Te. “Sulla tua parola, getterò le mie reti”. Amen.

mercoledì 30 gennaio 2013

3 Febbraio 2013 – IV Domenica del Tempo Ordinario

«In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria... Egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino» (Lc 4,21-30).
La pagina del vangelo di oggi è il seguito di quella di domenica scorsa. Siamo nella sinagoga di Cafarnao. Gesù ha appena ultimato la lettura e la spiegazione del passo di Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me”. Nel silenzio profondo che ne segue, tutti si meravigliano, rimangono stupiti: “Ma come, non è il figlio di Giuseppe? Eppure dice proprio delle belle parole; parla bene; ci piace proprio”. Sembrano tutti accoglienti, ben disposti: ma è solo un comportamento di superficie. Ben presto, infatti, messi di fronte alle parole chiare ed esplicite di Gesù, si lasciano andare alla rabbia, vengono sopraffatti dall’ira e da tutta una serie di pregiudizi; improvvisamente innalzano nei suoi confronti delle barriere, reagiscono con violenza, lo cacciano dalla sinagoga e dalla città, e tentano addirittura di ucciderlo; ma è Gesù che, passando in mezzo a loro, spontaneamente se ne va, riprende la sua strada. È lui che se ne va: anche se lo fa contro voglia; la chiusura dei suoi compaesani è determinante, è come eliminarlo dalla loro comunità, cacciarlo; escluso perché scomodo, perché va contro la loro mentalità chiusa e rancorosa. Le sue parole costituiscono per loro un problema. Che altro poteva fare Gesù? La sua è un’amara constatazione: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria». È triste, ma è proprio così.
Quelli che lo respingono sono infatti i suoi concittadini, gente conosciuta; sono quelli che puntualmente si riuniscono tutti i sabati in preghiera nella sinagoga: persone che però hanno sì la religione nel cuore, ma non hanno Dio. Pregano dentro la “casa di Dio”, ma sono senza Dio; innalzano preghiere, ma non pregano. Hanno Gesù, ma non ne capiscono il valore e lo buttano fuori dalla loro vita.
Una constatazione quella di Gesù che, fratelli, deve farci pensare seriamente. Un “ante litteram” di ciò che succede anche oggi, di ciò che ci vede disinvolti protagonisti ai nostri giorni.
Anche noi andiamo in chiesa, ma troppo spesso dimostriamo di essere senza Dio. Andiamo in chiesa ma siamo contro Dio; non condividiamo la sua Parola. Né più né meno di come è successo allora, a Nazareth.
Anche noi vorremmo un Gesù diverso; vorremmo cambiarlo; lo vorremmo secondo le nostre idee, i nostri schemi, i nostri parametri: e quando vediamo che Gesù non è così, lo rifiutiamo. Rifiutiamo in pratica colui che può salvarci, che può guarirci; rifiutiamo stoltamente colui che costituisce tutta la nostra vita.
Quante volte vorremmo le persone diverse da quel che sono: vero? Le vorremmo come noi; secondo le nostre esigenze, fatte tutte su misura per noi, in un certo modo; vorremmo che tutto il mondo fosse esattamente come noi lo immaginiamo. Ma le persone, al contrario, sono quelle che sono, sono come sono; questa è la realtà. Volerla diversa, rifiutarla, significa voler evadere dal presente, dalla vita di ogni giorno, dalla realtà.
Quante volte, fratelli, noi rifiutiamo a priori situazioni, sollecitazioni, incontri, esperienze che giudichiamo ostili, difficili, non comprensibili. Solo se avessimo un po' di pazienza in più, un po' di apertura mentale in più, questi input potrebbero essere la nostra salvezza.
Gesù viene rifiutato dall'uomo, dal pregiudizio umano, da chi vuole modellarlo secondo le proprie idee, da chi lo vuole adattare alle proprie esigenze. Noi infatti, nel nostro egotismo, abbiamo già in testa come dovrebbe essere il nostro Dio; sappiamo già come dovrebbe comportarsi con noi, quali cose dire, quali miracoli fare. E poiché ciò non può essere, lo escludiamo dalla nostra vita. Lo accogliamo fino a quando corrisponde alle nostre idee; ma appena ci accorgiamo che è diverso, che non scenderà mai a compromessi con noi, con il nostro ego, con la nostra ottusità, automaticamente lo escludiamo. E non solo con Dio: noi ci comportiamo allo stesso modo anche con chi ci sta vicino, con i nostri confratelli, con i parenti, con gli amici: non rientrano nei nostri schemi? Li eliminiamo: “Fuori”, “Via”!
Ma che amore può avere per gli altri chi si costruisce un Dio a modo suo? Che razza di amore può nutrire chi accetta il prossimo solo quando gli va bene? Che amore è quello di chi pretende di regolamentare la vita degli altri a modo suo?
È in questo modo, fratelli, che escludiamo il Dio-Verità dalla nostra vita: è così che obblighiamo Gesù a lasciarci, ad andarsene; non lo fa di sua iniziativa, siamo noi che lo buttiamo fuori.
Il pregiudizio dei compaesani nei confronti di Gesù, è la stessa arma che usiamo anche noi continuamente contro i nostri fratelli, contro i nostri colleghi: “Ma chi ti credi di essere? guarda che ti conosco bene; abbassa la cresta”. Dove non possiamo emergere per meriti personali, ci arriviamo calunniando gli altri: “Lo sai di chi è amico? Lo sai che frequenta gente di malaffare, che è un poco di buono, un mangione, un beone, un parassita?”. Vecchia tecnica: facendo terra bruciata intorno a noi, automaticamente saremo i soli ad emergere; per innalzare noi stessi, abbassiamo gli altri.
Purtroppo le persone che criticano tutti, che hanno da ridire su tutti, che non si fidano di nessuno, dimostrano di essere dei meschini, di avere un animo piccino e vuoto: alla fine, quello che dicono degli altri, corrisponde esattamente alla loro immagine, a quel che provano nel loro cuore avvizzito. È vero: quando sparliamo degli altri, senza saperlo, descriviamo solo noi stessi. Quanto staremmo meglio noi, invece, quanto male gratuito, quante sofferenze eviteremmo, soltanto se fossimo più aperti, più sensibili, meno acidi nel criticare, più umili nell’ascoltare gli altri e più cauti nel sentenziare!
Ma “queste cose non ci appartengono”, pensiamo convintamente: “noi siamo credenti, mica siamo pagani, non ci abbassiamo a tanto!”. Fratelli mie: Gesù non fu ucciso dagli atei, dai pagani o dai miscredenti; fu ucciso dai credenti più credenti di tutti; così credenti, così pii, così zelanti, che nel loro cuore non avevano più spazio per niente e per nessuno. Gesù per le vie della Palestina annunciava la Buona Nuova (il Vangelo): fu ucciso non perché non era buona, ma perché era nuova. Gesù mandava in frantumi gli schemi, i pregiudizi e le visuali dei “sapienti” dell’epoca, stravolgeva la loro idea tradizionale di Dio, della Legge, del prossimo. Annunciava un Dio diverso, e i “fedelissimi” della Legge non gliela perdonarono; annunciava un Dio amico anche delle donne, e i maschilisti del tempo gliela fecero pagare; annunciava insomma un Dio della vita: e non era in contraddizione tra ciò che diceva e ciò che faceva; annunciava un Dio della giustizia, un Dio che condanna le falsità e le ipocrisie nascoste:e i nobili e i ricchi si sentirono chiamati in causa in prima persona. Annunciava un Dio che rompeva con una tradizione fatta di sterili regole: e i rispettosi delle regole si sentirono spiazzati nel loro orgoglio di fedeli conservatori della Legge.
Per questo Gesù non venne accolto a casa sua: e dunque, vistosi rifiutato, se ne va. A Gesù non interessava essere riconosciuto come messia, quel messia che la sua gente aspettava. Ciò che prima di tutto gli stava a cuore era essere se stesso, mantenersi fedele al Suo Dio, al Padre, e alla Sua verità: questo era per Lui il Messia.
Gesù è rimasto sempre e profondamente se stesso. Gesù non ha mai tradito il suo nome, la sua vocazione, la sua chiamata e la sua missione. Per questo Egli è un uomo compiuto. E quando sulla croce dirà: “Tutto è compiuto”, intende dire che tutto ciò che doveva fare, tutto ciò che poteva fare, Egli l'ha fatto: ha vissuto la sua vita, compiendo fedelmente la missione per cui Dio lo aveva mandato in questo mondo.
Gesù non ha permesso al pregiudizio di limitarlo: anzi, quando poteva, lo attaccava direttamente sotto qualunque forma gli si presentasse; quando non poteva farci nulla, se ne andava altrove. Perché non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Non gli importava molto cosa la gente dicesse o pensasse di lui. Non gli importava di essere gradito, ammirato, accettato. Era un uomo libero. Per questo poteva permettersi di dire le cose come stavano; per questo sostava con i poveri e con i ricchi, per questo era libero di incontrare e abbracciare chiunque, perfino le donne, di ascoltarle, di toccarle.
Non c'era pregiudizio nella sua mente e neanche nel suo cuore. Non gli interessava conoscere cosa la gente pensasse di lui; non gli interessava sapere cosa l'opinione pubblica pensasse di quelle persone che incontrava: se doveva o voleva incontrarle, le incontrava, senza curarsi del parere di nessuno. Gesù, a differenza di noi, in tutta la sua vita terrena fu sempre un uomo autentico, fu sempre se stesso. Solo chi è libero da qualunque pregiudizio può vivere completamente e serenamente la propria vita: in caso contrario, non vive la propria vita ma quella degli altri; vive una vita non sua, un doppione, una fotocopia; una esperienza alienante, deludente e deprimente. Chi è fedele a se stesso non sarà mai tradito dalla vita; il male peggiore, infatti, sta proprio nel rinunciare a se stessi, alla propria anima, alla propria chiamata. Questo è il grande peccato dell'uomo, e questo è il peccato che egli deve superare e vincere ad ogni costo.
“Passando in mezzo a loro se ne andò”. Sicuramente le cattiverie, le insinuazioni dei suoi concittadini, hanno fatto male a Gesù: bassezze del genere non possono che ferire. Ma lui è passato a testa alta in mezzo a tanto lordume; niente non lo ha “smontato”, niente lo ha bloccato. Certo ha sofferto, sì, il suo cuore ne è rimasto amareggiato, ma Lui ha proseguito per la sua strada. Gesù è rimasto se stesso, è rimasto il Figlio di Dio, ha continuato imperterrito la sua missione. Impariamo da Lui, fratelli: non lasciamoci condizionare dal male, non permettiamo alle malelingue di sviarci dai nostri buoni propositi. Affidiamoci a Lui, e vedrete che nessuno mai potrà fermarci. Amen.


mercoledì 23 gennaio 2013

27 Gennaio 2013 – III Domenica del Tempo Ordinario

«Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre N.N., in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto». Lc 1,1-4; 4,14-21.
Sono le parole di apertura del Vangelo di Luca. Le ho volutamente adattate, rivolgendole a te, sconosciuto visitatore di passaggio, pregandoti di fermarti qualche istante per leggere queste brevi considerazioni.
Fermati e ascolta: forse Dio ora vuol parlare proprio a te.
Quante volte è capitato nella nostra vita: se ci succede di ascoltare, anche casualmente, un abile oratore, uno che ci colpisce immediatamente per la correttezza nel parlare, per la profondità e la condivisibilità degli argomenti trattati, il nostro primo impulso è di conoscerlo, di informarci da dove viene, di conoscere la sua storia, le sue origini, quali sono i suoi amici, le sue esperienze, i suoi studi, l’ambiente in cui vive, in una parola ci interessiamo alla sua vita.
Ebbene: noi che ci definiamo persone religiose, che ci professiamo cristiani, noi che ascoltiamo anche frequentemente in chiesa la sua Parola, che la troviamo giusta, consolante, piena di amore e speranza, non siamo per niente interessati a conoscere la persona di Gesù, ad approfondire la sua vita, i suoi insegnamenti. La sua figura non ci interessa, non ci appassiona, non ci crea alcun imbarazzo ignorare tutto, o quasi, di lui.
Eppure noi diciamo di avere “fede”: si, certo, noi abbiamo fede, ma fede in chi? Su che cosa? Su cosa appoggia la nostra fede? Possibile che Dio sia l’ultima delle nostre preoccupazioni? Allora, fratelli, siamo onesti con noi stessi; non riempiamoci la bocca di surrogati, tanto per far bella figura. Riconosciamo a noi stessi di non avere le idee chiare, quando le abbiamo, su fede in Dio, sul soprannaturale, sulla vita eterna, su come dobbiamo comportarci col prossimo, su come dobbiamo pregare e chi pregare. La nostra fede non è per niente solida, fratelli: non poggia su un terreno sicuro; al massimo si basa sul sentito dire, su qualche ricordo nebuloso della nostra infanzia, su delle usanze che abbiamo continuato a mantenere anche da adulti, senza magari chiedercene mai la ragione di fondo.
Beh, lo capiamo da noi: questo non è avere fede, non è vivere la propria fede. Non è essere cristiani. Chi cerca di amare Gesù, lo vuole ovviamente conoscere: lo vuole approfondire, vuole entrare nella sua vita, vuole rapportarsi con lui, vuole in qualche modo “sperimentarlo”; vuole entrare nel suo mondo, guardare le cose dal suo punto di vista: anche solo per provare! L'amore è conoscenza, fratelli, e la conoscenza è amore.
Una delle nostre grandi lacune, che è la stessa anche di molti preti, è che rischiamo di fare molta morale ma poco vangelo. Siamo molto esigenti con gli altri e molto poco con noi. Non conosciamo e non facciamo conoscere abbastanza il Dio di Gesù. Cerchiamo di insegnare ai nostri figli, agli amici, a chi ci sta a cuore, cosa devono o non devono fare; cosa devono fare per vivere bene, serenamente: ma ci guardiamo bene dal mostrare con l’esempio la figura di Gesù. In compenso facciamo tanta “politica” su Gesù: utilizziamo la sua parola, il suo vangelo, i suoi insegnamenti solo per determinati scopi. Ma non facciamo vedere a nessuno quanto grande sia il suo cuore, quanto la sua anima divina sia presente tra noi, quanto la sua umanità sia sconfinata, e come metta continuamente a nostra disposizione il suo amore senza limiti.
Purtroppo il perché di questo disinteresse è dentro di noi: è evidente che noi per primi non siamo innamorati di Lui. E, lo ripeto, non possiamo conoscere e far conoscere agli altri qualcuno del quale noi stessi conosciamo troppo poco, di cui non siamo innamorati. Non possiamo peraltro impegnarci, dare la vita a chi nel profondo del cuore, ci è indifferente. Non possiamo fidarci di uno che consideriamo un nemico, un controllore, un “rompi”, un ostacolo alla nostra felicità. E Gesù, d’altro canto, non ci può guarire se noi non lo vogliamo, se non ci abbandoniamo a Lui, se non crediamo in Lui, se non sentiamo che Lui è la Vita vera, profonda, intensa.
È questa un po’ la nostra situazione, fratelli! Immaginiamo di essere in regola solo perché di domenica continuiamo a frequentare la messa. Oppure ci sentiamo spiritualmente e religiosamente impegnati solo perché ci interessiamo a livello sociale di iniziative umanitarie, perché ci sentiamo sensibili alle problematiche mondiali, o perché simpatizziamo per i vari santoni oggi tanto di moda; per quei “guru” commerciali, emeriti ciarlatani, che mediaticamente propongono le loro fasulle teorie, magari condite da un eccentrico ascetismo orientaleggiante. Seguiamo purtroppo le mode. E abbiamo sempre più paura di guardarci dentro.
E invece dovremmo chiederci il perché di tutto questo. Dovremmo farlo con onestà, senza barare con noi stessi.
Certo, non è che il comportamento dei cristiani di oggi ci sia di particolare aiuto: siamo infatti circondati da tanti credenti, pastori, ministri, laici impegnati, che sono spiritualmente atrofizzati, senza entusiasmi, senza iniziative. Persone che si limitano solo allo stretto indispensabile, senza riuscire a trasmettere nulla. Persone che non si aggiornano, che non si affinano nello studio e nella preghiera, che non sono spinte dall’entusiasmo di vivere e condividere con i fratelli il messaggio di Cristo. Persone che non combattono più per i loro ideali. Persone, in una parola, che non hanno più fede.
Ebbene, fratelli, per quanto ci riguarda non temiamo di conoscere Cristo, non continuiamo a rimanere nell'ignoranza: se abbiamo il coraggio e la forza di metterci sotto la sua luce, diventeremo sicuramente illuminati. Non accontentiamoci di quello che si dice in giro, di quello che i media ci trasmettono: ma, come Luca, cerchiamo la Verità, verifichiamola, studiamola, applichiamola a noi stessi, alla nostra vita, umilmente, con i piedi per terra e con gli occhi fissi sul Suo volto.
Ascoltiamo, oggi, la voce di Gesù che ci legge il rotolo di Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio». A seguito del nostro Battesimo, siamo tutti degli “unti” del Signore. Attualizziamo le parole della Scrittura. Tutto quello che Gesù ci insegna nel Suo Vangelo, non è un qualcosa di anacronistico, una bella storia di ieri; ma è un viatico per oggi, un qualcosa di molto importante che ci riguarda tutti da vicino.
Quando ci avviciniamo al Vangelo, noi leggiamo la nostra vita: l’“oggi” della nostra vita. Quello che troviamo scritto lì, è proprio quello che ci serve oggi. Se veramente sentiamo quelle parole dentro di noi, vuol dire che parlano a noi di noi. Magari le abbiamo già udite centinaia di volte, ma forse non le abbiamo mai “sentite”. Non abbiamo capito il loro messaggio: “Ai poveri il lieto annuncio, ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, la libertà agli oppressi”. Sì, fratelli: Cristo è venuto proprio per noi; perché poveri, prigionieri, ciechi, oppressi, oggi lo siamo tutti noi. Lo siamo noi e lo sono tutti i nostri prossimi.
«Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha mandato»: Dio ha mandato anche noi: per cui le sue parole devono essere le “nostre” parole; Dio parla di noi, a noi. E lo fa oggi; anche se a noi, guarda caso, dà fastidio che Lui ci scelga proprio oggi; perché abbiamo già tanto da fare, abbiamo tanti altri impegni più importanti: i figli, la famiglia, il lavoro, la casa, la macchina, i nostri divertimenti, il nostro riposo; non possiamo sconvolgere così su due piedi tutte le nostre certezze. Vogliamo una vita serena, noi; una vita tranquilla, senza scossoni, senza imprevisti.
C’è un fatto però, cari fratelli: che se tutto quello che ascoltiamo dal Vangelo non accade oggi, se non lo caliamo oggi nella nostra vita, quelle parole di Vita ci scivolano via, rimangono lettera morta; allora il vangelo continuerà ad essere per noi soltanto un bel libretto, un’operetta scritta bene, affascinante, un piccolo best-seller. Ma solo quello; per noi Gesù è morto e basta; Gesù non è più vivo, non è più la nostra forza, il nostro coraggio; non può più dare senso alla nostra vita.
Se gli insegnamenti del Vangelo non ci toccano, non entrano dentro il nostro cuore, non ci coinvolgono, non ci commuovono, allora non servono a nulla: tutto diventa inutile, come inutile sarà la nostra vita.
Non continuiamo a perdere il nostro tempo pensando a cosa sarebbe meglio fare, a come lo dovremmo fare: facciamolo e basta. Facciamolo oggi. Dobbiamo dire qualcosa a qualcuno? Diciamola oggi! Dobbiamo scusarci? Facciamolo oggi. Dobbiamo intraprendere un nuovo cammino? Partiamo immediatamente. Oggi, subito: domani sarà tutto più difficile di oggi; “oggi” e non domani, perché “domani” è la voce della nostra paura; rimandare a “domani” vuol dire non farlo “mai” più!. Allora prendiamo subito in mano il timone della nostra vita, e illuminati dalla luce del Vangelo, decidiamo immediatamente la rotta da seguire. Amen.
 

mercoledì 16 gennaio 2013

20 Gennaio 2013 – II Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli» (Gv 2,1-12).
Quello di nozze, banchetti, feste, è un tema piuttosto ricorrente nel vangelo. Il Dio di Gesù è il Dio della gioia, delle feste, della felicità, dei sani piaceri della vita. Non si può comprendere il Dio della croce se non si comprende prima questo Dio. Dio vuole la felicità e il piacere per ogni uomo. Dio ci vuole felici, ricordiamocelo! Ma perché mai l’hanno ridotto un Dio burbero, serio, triste, imbronciato, che pretende da noi solo sacrifici e offerte? Dio non è nella noia, nel trattenersi, nel chiudersi, nel non provarci per non peccare, nelle formalità esteriori. È il Dio della vita, delle persone appassionate, di chi osa e vive intensamente. Di chi si dà da fare. Di chi sbaglia: l’importante è accorgersene e rimediare.
Gesù dunque è invitato alle nozze con Maria sua madre e i suoi discepoli. Viene da pensare: è Gesù l’invitato, o è lui che invita tutta l’umanità alle nozze del “vino nuovo”, alle nuove nozze dell’uomo con Dio? In quest’ottica il «non hanno più vino» che segue, acquista un nuovo senso: gli uomini vorrebbero festeggiare le nozze, ma non possono. Non sono più capaci di amore, di amare, di vivere. Non c'è più gusto nella loro vita, non c'è più sapore nelle loro giornate. Quando si vedono in giro certe facce, certi volti segnati solo dalla tensione e dalle rughe della chiusura, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando leggiamo certi libri o articoli su Dio, o ascoltiamo certe prediche, certi discorsi religiosi piatti, formali, moralistici, che non hanno slancio, non hanno passione, convinzione, fede, energia, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando vediamo le nostre parrocchie impegnate solo nella burocratizzazione della loro azione pastorale, attenta a non andare mai oltre i limiti orari fissati, a porre l’attenzione solo sulle cose da non fare, limitando qualunque entusiasmo, qualunque iniziativa, qualunque slancio creativo; quando trasmette solo frustrazione, delusione e ansia; ebbene, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando vediamo certe coppie che si trascinano nel loro matrimonio solo per routine, con pesantezza, con screzi, litigi e ripicche continue, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando le persone consacrate, i preti, i frati, le suore, non provano più nessun impulso interiore, nessuna commozione, non si stupiscono più, sono diventati cinici su tutto, allora dobbiamo constatare amaramente: “Qui non c'è più vino”. Quando le persone si trascinano stancamente, senza entusiasmo, senza voglia di vivere, senza sussulti, allora dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”.
E allora, «Fate quello che vi dirà», ci sussurra nostra Madre.
Nella vita, fratelli, dobbiamo fidarci, dobbiamo af-fidarci a qualcuno e fare tutto quello che ci dirà, anche se non lo capiamo, anche se lo troviamo strano. Quando individuiamo una persona saggia, vera, trasparente, spirituale e sentiamo di poterci fidare di lei, impariamo a fidarci totalmente di lei, anche se non capiamo cosa ci dirà o perché ce lo dirà: “Fate quello che vi dirà”. A volte non capiamo cosa la vita ci dica; anzi capiamo benissimo cosa ci propone ma ci sembra stupido, irrazionale, illogico: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci porta lì dove non vogliamo andare e siccome non capiamo il perché ci diciamo che non ha senso andarci: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci diciamo che certe cose sono difficili, ostiche, dure, che certe montagne non ha senso affrontarle,quando ce ne possiamo stare in pianura: “Fate quello che vi dirà”. A volte sentiamo che ci spinge o ci porta lì dove non vorremmo andare, che ci invita ad esporci anche quando non sarebbe il caso: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci fa vivere esperienze dolorose, di sofferenza, di solitudine, di rifiuto, di non-senso: “Fate quello che vi dirà”. Perché, fratelli, la salvezza sta nel fidarsi di Dio, in quanto Lui, la Vita, non sbaglia mai.
«Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei». L'acqua di queste giare serviva per purificarsi, per lavarsi. Sono i vecchi riti, le vecchie abitudini, le vecchie consuetudini e norme: hanno il gusto dell'acqua stantia, putrida, che è diventata inutilizzabile. Con quest'acqua non si può celebrare nessuna festa. Perché proprio« sei»? Il numero sei (inferiore del sette che significa la “perfezione”), indica i nostri limiti, la nostra imperfezione: ci manca cioè “un qualcosa” di essenziale, di vitale; non siamo completi. Siamo «di pietra»: una specifica che indica non solo il materiale delle giare ma anche la nostra vita; una vita dura, insensibile, rigida, pietrificata. Una vita che si è annacquata, fossilizzata, sclerotizzata nei soliti rituali, nelle solite abitudini: ci manca un respiro più ampio, diverso, un “oltre”. È come trascorrere giornate prive di gusto, di sapore: si vive, ma senza senso, senza soddisfazione.
“La giara di pietra” è il segno dell'irrigidimento della nostra devozione, delle nostre regole religiose; è il segno di certi nostri riti religiosi, stantii e ripetitivi, che non trasmettono più nulla, che non hanno più nessuna vitalità, più nessuno slancio, che non possono metterci in comunicazione con il Dio della Vita. Continuiamo a ripeterli solo perché lo abbiamo sempre fatto, perché l’abitudine ci tranquillizza, è ciò che conosciamo, ciò che ci appartiene, ciò che non ci provoca sussulti, non ci fa paura.
E non ci accorgiamo neppure noi, come gli sposi del vangelo, che il vino è finito! Non ci accorgiamo che siamo noi ad essere “esauriti”, vuoti, inservibili per noi e per gli altri.
Ma dove viviamo? Perché non pensarci prima? Purtroppo la routine, la quotidianità, se non stiamo attenti, pialla tutto, appiattisce ogni cosa, anche i sentimenti, anche l'amore. Se non c'è uno slancio più grande, se non c'è il desiderio di qualcosa di oltre, se non c'è la ricerca per riempirci continuamente, per uscire dalla monotonia, dalla ripetitività delle cose, allora davvero moriamo. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, ogni giorno quando rinunciamo a fare qualcosa di nuovo, di diverso. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, quando per paura rinunciamo ad uscire dagli schemi e siamo sempre uguali. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, quando rinunciamo a dirci tutto il bene che ci vogliamo, tutto l'amore e la fortuna che abbiamo nel conoscerci. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci ricarichiamo, quando non frequentiamo nessun incontro di più ampio respiro, con orizzonti più grandi, in modo da toccare la ricchezza e la vitalità del nostro vivere e di quello che siamo. Moriamo lentamente e inesorabilmente quando per pigrizia rinunciamo a quello che ci piacerebbe, a quello che desideriamo perché ci costa un po' di fatica o un po' di faccia. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, davanti alla tv, al bar con le solite quattro chiacchiere inutili da osteria; con gli “amici” nella ripetitività delle solite cose da affrontare e da fare. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci fermiamo a guardarci negli occhi; quando non ci guardiamo allo specchio e continuiamo a mentirci, a dirci castronerie e “balle” (come se potessimo mentire a noi stessi!); quando ci nascondiamo dietro alle nostre facciate, alla nostra razionalità, intelligenza, cultura, sapere, solo per “incantare gli altri”. Appariamo perfino bravi, acuti, profondi: ma stiamo solo sfuggendo a noi stessi, a ciò che abbiamo dentro, al Dio della Vita che vorrebbe riempirci di vita. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando deleghiamo le nostre responsabilità agli altri, a questo mondo materialista, indifferente e apatico; a questa società ormai depravata. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci abbracciamo più, quando non ci accarezziamo più, quando la tenerezza non alberga più nei nostri occhi, nelle nostre mani e nel nostro corpo, perché l'unica cosa che ci interessa è prendere, afferrare, conquistare, dominare. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non vogliamo più metterci in discussione, quando rinunciamo ad imparare, a cambiare, ad evolvere: allora la crescita si blocca. La vita si blocca. E questo succede quando andiamo a messa perché ci siamo sempre andati; quando preghiamo perché lo abbiamo sempre fatto; quando crediamo, come abbiamo sempre creduto. Tutto diventa freddo, tutto diventa “solito”, normale, piatto. Arriviamo a temere il calore, le vibrazioni, i sussulti dell'esistenza e della Vita.
E prima o poi, una certa mattina, nell’alzarci, non ci riconosceremo più: non ci sarà più vino, non ci sarà più amore, non ci sarà più vitalità. Non ci sarà più niente di niente, saremo vuoti, esauriti, finiti. Ecco, fratelli, scuotiamoci, usciamo dal nostro torpore: questa è l’urgenza vera, questa è la nostra possibilità di salvezza.
Gesù disse loro di nuovo: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola. Ed essi gliene portarono». “Attingete”, perché Dio ha già compiuto il miracolo: si tratta solo di attingere. Dio, creandoci, ha già compiuto il miracolo; ci ha già fatto grandi: si tratta solo di attingere, di crederci, di abbeverarci alle sue sorgenti profonde. Il miracolo si è già compiuto, sta dentro ciascuno di noi, basta solo raggiungerlo, basta solo tirarlo fuori, farlo emergere.
Chi è capace di cambiare, di modificarsi, di evolversi, si salverà. Chi non è capace, morirà, sommerso dal suo far niente. Si condannerà da solo.
Ecco, fratelli, è questo l’insegnamento che in estrema sintesi dobbiamo cogliere dal vangelo di oggi: se vogliamo salvarci, dobbiamo necessariamente “mutare”; dobbiamo cioè trasformarci da acqua in vino; dobbiamo migliorare, imparare dai nostri errori e crescere, crescere. Perché crescere significa soprattutto spalancare il nostro cuore e la nostra mente alla luce e al calore dell’Amore. Amen.
 

giovedì 10 gennaio 2013

13 Gennaio 2013 – Battesimo del Signore

«Il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,15-16.21-22).
Giovanni Battista è l’ultimo dei grandi profeti veterotestamentari: la sua predicazione è molto attuale ed efficace e la gente lo segue con attenzione. In molti si chiedono addirittura se non sia lui il Messia, il Cristo, l'Aspettato da sempre: lo sentono parlare in maniera autorevole, decisa e provocatoria: “Convertitevi perché la fine è vicina!”; di fronte a tanta determinazione, a tanta sicurezza nel condannare senza paura ingiustizie e falsità, la gente corre da lui in massa per farsi battezzare. L’immagine di Dio che egli trasmette è certamente quella di un Dio che ama; ma è anche e soprattutto l’immagine di un Dio severo, di un giudice imparziale, inflessibile, a cui non sfugge nulla, che nulla dimentica, che conosce e vede ogni cosa; un Dio, quindi, che a tempo debito provvede a castigare in maniera inappellabile tutte le falsità, gli inganni, i peccati degli uomini. Dio – ci fa capire Giovanni ribadendo la Scrittura - è un padre paziente, ma la sua pazienza ha un limite. Dobbiamo pertanto, prima che sia troppo tardi, correre ai ripari, inchinarci e sottometterci a Lui, perché il Dio della paura esige solo la perfezione, non fa sconti, ma opera con giustizia, rigore,intransigenza: ricompensa i giusti con il premio del paradiso, e castiga i malvagi con la condanna all'inferno, allontanandoli dalla sua presenza. È un Dio che non prevede la spensieratezza, la gioia gratuita, il divertimento, ma incita ad un impegno continuo, massimo e progressivo; con Lui bisogna essere sempre in presa diretta, guardando continuamente in alto, bravi, perfetti, in regola.
Farsi battezzare nel Giordano, decidere di purificare la propria vita e la propria anima con l’immersione nell’acqua, è quindi per chi lo segue l’unica soluzione per liberarsi da ogni scoria umana, per ricominciare a vivere e lavorare seriamente alla realizzazione di quel progetto che Lui ha previsto per ogni creatura.
Ebbene, anche Gesù segue il Battista; sono addirittura cugini: per lui Giovanni è un esempio, il punto di riferimento, il maestro, uno dei più grandi profeti; e come tutti, anche Gesù è lì al Giordano per il battesimo, confuso tra la folla, in umile attesa del suo turno, simile in questo ai tantissimi che vogliono ottenere il perdono per i loro peccati; ma al momento della sua discesa nelle acque del fiume, tutto cambia, improvvisamente succede un fatto nuovo, impensabile, straordinario, decisivo: quello che doveva essere un semplice evento “battesimale”, assume un significato assolutamente inedito, sia per la vita terrena di Gesù, che per la vita di tutte le creature: Gesù, per la prima volta, si rende conto di quanto egli valga agli occhi del Padre, di fronte al suo Dio. Si rende subito conto che il “suo” Dio, che è poi il Dio del suo vangelo, è diametralmente l’opposto al Dio intransigente e severo di Giovanni. Lo capisce immediatamente, in maniera inequivocabile: “No, Padre, tu non sei così! Non c'è motivo di aver paura di te. Tu non sei come mi hanno insegnato fino ad oggi; io che ora ti sto sperimentando, toccando, incontrando, ti conosco veramente per quello che sei”.
È così che un semplice “battesimo d’acqua”, acquista in Gesù un significato “altro”, diventa un evento rassicurante, una solenne investitura, una certezza che lo sosterrà in ogni istante difficile della sua missione terrena.
Oggi infatti, più che al battesimo di Gesù (egli non aveva alcun peccato da farsi “lavare”!) noi assistiamo alla sua “chiamata” ufficiale, all’esplicito invito “paterno” di dare avvio alla sua missione. Ciò che Luca vuol qui descrivere, pertanto, va ben oltre il significato di un avvenimento materiale, di routine; il suo è invece un tentativo di esprimere una realtà nuova, inesprimibile: la trasformazione intima di Gesù; un cambiamento interiore innegabile, che repentinamente si è reso visibile, riscontrabile da tutti. Gesù da quel preciso istante è un altro uomo. La sua stretta unione col Padre, prima personalissima e nascosta, diventa ora “riconoscibile” da tutti, diventa di dominio pubblico, attraverso la successione di “segni” che tutti hanno avuto modo di percepire:
«Cieli aperti», sottolinea Luca: il mondo del cielo (Dio) e quello della terra (Cristo) sono in stretta, indissolubile comunione, in costante collegamento; e sono aperti per rendere possibile qualunque comunicazione.
«Discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba»: non che ci fosse una colomba in carne ed ossa; è un simbolismo per dire che veramente qualcosa di soprannaturale è entrato in Gesù. Qualcosa che seppur invisibile, tutti sono in grado di verificarne la presenza. È lo Spirito del Padre: Gesù l’ha veramente sentito entrare in sé, ha percepito un cambio repentino, deciso, una rassicurante osmosi reciproca di sentimenti d’Amore. Anche all'inizio della storia del mondo, nel primo capitolo della Genesi, lo Spirito aleggia sulle acque; adesso però (in forma di colomba) aleggia su Gesù; lì la prima creazione non ha funzionato: l’uomo vecchio ha rovinato tutto; qui succede il contrario. Gesù è il nuovo inizio della storia, segna l’inizio dell’economia salvifica; è l’uomo nuovo che ricostruirà la primitiva armonia dell’umanità col Padre creatore. Lo Spirito divino, l’Amore del Padre in simbiosi con quello del Figlio, ne è il garante. E - come già successo nella Bibbia nei confronti di re, di giudici, di profeti, di sacerdoti - lo Spirito di Dio scende sul prescelto, e indica a Gesù la particolarità della missione che lo attende; una missione unica, personale, indelegabile; una missione universale, divenuta urgente, improcrastinabile.
«Venne una voce dal cielo»: non si tratta di una voce esterna, rumorosa (in quel momento Gesù è in preghiera); ma è una voce silenziosa, interiore; ciò che Gesù sente, lo sente dentro di sé; sono parole rassicuranti, che lo mettono di fronte a se stesso: “Io, Gesù, sono figlio di Dio; Lui è mio Padre; gli piaccio (si compiace); io sono il Cristo; è mio Padre che mi ha voluto così: sono il suo prediletto, il suo “messia” l’unto dal suo Spirito. Egli mi ha inviato qui su questa terra, per compiere una missione ben precisa; ora è arrivato il momento: ora non posso più tardare; ora devo muovermi; Lui è con me!”
Il centro focale del “battesimo” di Gesù non è quindi, come ho detto, la “purificazione” da un peccato originale di cui era esente; ma è vivere questa “esperienza” inedita della Voce del Padre che, mediante concetti e parole già espresse nella Scrittura, gli fa capire e meditare: “Tu sei l’amato, tu ai miei occhi sei grande, tu sei mio figlio prediletto, non ti lascerò; tu sei importante per me, non ti abbandonerò, non mi sfuggirai dalla mia mano, nessuno ti rapirà da me; tutto ciò che esiste l'ho creato per te; non lo devi conquistare, è già tuo; mi appassiono a te, sei nei miei pensieri, non cadrai mai al di fuori dal mio sostegno; non mi devi dimostrare nulla, io ti amo già per il solo fatto che sei mio figlio; per quanto tu vada lontano io rimarrò sempre tuo padre e tua madre, e tu sarai sempre mio figlio; tu sei per me come nessun altro; sei unico per me: ti voglio bene, ti voglio bene, ti voglio bene…”.
È proprio l’assorbimento intimo da parte di Gesù di tali concetti “messianici”, il suo riconoscersi in essi, che determina oggi l’evento “battesimale” nella vita di Gesù: un punto di non ritorno, una rottura definitiva col passato, un passaggio obbligatorio da superare, durante il quale Egli prende chiaramente coscienza di chi è e di cosa è chiamato a vivere e ad annunciare.
Che cosa poi in concreto Gesù abbia vissuto o provato in quel preciso momento, non lo sappiamo; ma ciò che possiamo dire con tutta certezza è che Lui non sarà mai più lo stesso; da quell’istante Egli vive la certezza dell’amore paterno: sente di essere amato e benvoluto dal Padre, al punto da non aver più bisogno di compiacere nessun altro; da non doversi preoccupare più di nulla, da essere libero di fare le proprie scelte e di seguire la propria strada, anche se contraria a tutte le altre.
Una vera e propria “chiamata” dunque. Sembra quasi che anche Gesù sia passato attraverso quelle stesse sensazioni che per noi creature umane trasformano una semplice chiamata in “chiamata di Dio”. Fatti ovviamente i dovuti “distinguo”. Tutti noi infatti, chi più chi meno distintamente, siamo o siamo stati oggetto di una speciale chiamata di Dio: forse non ce ne rendiamo conto del quando e del dove, visto che non si tratta di una chiamata tramite cellulare e neppure per “sms”. Ma per tutti, una tale occasione, è unica, particolarissima, intensa, di grande intimità; un’esperienza che continua nel tempo a rivoluzionarci il cuore e l’anima, un’esperienza da cui non se ne esce mai come prima. È un incontro/scontro con qualcuno che ci sconvolge letteralmente la vita, che ci rende completamente diversi. È una irruzione (ir-rompo) di Dio, talmente imperiosa e forte, da romperci dentro, da spaccarci, da sconquassarci, da destabilizzarci. “Essere chiamati da Dio” significa percepire un qualcosa che ci toglie il respiro, che ci spezza in due, che ci attraversa, che ci lascia esanimi; uno stato d’animo che ci terrorizza tanto è grandioso e bello. Per inciso: è proprio per questo motivo che una volta i monaci, i consacrati, nell’abbracciare la vita religiosa, cambiavano il loro nome. Era un modo per indicare una verità molto più profonda e personale: “da quando ho detto sì alla tua chiamata, Dio, non sono più io; sono un'altra persona, ho un altro nome”.
Ecco, fratelli; se anche noi vogliamo dare seguito alla “chiamata di Dio”, viverla con l’entusiasmo che merita, dobbiamo prima “calarci”, discendere nel nostro Giordano: dobbiamo battezzarci, immergerci cioè nella nostra umanità, fatta di errori, limiti, condizionamenti, paure, gelosie, invidie, rabbie, ostinazioni, perversioni; dobbiamo fare i conti con tutto questo marciume; dobbiamo renderci conto del non fatto, dell'incompiuto, delle occasioni perse, degli errori ripetitivi; dobbiamo in una parola entrare in contatto con tutta la nostra miseria, con il nostro niente di fatto, con tutte le situazioni peccaminose e mortali che rendono asfittica la nostra vita. E soprattutto dobbiamo correre ai ripari: subito, immediatamente. Dobbiamo lavare, lavare e lavare. Dobbiamo tagliare, ripulire, distruggere; dobbiamo ristrutturare completamente la nostra casa, ricreare un habitat degno dell’Amore, del Divino. Perché solo così potremo offrire piena ospitalità allo Spirito di Dio: lo Spirito d’Amore che solo ci può consigliare, confortare, amare, proteggere.
Guai a noi, fratelli, se rifiutassimo di “immergerci”; guai a noi se fossimo convinti di essere delle “brave e giuste persone”, e quindi di non aver bisogno di alcun Giordano; guai a noi, lo ripeto, perché così non arriveremo mai a incontrare e a conoscere l'amore di Dio; non potremo mai sperimentare quell’abbraccio di amore gratuito che Dio riserva a quanti si sottopongono al “lavaggio sacramentale” delle loro colpe. Non possiamo pretenderlo questo amore; non ne abbiamo alcun diritto; è un amore che si ottiene soltanto dando prova d’amore. Dio non è in obbligo con noi, anzi con nessuno. Pretendere di barattare il suo amore con le nostre presunte “opere buone”, equivale solo a dimostrare, una volta di più, la nostra presunzione, la nostra superbia, la nostra arroganza. L’amore, fratelli, non si “contrappone”, non è “conflittuale”, non “pretende” nulla: è solo a servizio, previene, accompagna, si offre, spontaneamente e gratuitamente, come “risposta” alla “chiamata/amore” di Dio!
Ascoltiamola dunque nel silenzio della nostra anima questa chiamata, fratelli: ascoltiamo la Voce dell'Amore che instancabilmente ci sussurra: “Io ti amo. A me vai bene così, coraggio, datti da fare!”. È questa la voce che ci salva; è questa la voce che ci fa rinascere: perché anche così impresentabili come siamo, ci fa sentire comunque amati. E se sappiamo di essere amati, che aspettiamo? Viviamo, purifichiamo, laviamo, cambiamo, rispondiamo, amiamo!
In questa epifania battesimale di Dio, possano tutti sperimentare queste consolanti sensazioni: entrino in noi, nel nostro cuore, diventino vita, tocchino il profondo della nostra anima; risuonino nelle nostre zone d'ombra, nelle zone buie, ferite, abbandonate, rifiutate; diventino, per noi tutti, una musica celestiale confortevole. E infine fidiamoci, fratelli, di questa Voce; rispondiamo sinceramente e fiduciosamente a questa “chiamata”, e incamminiamoci liberi, felici e sicuri per le vie del mondo, là dove Egli ci aspetta. Amen.


martedì 1 gennaio 2013

6 Gennaio 2013 – Epifania del Signore

«Alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» (Mt 2,1-12). Il brano del vangelo di oggi è tratto da Matteo e appartiene a quella serie di racconti riportati da Luca e Matteo sui primi anni di vita di Gesù, denominata appunto “Vangeli dell’infanzia”. Uno giustamente potrebbe chiedersi che cosa rappresentino questi “vangeli dell’infanzia”, se cioè siano un’antologia di fatterelli, di storielle per sprovveduti, di favolette per bambini. Niente di tutto questo. In realtà si tratta di veri e propri trattati teologici, con un pò di storia, ma soprattutto con tanta teologia. Non intendono, cioè, documentare eventi storici, fare una scrupolosa cronistoria di come Gesù abbia vissuto i suoi primi anni, anche se oggi la quasi totalità dei critici è concorde nel riconoscere a queste pagine una certa verità storica. Luca e Matteo si preoccupano piuttosto di spiegare che cosa significhi per l’umanità intera la nascita di Gesù come uomo, il perché della sua venuta su questa terra, i messaggi che ha voluto trasmettere all'uomo attraverso i piccoli avvenimenti della vita terrena del Dio-bambino. E lo fanno a modo loro. In questo senso potremmo infatti cogliere il messaggio della pagina del vangelo di oggi definendolo come “la caduta delle illusioni”.
I singolari personaggi chiamati in causa come involontari artefici di questo rivoluzionario cambio di valori, sono i “Magi”: una presenza imbarazzante, inammissibile, figure considerate sempre in negativo, con disprezzo, dalla Bibbia; basti pensare alla condanna della magia nel Levitico (19,26), ai maghi dell’Esodo diretti antagonisti di Mosè, al famoso Simon mago degli Atti ecc. Il significato del termine “maghi”, in greco, non è peraltro molto accattivante: significa “imbroglioni, ciarlatani, coloro che predicono menzogne”.
Perché allora Matteo, unico tra tutti gli evangelisti, introduce questi “ceffi” al cospetto del Dio Bambino? Come mai da “maghi” diventano “Magi”? Come mai da truffatori e impostori vengono qui trasformati in persone rispettabilissime, studiosi, cercatori della verità, Re di popoli, con i nomi altisonanti di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre?
È chiaro che la loro storia è proposta qui soprattutto per l'universalità del suo significato simbolico. Il loro apparire segna infatti l’inesorabile tramonto di quella antichissima illusione, che fino ad allora costituiva la certezza e il vanto del popolo ebraico: Dio non è più una loro esclusiva. La prova? Ci viene dal significato stesso dei doni che i Magi portano a Gesù. Doni che non sono assolutamente casuali.
Il primo è l’oro: un dono regale, un dono di grande rilievo, riservato ad un eminente personaggio (1Re 9,11.28), in quanto espressione di potenza e di regalità. Un dono degno di Dio. Ma in questo caso, e qui sta la novità assoluta, coloro che offrono questo metallo prezioso al Re Gesù, riconoscendolo quindi come Sovrano dei popoli, non sono gli ebrei, i giudei, coloro che avrebbero dovuto accoglierlo, riconoscerlo come Messia, acclamarlo; sono al contrario dei pagani, anzi dei maghi, degli odiati, eretici sapientoni, gente della peggior specie: e sono proprio loro che, venuti da lontano, lo riconoscono e lo adorano come re dell’universo. Si avvera cioè quello che Gesù stesso avrà modo di confermare: “Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt 8,11). Questa è la caduta della prima illusione: Dio non è più il re esclusivo degli ebrei, ma di tutti quelli che lo riconoscono e lo accolgono.
Il secondo dono è l’incenso. L’incenso era l’elemento specifico dell’uso liturgico, utilizzato soprattutto nei momenti più importanti e nelle offerte di ringraziamento (Lv 2,1-2; 1Sam 2,28). Ma cosa succede questa volta? Non sono più i puri sacerdoti del tempio, quella casta di ebrei purosangue che unici, nel culto, potevano rivolgersi alla divinità; ora, ad offrire incenso, sono dei pagani, dei maghi infedeli. È la fine della seconda illusione: è finito cioè il tempo del popolo “eletto”, Dio non è più privilegio esclusivo di Israele, popolo sacerdotale per eccellenza: Dio è di tutti gli uomini, di tutta l'umanità.
Il terzo dono è la mirra. La mirra è una resina che ha una fragranza molto intensa, un profumo penetrante; è il segno dell’amore coniugale, il profumo con cui l’innamorata conquista il suo amato: “Ho profumato il mio giaciglio di mirra” leggiamo in Pr 7,17. Ma anche in questo caso, chi è che offre al suo innamorato la mirra, segno di intimità, di amore? Non è più Israele il popolo eletto, la sposa fedele di Jahweh, ma sono dei pagani, dei lontani da Dio, gente che appartiene a popoli condannati dagli stessi ebrei. E cade la terza illusione: viene meno la certezza di un Dio-sposo, si spezza l'indissolubilità di quel vincolo di fedeltà coniugale tra Dio e il suo popolo: Dio cioè non ama più soltanto Israele, il popolo eletto; Dio ama tutti i popoli, di ogni razza e nazione.
L’arrivo dei Magi, dunque, sancisce la fine delle più forti, delle più grandi illusioni di Israele: illusioni legate alla certezza di essere l’unico, il “prescelto”, il solo popolo “di Dio”. Una constatazione veramente sconvolgente per una cultura improntata ad un rigido monoteismo. La fine di una mentalità religiosa elitaria.
Beh, fratelli, penso che anche per noi, uno dei momenti più difficili da superare nella nostra vita, coincida proprio con la caduta delle nostre illusioni più radicate. La realtà e la verità purtroppo sono sempre difficili da accettare, da accogliere, da sentire e da vivere. Lo è per tutti. Sembra un gioco di parole, ma l’illusione, quando cade, crea sempre grande delusione. Solo la disillusione ci permette di vedere la realtà per quello che è.
Quando ci imbattiamo in un aspetto della vita che ci è difficile far nostro, da accettare, inconsciamente noi, quasi per proteggerci, ci rifugiamo nella illusione; ci costruiamo cioè una protezione fittizia che ci tranquillizzi, che ci difenda da quella realtà che noi riteniamo pericolosa e dolorosa. Chiudiamo gli occhi, non vogliamo vedere la realtà: magari tutti gli altri la vedranno anche, ma noi no.
L’illusione è la nostra sicurezza, ad essa ci attacchiamo visceralmente; per essa accettiamo qualunque compromesso, facciamo di tutto perché non cada. È una fortezza, un muro che ci protegge, un porto che ci tranquillizza.
È quindi inevitabile che nel momento stesso in cui essa cade, qualcosa di profondo si spezza dentro di noi. Rimaniamo ammutoliti, attoniti, senza fiato. Mai avremmo potuto anche solo pensare che ciò potesse accadere. Perché il punto è proprio questo: ogni illusione spezzata ci costringe a cambiare “credo”, a rivedere i cardini della nostra fede, a riformulare, ricreare il nostro pantheon di certezze. Sono momenti che richiedono tanta fede; fede autentica, e non solo: autentica umiltà, autentica volontà, autentico carattere: con le illusioni se ne vanno, oltre alle nostre certezze, anche i nostri entusiasmi, i nostri presunti traguardi vittoriosi; quindi bisogna ripartire da zero.
Quando cade una nostra illusione, fratelli, pur se fittizia e irreale, non è mai un momento liberante, un’occasione di vittoria, ma sempre una circostanza dolorosa, difficile. Ci accorgiamo improvvisamente di aver vissuto, lungamente e convintamente, in funzione di qualcosa di aleatorio, di irreale, di inesistente. Dobbiamo riacquistare la vista, l’equilibrio, la vita: in altre parole dobbiamo rientrare in noi stessi, dobbiamo “cambiare” rotta, dobbiamo “convertire” il nostro senso di marcia; perché solo così la “verità ci farà liberi” (Gv 8,32), solo così potremo guardare il domani con rinnovata fiducia. Detto così è facile: invece, fratelli miei, com’è difficile il cammino nella verità! Ci vuole tanto tempo e fatica per ricostruire ciò che in un solo istante ci è crollato addosso. La delusione è sempre dietro l'angolo. Le basta poco per ghermirci, anche una piccola notizia. Come è successo a Gerusalemme: dice Matteo che “rimane turbata” (2,3), terrorizzata, nel sentire dai Magi che il Messia è venuto, e lo ha fatto in maniera diametralmente opposta da come lei se l'aspettava. Erode va fuori di testa quando gli viene sottratta l’illusione di essere lui il vero e unico re. E gli ebrei poi condanneranno a morte Gesù, proprio perché aveva mandato in frantumi le loro certezze religiose.
Guardiamo allora con fiducia soltanto a Dio, fratelli: perché è Lui l’unica realtà immutabile, incrollabile; il resto è solo illusione. Amiamo questa Realtà, attacchiamoci ad essa, perché amare ciò che non esiste (l’illusione) non serve a nulla. Viviamo in questa Realtà, perché vivere in ciò che non esiste, è non vivere. E se venisse a cadere una nostra illusione, ringraziamo Dio per averci scosso da quel fuoco fatuo, portandoci più vicino a Lui, vero fuoco d’amore autentico. Amen.