mercoledì 27 febbraio 2013

3 Marzo 2013 – III Domenica di Quaresima

«Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,1-9).
Nel vangelo di questa domenica Gesù, nella sua predicazione, fa riferimento a due fatti di cronaca straordinari avvenuti in quel tempo: l’uccisione da parte di Pilato di una moltitudine di giudei che si erano recati a Gerusalemme per offrire i loro sacrifici nel tempio, e la morte accidentale di altre persone coinvolte nel crollo della “torre di Siloe”. I commenti della gente a tali notizie rivelano la mentalità predominante di allora, secondo cui le disgrazie, le malattie, la morte, sarebbero la giusta punizione per delle colpe commesse o direttamente dai malcapitati oppure dai loro antenati. Ebbene, Gesù sconfessa decisamente queste convinzioni: “Quelli che sono morti non erano assolutamente più colpevoli di quanto non lo siate voi!”. Come a dire: “Non è vero che quei poveretti sono morti per espiare le loro colpe personali, né tantomeno quelle dei loro antenati; voi, poi, che state bene e siete illesi, non crediate di essere così fortunati solo perché pensate di essere più giusti di loro”. In altre parole la sfortuna, le disgrazie, le malattie, i lutti, insomma tutti gli eventi negativi che la vita ci riserva, non dipendono in alcun modo dalla volontà di Dio, come castigo per la nostra condotta morale. Non è questo che Dio vuole; Dio non ce l’ha in modo particolare con noi, non ci ha preso di mira, non si comporta come se non ne potesse più di noi. Bestemmiamo gravemente quando ci lasciamo andare ad esclamazioni del genere: “Ma che male ho fatto io perché Dio mi castighi in questo modo?”. È una esclamazione sbagliata: eppure, fratelli, quante volte ci siamo espressi e continuiamo ad esprimerci in questo modo!
Gesù oggi ci ricorda che la vita ha una sua logica, una sua libertà, una sua verità.
Non è più un mistero, per esempio, che le stesse malattie sono legate in qualche modo al genere di vita che conduciamo, ai nostri vissuti profondi, ai nostri schemi mentali, ai nostri eccessi: cancro, leucemia, sclerosi, allergie, intolleranze, malattie della pelle e tanto altro ancora, trovano terreno fertile proprio nel modo in cui ci poniamo di fronte alla vita sia materiale che morale. Non sono mai una punizione divina, non sono un “virus” che si prende a caso, un contagio che “se siamo bravi” non ci tocca. Le disgrazie avvengono sempre per una somma di concause, di cui il più delle volte siamo noi stessi l’origine scatenante.
Non è Dio quindi che condiziona la nostra vita. Siamo noi che ce la gestiamo come vogliamo. Siamo noi che decidiamo liberamente di fare o non fare certe cose. Egli, nel suo immenso amore, ci lascia completamente liberi nelle nostre scelte. Di conseguenza ognuno riceverà, quando sarà ora, il premio o il castigo che ha meritato. Ognuno è l’artefice della propria felicità o infelicità: in completa libertà. Dio non sta dietro l’angolo con il pungolo del castigo, pronto ad intervenire ad ogni nostra mossa negativa. Egli al contrario è il padre amoroso che ci segue con amore, disponibile a darci una mano solo se noi glielo chiediamo.
Per cui dell’azione di Dio, ai nostri ragazzi, non dobbiamo inculcare soltanto l’aspetto negativo “errore = castigo; colpa = punizione”, descrivendo Dio come un arcigno giudice, attento e vigile per reprimere anche il più piccolo sgarro: dobbiamo invece preoccuparci di inculcare loro la visione di un Dio che è soprattutto Amore; perché Lui questo solo ci dimostra; Lui ci ama veramente, e chi ama non si diverte a punire, a fare del male, a procurare dolori materiali o morali a quanti ama. Il punto è proprio questo: che noi, al suo amore, dobbiamo rispondere con altrettanto amore; e se noi ricambiamo veramente il suo amore, ci sarà impossibile rinnegarlo, umiliarlo, mancargli di rispetto, addolorarlo conducendo una vita dissoluta.
Con le parole di oggi Gesù, dunque, annulla definitivamente la visione di un Dio vendicatore, sterminatore dei peccatori.
“Pensate che quelli [i morti] fossero più peccatori di voi? No vi dico”.
Immediatamente dopo tale affermazione, però, Gesù sembra affermare il suo contrario: “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”. Cioè: “se non cambierete vita, farete tutti la stessa fine di quei Giudei”. Cosa vuol dire Gesù con queste parole? Per caso si rimangia tutto quello che aveva detto prima? È una frase intimidatoria? Vuol dire che Dio ci punirà comunque? Assolutamente no: Dio non punisce mai di sua iniziativa. Vuol semplicemente dire: “Fate attenzione, perché di tutto quello che fate, delle scelte operate, siete solo voi i responsabili, e solo voi ne dovrete giustamente sopportare le conseguenze, le ripercussioni; ricordatevi che se fate questo, in cambio avrete quello! Se vivete nel male e non “cambiate vita”, accadrà anche a voi una “morte” simile: non è una condanna la sua; è semplicemente un avvertimento. Vuol ricordarci molto paternamente che siamo noi gli unici responsabili di noi stessi. La vita è nelle nostre mani e nelle nostre scelte. Pertanto, se tutto dipende da noi, dobbiamo stare molto accorti, se abbiamo sbagliato, dobbiamo correre ai ripari. In altre parole dobbiamo “convertirci”.
“Convertirsi”, come ho detto all’inizio della quaresima, vuol dire cambiare direzione (shub in ebraico indica proprio un cambio radicale di rotta): cioè, se stiamo andando in una direzione, e ci accorgiamo che è sbagliata, dobbiamo cambiare strada: dobbiamo convertirci.
Molti dei nostri comportamenti ci portano decisamente a morire dentro... alla superficialità... ad allontanarci sempre più dal nostro cuore e da noi stessi. Il fatto grave è che non ce ne rendiamo conto; e quando poi succede il “colpaccio”, quando il nostro comportamento ci si ritorce contro, ci meravigliamo, non accettiamo la situazione: “Com'è possibile? Come mai è successo questo proprio a me?”. Beh, fratelli, il motivo c’è; solo che noi non l’abbiamo visto o non abbiamo voluto vederlo. Perché allora rimandare ancora? Convertiamoci finché siamo in tempo: convertiamoci, svegliamoci, accorgiamoci, perché verrà il giorno in cui sarà troppo tardi. Non sottovalutiamo i “segni”; non giustifichiamo sempre e comunque i nostri comportamenti. Non perdiamo la nostra lucidità, non offuschiamo la nostra sensibilità.
Non prendiamocela con Dio nei momenti di dolore e di sofferenza: come se Lui non sapesse fare il suo mestiere di Dio! Convertiamoci piuttosto: perché “convertirsi” vuol dire aprire gli occhi, smettere di dormire, accorgersi, farsi aiutare, riconoscere, rendersi conto, vedere ciò che dobbiamo vedere; un atteggiamento che all'inizio può riuscirci molto difficile. Ma solo se vediamo, se riconosciamo, se evitiamo, riusciremo a troncare certe spirali che ci portano a morire dentro e fuori.
“Responsabilità” (da respondeo, rispondere, risposta) vuol dire che noi “rispondiamo” in prima persona della nostra vita, che non deleghiamo, che non scarichiamo le colpe della nostra vita sulla società, sugli altri, sul prossimo, sul mondo, che è “cattivo” e ce l'ha con noi. “Responsabilità” significa accettare che siamo noi al comando dell'auto della nostra vita; e che essa va esattamente nella direzione che noi le diamo.
Il riferimento all’albero del fico infruttuoso, infine, conferma e completa ciò che Gesù vuole insegnarci. Nei vigneti della Palestina questi alberi da frutto sono molto comuni: si piantano, si lasciano crescere; non hanno bisogno di cure particolari; dopo tre anni, iniziano a portare i primi frutti. Ma l'albero della parabola, che ha già sei anni, non ha ancora portato alcun frutto. Per questo il vignaiolo chiede al padrone di pazientare, di consentire quei trattamenti “speciali” che normalmente non si fanno; tenta insomma un'ultima possibilità.
L’allusione è chiara: quel fico della parabola siamo noi. Noi possiamo portare frutto; noi possiamo vivere in maniera feconda, possiamo essere felici, possiamo svilupparci e realizzarci. Noi possiamo farlo tranquillamente: come il fico possiamo crescere e portare frutto. Ma al momento siamo una nullità. Nella parabola, il vignaiolo si prende cura in maniera speciale di questo fico: in questo senso, la vita offre anche a noi dei “trattamenti” speciali, delle occasioni particolari, ci fa incontrare situazioni uniche che ci maturano e ci portano ad essere fertili.
È la stessa vita infatti che in modi diversi, e in certi momenti, offre a tutti la possibilità di portare il loro frutto. Pensiamoci: tutti noi abbiamo avuto degli incontri determinanti; tutti noi abbiamo incontrato persone che ci hanno fatto respirare un'altra aria. Tutti noi abbiamo incrociato qualcuno che ci diceva: “Vieni qui; provaci; dai che ce la puoi fare!”. Tutti noi, ad esempio, abbiamo vissuto esperienze - come la morte di un familiare, di una persona cara; un momento difficile di vita; una sofferenza interiore; una malattia, ecc. - che ci hanno ispirato a cambiare stile di vita. Ebbene: noi cos'abbiamo fatto in tali situazioni? Le abbiamo accolte, oppure come al nostro solito le abbiamo accantonate, disattese, rimandate? Una cosa, fratelli, dobbiamo una buona volta chiarire in noi: che a forza di rinunciare, di posticipare, di rimandare, di tralasciare, di abbandonare, di evitare, arriveremo prima o poi al punto di “non ritorno”; verrà cioè un giorno in cui non potremo più appellarci al “domani”, non potremo fare più nulla: il nostro albero verrà inesorabilmente tagliato, perché dentro è già morto, arido, secco. È così, fratelli: se rifiutiamo qualunque “linfa”, qualunque proposta di Vita, verrà un momento in cui saremo talmente vuoti, talmente interiormente rinsecchiti, così morti nell'anima, così incapaci di guardarci dentro, che qualunque disperato tentativo di rianimazione risulterà vano. Nessuna condanna, nessuna vendetta, nessun castigo da parte di Dio: i responsabili siamo soltanto noi e le nostre scelte: troppo lente, troppo tardive, assolutamente inefficaci.
Che questa nostra quaresima, allora, sia una quaresima straordinaria, fratelli miei: in cui riscoprirci, in cui convertirci, da cui ripartire per raggiungere il Dio di Gesù. Amen.
 

mercoledì 20 febbraio 2013

24 Febbraio 2013 – II Domenica di Quaresima

«Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (Lc 9,28-36).
I discepoli non possono assolutamente accettare le parole che Gesù, poco prima del vangelo di oggi, aveva loro detto: “Amici miei, guardate che mi prenderanno e mi uccideranno. E a farlo saranno proprio gli scribi, i sommi sacerdoti e gli anziani. Ma non preoccupatevi perché io, poi, risorgerò”. Non possono condividere una tale prospettiva, proprio perché le loro aspettative si concentrano su un Gesù-Messia potente, trionfale, giusto, liberatore.
Preannunciare la propria morte, significa per loro evocare lo spettro della fine di ogni aspettativa riposta in lui, decretare il fallimento totale del suo programma.
Di fronte a tanto smarrimento cosa fa Gesù? Prende Pietro, Giacomo e Giovanni, e li porta in un luogo appartato, su un alto monte. Gesù non è nuovo a tale esperienza: “appartato” in un monte alto, c'era già stato nell'episodio delle tentazioni di domenica scorsa: allora ad isolarlo era stato satana, per tentarlo; ora invece la tentazione gli viene direttamente dai discepoli, che non lo capiscono.
Gesù quindi, volendo smontare qualunque tipo di “tentazione”, approfitta appunto dell’intimità di un luogo solitario e impervio, per chiarire un po’ le idee a questi suoi collaboratori più stretti. E qui essi hanno una visione straordinaria: Gesù è in compagnia di Mosè ed Elia, le due personalità della Scrittura che ogni ebreo di allora considerava come figure di “riferimento” per il futuro Messia. E come se non bastasse, discorrendo familiarmente con Gesù, essi dimostrano di smontare questo loro convincimento, riconoscendo invece a lui importanza e superiorità.
I tre ovviamente rimangono colpiti, rapiti; al punto che Pietro esclama: “Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè, una per Elia”. Nella foga dell’entusiasmo, Pietro inconsciamente ribadisce il suo convincimento: egli infatti pone Mosè e non a Gesù al centro del trio, posizione riservata di diritto alla figura più importante. Egli rimane cioè della sua idea: “Gesù, tu devi essere come Mosè, è lui il grande riferimento”. Ma la voce di Dio scioglie ogni possibilità di dubbio. Gesù non è il Messia storico, quello tanto atteso da Israele. Gesù non è così: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!”.
È Gesù che va ascoltato e non Mosè o Elia, grandi personaggi certo, ma niente in confronto a Lui. È Gesù il criterio di discernimento: Mosè, Elia, Legge e Profeti hanno un senso solo se passano attraverso Gesù. Tutto ciò che non è in sintonia con il messaggio del Cristo non ha alcun valore per la vita del credente.
Gesù in questo modo demolisce le aspettative dei discepoli e della gente: Lui non è come lo volevano; non è il Messia trionfale e forte; Gesù è sì il Messia, ma sofferente e debole. Egli non sterminerà gli operatori di iniquità, non ha vendette da sanare o conquiste da ristabilire; Gesù sarà solo se stesso, sarà Gesù e basta! Non ha paura di esser se stesso, anche se ne conosce bene il costo: l'impopolarità. Ma il beneficio che egli introduce con questo comportamento è la conquista di autenticità, l'essere felici di ciò che si è, la forza di vivere la propria missione dovunque porti, perché questa in definitiva è la nostra chiamata: è di essere noi stessi, di vivere noi stessi; perché è questo che ci dà una vitalità e una forza impagabili. È questo il nostro grande compito. Dobbiamo essere, come Gesù, noi stessi; dobbiamo semplicemente vivere come Lui la nostra parentesi terrena, la nostra vocazione, la nostra missione.
È questo l’unico criterio della nostra realizzazione personale: vivere la nostra “originalità”.
Sì, perché noi siamo unici. È per questo che esistiamo. Se non fosse così non saremmo a questo mondo, perché in tal caso il nostro esserci non avrebbe alcun senso. Le fotocopie umane non esistono; Dio fa nascere solo pezzi unici, il resto non serve.
Purtroppo però la maggior parte di noi tende a conformarsi agli altri, a fare e a pensare come tutti. Il pretesto è comprensibile anche se non condivisibile: “Solo se mi comporto come tutti gli altri sarò rispettato e accettato; in caso contrario sarò emarginato, estromesso dal gruppo”.
È il classico comportamento degli insicuri, dei bambini. Un bambino non può permettersi di essere cacciato dalla propria famiglia, dalla propria mamma: ne morirebbe. Quindi non gli rimane che adeguarsi. Ma noi, fratelli,non siamo più bambini. Siamo grandi, siamo adulti e siamo qui in questo mondo per vivere convintamente il nostro “mandato”, per compiere la nostra missione e far emergere la nostra originalità, la nostra unicità: sul modello di Gesù, che fu davvero unico, diverso da tutti, “fuori” da ogni schema umano: perché chi segue Dio, non segue nient’altro.
Gesù dunque, sul monte della trasfigurazione, prende ufficialmente coscienza di avere una missione grande: più grande di quelle di Mosè e di Elia. Gesù capisce di avere la forza di Mosè e l'ardore di Elia; sente di non essere come loro, pur avendo qualcosa in comune come loro.
I Vangeli pongono tutti la trasfigurazione tra il primo e il secondo annuncio della passione. Non è un caso. Chiediamoci allora: “Perché Gesù è andato comunque a Gerusalemme?”. Egli sapeva benissimo cosa lo aspettava lì; se rimaneva in Galilea, invece, non avrebbe rischiato nulla. Perché “ha dovuto” andare a Gerusalemme? La risposta è una soltanto: “Era la sua missione. Lui doveva andare a Gerusalemme perché doveva annunciare proprio lì, nel centro religioso del suo tempo, quel Dio diverso che Lui viveva dentro di sé”. Ha seguito la sua Voce, la sua “vocazione”, ed è andato lì dove doveva andare.
Ora, di fronte alla lettura e alla meditazione del vangelo di oggi, noi possiamo porci e reagire in tanti modi. Il primo: “Ma perché a me? Ma cos'ho fatto per trovarmi coinvolto in questa storia di scelta, di vocazione, di elezione, per cui devo trasfigurarmi mio malgrado? Mi rifiuto!”
Oppure: “Cosa devo imparare da questa pagina? Cosa vuol dirmi Dio, la Vita, attraverso la “trasfigurazione” di Gesù?”. Beh, questa volta andiamo meglio, È già una buona domanda quella che ci facciamo, perché nulla è privo di senso e di significato: tutto è un messaggio per noi.
Sicuramente però ci aiuta molto di più, chiederci: “Ma questa prova, questa sfida, questa trasfigurazione che devo affrontare, riferita alla mia persona, che scopo finale ha? Che cosa pretende Dio da me? per quale motivo devo scombussolare tanto la tranquillità della mia esistenza? Perché una cosa è chiara: Egli mi sta in qualche modo “allenando”, mi sta affinando; le prove della vita, gli ostacoli quotidiani da superare, non sono altro che “esercizi” che servono a plasmarmi, a rendermi “unico” davanti a Lui e rispondere in maniera “unica” alla sua chiamata». In quest’ottica, allora, la nostra vita, tutto ciò che in essa ci succede, non è più questione di fortuna o di sfortuna, ma è un modo amoroso con cui Egli cerca di aiutarmi, con cui mi allena a tirar fuori le mie capacità, la mia personalità, ciò che realmente sono.
Quando arriveremo a capire che tutto ciò che è capitato nella nostra vita ci riguarda in prima persona, che tutto doveva essere così, e che è bene sia stato così, e che non poteva essere altrimenti, allora la nostra vita diventerà luminosa, chiara, tutto verrà integrato, compreso; perché capiremo finalmente che tutto viene da Dio: il bene e il male.
Allora soffrire l'ingiustizia diventa un allenamento per sviluppare la verità. Soffrire l'oppressione diventa un allenamento per sviluppare la libertà. Soffrire la maldicenza e il giudizio spietato degli altri, diventa allenamento per sviluppare l'umiltà. Soffrire di solitudine diventa un allenamento per sviluppare la comunione e la condivisione. Soffrire infine di paura diventa un allenamento per sviluppare la fede in Dio, l'abbandono e la totale fiducia in Lui. Allora tutto ciò che ci succede acquista un suo significato, un senso per la nostra vita. Tutto ci riguarda, tutto serve per la nostra missione terrena, in vista della vera “trasfigurazione” finale, nella contemplazione di Dio faccia a faccia.
Dobbiamo allora smetterla di lamentarci, fratelli; dobbiamo invece ringraziare Dio per tutto quello che la sua Provvidenza ci riserva in questa Vita.
Molti di noi, poi, sono convinti che la felicità sia impossibile in questa vita; alcuni si sentono addirittura in colpa se capita talvolta di essere felici; altri invece, senza accorgersene, arrivano perfino a sabotare la propria vita pur di non essere felici: sono degli eterni scontenti, per definizione; devono trovare sempre e comunque qualcosa che non va bene, qualche motivo per dolersene. Sbagliano di grosso, fratelli: perché tutti abbiamo il diritto e il dovere di essere felici. Si tratta solo di scegliere quale tipologia di felicità. E la trasfigurazione ce lo insegna: in essa, cioè, Gesù ha la totale e immediata visione di sé: Gesù vede chiaramente dentro di sé, ha l’esatta percezione della propria missione. Ecco, la felicità è tutta qui: vedere dentro di noi, vedere la vera faccia di noi stessi, delle cose, del presente, del futuro; non fermarsi tanto all’involucro esteriore, all’apparenza, ma a quello che c’è all’interno, all'essenza. Trasfigurazione è quando riusciamo a percepiamo la presenza di Dio oltre i limiti e della nostra umana debolezza; quando capiamo finalmente chi siamo e in cosa consiste la nostra vita. È andare all'essenza, al centro delle cose; è la visione della realtà. Dobbiamo andare oltre la “nube”, ossia la quotidianità, la forma, la materia, che ci nascondono l’essenza della vita: dobbiamo insistere, perché prima o poi uno sprazzo di luce la penetra, e noi finalmente possiamo vederla.
Nella vita un fiore sbocciato, un tramonto sul mare, uno stormire di fronde, un battito d’ali, il sorriso di un bimbo, possono non dirci nulla di particolare: ma se noi guardiamo bene, entriamo dentro, allora possiamo veramente emozionarci per ciò che vediamo. Non siamo matti, né infantili o femminucce: è trasfigurazione. Così, se ci capita di piangere a dirotto, senza parole, perché qualcuno ci ha detto: “Ti amo!”, oppure: “Mi sposi?”, oppure: “Sono incinta, aspettiamo un figlio”, tranquilli, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di prendere in braccio nostro figlio appena nato e di guardarlo e di chiederci: “Ma viene proprio da me? L'ho fatto io?” e di essere incredulo e di non volerci staccare da lui, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di piangere solo perché eravamo felici e per nessun altro motivo, non meravigliamoci, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di innamorarci, di perdere la testa per qualcuno, di provare emozioni che ci fanno battere il cuore, questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di appassionarci per la musica, per la poesia, per la verità, e vogliamo vivere solo per loro, forse il mondo ci dirà che siamo “matti, scemi, fuori di testa”, ma anche questa è trasfigurazione.
Se ci è capitato di essere in mezzo al caos più totale, di non poter far più nulla per qualcuno che sta morendo, ma di sentirci comunque sereni nelle mani di Dio e della Vita, questa è trasfigurazione, la felicità del cuore. Se ci è capitato un fatto che ci ha cambiato la vita, che ci ha salvato, al punto che anche volendolo, non riusciamo più ad essere quelli di prima, perché intimamente toccati, ebbene questa è trasfigurazione. Se ci è capitato di essere attaccati e di soffrire per ciò che crediamo e per le nostre idee ma di non essere scesi a compromessi, di non aver patteggiato la nostra autenticità, questa è trasfigurazione, perché possiamo guardarci allo specchio con la dignità di un uomo e il coraggio di un guerriero.
Sul Tabor, il monte della Trasfigurazione, ci viene comunicato l'essenziale; che è: “L’uomo ha il diritto-dovere di essere felice”; di una felicità che non è avere, ma vivere la luce, vivere la missione, la vita, i carismi: tutte cose che sono già dentro di noi, ma che aspettano di essere “trasfigurate”. Dobbiamo essere sempre ottimisti; non dobbiamo fare come il pessimista che si ferma a guardare la storia che passa; noi dobbiamo “costruire” la storia; non dobbiamo vedere in ogni opportunità offerta, solo le difficoltà; al contrario dobbiamo vedere nuove opportunità in ogni difficoltà che incontriamo nella vita. Anche questa è trasfigurazione. Un giorno un ciliegio disse ad un mandorlo: “Parlami di Dio!”. E il mandorlo immediatamente fiorì! Dio è presente in tutti noi, fratelli; chiede solo di essere rivelato. Chiede insomma la nostra “trasfigurazione”. Amen.
 

giovedì 14 febbraio 2013

17 Febbraio 2013 – I Domenica di Quaresima

«Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo» (Lc 4,1-13).
Con il mercoledì delle ceneri abbiamo iniziato il tempo di quaresima, i quaranta giorni, cioè, che ci conducono alla Pasqua. Perché proprio quaranta giorni? Perché questo è nella Scrittura il periodo di tempo necessario per il raggiungimento di un obiettivo, di una trasformazione, di un passaggio da una situazione ad un’altra. È chiaro allora che per noi cristiani la quaresima, più che i 40 giorni che precedono la Pasqua, deve essere un sistema, uno stile di vita; per noi, “quaresima”, è quel tempo che ci serve per rialzarci, per fortificarci di fronte ad una situazione spirituale un po’ compromessa; è quel tempo in cui camminiamo, cresciamo, fatichiamo, piangiamo, lavoriamo; è il tempo di “conversione”, del ritornare sui nostri passi e del rimetterci nella giusta carreggiata facendo una inversione di marcia; è quel tempo in cui dobbiamo riconoscerci deboli, inadatti, insufficienti, non potendo prescindere da Dio. Noi spesso pecchiamo di una autostima eccessiva, ci consideriamo immuni da ogni debolezza, tetragono a qualunque tentazione: ma nel cammino della vita la verità è un’altra. Tutti dobbiamo fare i conti con le nostre debolezze, con il nostro egoismo, con la nostra superbia, tutti dobbiamo affrontare i nostri “mostri”; tutti insomma dobbiamo fare il nostro percorso quaresimale, se vogliamo ricongiungerci a Cristo nostra Pasqua. Ricordiamocelo, fratelli: chi non compie il proprio “esodo”, chi non oltrepassa il suo Mar Rosso, non potrà neppure incamminarsi verso la libertà; chi non percorre il deserto della propria quaresima non potrà mai raggiungere la Terra Promessa, le acque sorgive e limpide della Pasqua.
Anche Gesù ha percorso il cammino della quaresima, del deserto. E il vangelo di oggi, parlando appunto delle tentazioni da Lui subite, ce ne chiarisce le modalità, le caratteristiche, la tempistica. Il maligno attacca proprio in quei momenti in cui ci sentiamo più forti, più difesi, più “tranquilli”, come è successo a Gesù: Egli infatti ha appena ricevuto il battesimo, è il momento in cui si sente più amato dal Padre, in cui è “pieno di Spirito Santo”, e proprio allora arriva la tentazione di Satana: subdolo, calcolatore, sempre all’erta, sempre pronto all’azione. L’importante è non arrendersi mai, non aver paura; dobbiamo esorcizzarle queste “tentazioni”, fratelli; dobbiamo guadarle in faccia, cercare di capirne il contesto, le movenze. Se non possiamo evitarle, dobbiamo almeno combatterle a fronte alta, senza tentennamenti o indolenze. La vita, il mondo in cui viviamo, la società, è il nostro “deserto” naturale, il luogo della tentazione, la zona operativa del “serpente tentatore”, il luogo in cui veniamo messi alla prova. “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant'anni nel deserto, per umiliarti e per metterti alla prova, per sapere quello che tu avevi nel cuore” (Dt 8,2). Ecco questo è il punto: quaresima, deserto, tentazioni, non fanno altro che metterci di fronte alla nostra realtà, alla nostra coscienza, all’autentica nostra essenza. Nudi, senza fronzoli, maschere, infrastrutture di comodo, abbellimenti ad uso esterno.
In greco “tentare” (peirzein), significa infatti “provare”, “verificare”. La tentazione ci verifica, ci illumina, fa luce, ci rivela impietosamente la verità su di noi, su come siamo, su cosa abbiamo veramente dentro il nostro cuore; ci dice, insomma, chi siamo noi di fronte a Dio e al prossimo.
Tutti i grandi profeti e i grandi personaggi biblici sono stati tentati; come pure tutti i santi di questo mondo: la tentazione non è quindi un incoraggiamento a fare del male, ma la verifica delle nostre forze, l’autenticazione della nostra vera identità, della nostra personalità.
Una certa morale restrittiva del passato ci ordinava: “Attenzione, dovete evitare assolutamente le tentazioni!”. E così la gente si sentiva in colpa anche solo se veniva sfiorata dal pensare ad un'altra donna, se provava qualche naturale impulso cattivo di odio o di rabbia. “Sono cose gravi che non si devono fare”, ci diceva, “e guai a chi le fa!”. Ma le tentazioni, fratelli, non dipendono da noi, non le possiamo evitare. L’importante è non aderirvi. Del resto tutta la vita è una tentazione: è un banco di prova, un tester, che ci rivela impietosamente la tenuta delle nostre convinzioni, la profondità delle nostre radici; ci segnala i valori sui quali possiamo contare con sicurezza; ci documenta sulla sincerità e autenticità della nostra fede.
Le tentazioni pertanto devono tenerci umili, devono fugare tutte quelle velleità del nostro ego, basate sulla eccessiva considerazione di noi stessi. Il vero male è la nostra innata superbia, non le tentazioni. Assecondarle, criticando gli altri con supponenza, sparando giudizi velenosi, facendo paragoni antipatici, significa assecondare il nostro orgoglio, significa minare alla base non solo la nostra fede, ma anche quella di chi ci sta vicino. Sono situazioni con cui dobbiamo confrontarci quotidianamente. Ci sentiamo delusi dai nostri preti, dai nostri superiori, in famiglia? Non ci sentiamo valorizzati, considerati, compresi? Immediatamente una voce ci suggerisce: “A che serve credere, a che serve frequentare questa comunità, a che serve darsi da fare, essere fedele, se poi chi ci dovrebbe insegnare, chi dovrebbe guidarci con il buon esempio, chi dovrebbe aiutarci, confortarci, capirci, si comporta così male con noi?” Oppure: “Quel prete non ci piace; inutile andare in quella chiesa; non ci andiamo più e basta! Preferiamo, per un maggior profitto spirituale, andare in quell’altra Chiesa, frequentare quell’altra parrocchia; perché lì troviamo tanta pace, c’è un prete veramente in gamba!”. Eccola la tentazione: è veramente il “profitto spirituale” che ci fa muovere, o il nostro orgoglio “ferito”? Perché, fratelli, a monte di tutto, c’è sempre il nostro “ego”: noi valiamo, siamo i più preparati, potremmo fare cose eccelse, potremmo far resuscitare una comunità “moribonda”, solo se “qualcuno” ci desse credito! e ci convinciamo, ci illudiamo, ci caschiamo dentro in pieno. Vale la pena allora, nel nostro “deserto”, domandarci sinceramente: “tutta qui la grande fede in Dio che mi pavoneggio di ostentare davanti a tutti”? Inganno: è bastata una semplice contrarietà per farci scappare, un piccolo disappunto per farci abbandonare tutto; è bastato che uno non ci piacesse, che uno non facesse come noi avremmo voluto, per abbandonare la nostra vocazione, la nostra missione, piantare tutto. Che fine hanno fatto la preghiera, la sopportazione, la sofferenza, la carità? Un bagno di umiltà ci aspetta, fratelli: percorriamo con grande compostezza e obiettività il nostro “deserto” quaresimale! Dicevamo di avere una solida fede, ma poi si è rivelata una montatura a beneficio degli altri: non fede profonda, convinta, ma orgoglio travestito da religiosità. Ecco, fratelli; la “quaresima” della vita, con le sue prove, con le sue tentazioni, deve farci capire cosa abbiamo veramente dentro di noi: perché il tempo passa, lo scorrere vertiginoso dei giorni non si arresta: è necessario quindi percorrere ancora una volta questo nostro cammino quaresimale. Non possiamo perdere altro tempo. Dobbiamo agire.
Il vangelo dice che Gesù fu spinto nel deserto e non mangiò in quei 40 giorni: Gesù dunque è spinto dalla Spirito nel “deserto”. Perché? Perché nel deserto si è soli, non c'è nessuno e niente altro. Nel deserto siamo solo noi, di fronte a noi stessi, con la nostra coscienza, con ciò che siamo veramente. Ed è proprio lì che dobbiamo riprendere la nostra vita in mano, è lì che dobbiamo fortificare la nostra fede, le nostre decisioni. Come? “Digiunando”.
Purtroppo oggi non capiamo più il senso profondo del digiuno: per questo non lo pratichiamo. Pensiamo che digiunare corrisponda solo a limitarci nel cibo. Ma il digiuno, quello autentico, non consiste tanto nell’astenerci dal mangiare carne o in alternativa nel sacrificarci per chissà quale iniziativa filantropica, o nel privarci di qualche soddisfazione materiale. Certo, sono cose buone anche quelle. Ma “digiunare” vuol dire “fare verità” su noi stessi. Vuol dire scrutarci dentro, riesumare la nostra autenticità, specchiarci con serenità e sincerità nella nostra anima, e individuare le vere tentazioni della vita. Noi abbiamo paura di guardarci dentro: siamo pieni, zeppi di “anestetici” che smorzano le nostre voci interiori. Come nella vita normale. Se non dormiamo prendiamo i tranquillanti. Se andiamo facilmente in ansia, assumiamo “alcune gocce” per calmarci. Se siamo “troppo eccitati”, con dei tranquillanti torniamo a poterci gestire. Ci droghiamo o eccediamo nell’alcool per eliminare il disagio che proviamo dentro, pensando in tal modo di calmare le nostre tensioni. Perché la cocaina è così diffusa e in continuo aumento? Perché aumenta sempre più il numero di quelli che cercano di dare una parvenza di felicità alla loro esistenza infelice, disperata. Ci rimpinziamo di cibo per non percepire la fame d'amore che bussa dentro di noi. Ci buttiamo nel lavoro per dare importanza e senso ad un'esistenza che altrimenti non avrebbe senso. Abbiamo bisogno ogni giorno di cambiamenti, di novità, di sesso, di provocazioni, per eccitare una vita evidentemente sterile e piatta. Abbiamo bisogno di parlare sempre, siamo dei parolai, dei logorroici, un fiume in piena, che cerca di affogare nelle parole le urla disperate del nostro cuore.
Cosa succede quando dobbiamo “digiunare”, fare silenzio, quando dobbiamo stare soli con noi stessi, senza chiasso, senza rumori, senza radio né televisione? Succede che tutto quello che cerchiamo di nascondere, improvvisamente esce fuori! Tutti i mostri che abbiamo dentro escono allo scoperto e sembrano sbranarci. Ci vediamo finalmente nella nostra più completa nudità. E questo non ci piace. Non vogliamo vederci così. Niente “deserto”, niente “digiuno”, niente “quaresima”.
Eppure, fratelli miei, quella è la strada; di là dobbiamo andare; è là che dobbiamo necessariamente fare i conti con noi stessi. È Dio che lo vuole. Se non affrontiamo i nostri demoni interiori, continueremo ad essere sempre in loro balìa. È una questione di libertà. È inutile che ci illudiamo pensando: “Io sono tranquillo! Non ho di questi problemi; non ho rabbia dentro di me. Sono felice, soddisfatto delle mia vita, in pace con me stesso”. No, amici miei; se pensiamo questo vuol dire che non ci conosciamo! È Satana che si diverte a crearci queste illusioni; il suo mestiere è quello di distoglierci dalla realtà, di farci evadere da noi stessi e dalla nostra coscienza. Cerca di insinuarci il miraggio dell’essere “diversi”, del non essere come tutti gli altri: ci fa vedere quello che non esiste, ciò che è irrealizzabile. Ma a noi tutto questo piace, ci piace così tanto da crederlo vero: siamo stregati da questa illusione, la ammiriamo, la inseguiamo, orientiamo tutta la nostra vita nella sua direzione. E poi quando ci accorgiamo che è solo una chimera diabolica, che non esiste nulla di ciò, che con tanto impegno abbiamo vanamente inseguito, allora ci sentiamo falliti.
Ecco: la quaresima ci insegna ad evitare proprio questo.
Il vangelo si conclude infine con l'annotazione che “esaurita ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da Gesù per tornare al tempo fissato”. Qual è questo “tempo fissato”? È l’oggi, ovviamente; è il tempo in cui viviamo; la prova, la tentazione non si è fermata a Gesù; è ritornata, ritorna e ritornerà ancora, continuamente, finché ci saranno uomini su questa terra. Sarebbe infatti troppo bello dire: “Abbiamo superato la prova, ora finalmente siamo a posto”. Non lo siamo proprio per niente: a livelli sempre diversi, con intensità e difficoltà variabili, per tutta la vita saremo sempre messi alla prova. Ed è bene che sia così; perché ogni prova, se superata, contribuisce a radicarci sempre più nell’amore di Dio.
La più grande tentazione dell’uomo è quella di ignorare la “tentazione”; evita cioè di misurarsi continuamente con le difficoltà e le avversità della vita, rincorrendo l’effimero, il superficiale. Potrebbe sembrare una soluzione, ma non lo è. Purtroppo, fratelli, il deserto è lì davanti a noi e non può essere evitato: dobbiamo attraversarlo, combattendo e “digiunando” per tutto il tempo che serve.
Un pensiero deve però consolarci e darci fiducia: nessuna “tentazione” diabolica in sé può farci male: potrà farci soffrire, questo sì, ma gli unici artefici del nostro male siamo noi, quando acconsentiamo alle sue lusinghe. Ma “si nobiscum Deus, quis contra nos?” Se Dio è con noi, chi potrà mai sopraffarci? Radichiamoci dunque nel mistero di Dio, affidiamoci alla sua onnipotente bontà. E affrontiamo fiduciosi e convinti la nostra “quaresima”. Amen.
 

mercoledì 6 febbraio 2013

10 Febbraio 2013 – V Domenica del Tempo Ordinario

«Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano» (Lc 5,1-11).
Dopo il disprezzo e la rabbia dimostrati con tanta cattiveria contro la sua persona, dai suoi stessi concittadini, Gesù non si scoraggia e continua la sua opera evangelizzatrice, predicando e guarendo. E un po' alla volta le persone che lo seguono, che lo appoggiano, che lo aiutano, che lo ospitano, aumentano a vista d’occhio. D'altronde è abbastanza ovvio: se Gesù avesse guarito un nostro figlio, come potremmo non essergli riconoscenti? Se fossimo noi i morti ai quali egli ha ridato la voglia di vivere: come potremmo non ringraziarlo per tutta la vita? Se fossimo noi i paralizzati che ha fatto camminare, come potremmo non seguirlo, lui che ci ha guariti? Se fossimo noi gli indemoniati che ha liberato, come potremmo non amare chi ci ha ridato la dignità di vivere?
Ad un certo punto però Gesù decide di fare una scelta: tra tanti, chiama in particolare un ristretto gruppo di persone, gli apostoli, i Dodici. Ciò che Gesù fa è qualcosa di nuovo. Egli vuole che questo piccolo gruppo lo segua, osservi, impari, per poi essere in grado di fare come Lui. Infatti un giorno dirà loro “Andate, predicate e guarite” (Mc 3,14; Lc 10,1-20).
E lo dice anche a noi. Ecco perché non possiamo rimanere sempre discepoli. Ad un certo punto dobbiamo diventare maestri, adulti, crescere. Non possiamo spendere tutta la vita a chiedere ogni cosa a Dio o al prossimo; non possiamo essere solamente passivi; non possiamo sempre aspettare; non possiamo vivere facendo finta di non avere doti e capacità; non possiamo rimanere sempre bambini. Un bel momento Dio ci manda fuori.
Il vangelo non è un cenacolo chiuso, esclusivo: il vangelo è andare nel mondo per cambiare il mondo. Il vangelo è missione, portare la vita; è passione, fuoco, luce, verità; cose che con Lui abbiamo sperimentato dentro e fuori di noi. È una conseguenza normale: se proviamo una grande gioia, come possiamo tenerla solo per noi? Se abbiamo trovato un tesoro meraviglioso, come facciamo a lasciarlo nascosto? Se abbiamo scoperto ciò che fa vivere, sicuramente vogliamo che tutti vivano, che tutti si appassionino e che si riempiano di questa “meraviglia”!
Il vangelo è come la scuola: si studia ingegneria non per studiare sempre, ma per diventare ingegneri, per lavorare! Andiamo alla scuola di Gesù per diventare degli altri Gesù, non per rimanere eterni bambini, dei piccoli egoisti che pretendono solo di ricevere e basta. Siamo stati anche noi “segnati”; rientriamo cioè anche noi tra i “dodici” della prima chiamata, che hanno costituito il “nuovo popolo”, il popolo di Gesù di allora e di oggi. Nostro compito è quello di assicurare nel tempo la presenza liberatrice e guaritrice di Gesù. Gesù infatti non vuole più riunire le dodici tribù di Israele, ma vuole riunire tutti i popoli della terra.
Luca, nel vangelo di oggi, ci riporta la chiamata dei primi quattro di quei dodici: i due fratelli Pietro e Andrea, pescatori, e i due fratelli Giacomo e Giovanni, anch'essi pescatori ma di un livello sociale più elevato (avevano, diciamo, una “impresa” di pesca).
Il vangelo in realtà si focalizza e si concentra sulla figura di Pietro. Siamo presso il lago di Genèsaret. Ora, nei vangeli, l’idea del “lago” oltre che essere strettamente legata a fenomeni di cambiamento improvviso, di tempesta, di rovesciamento di situazione, di scombussolamento, di paura (Mc 4,35-41; 6,45-52), con la sua superficie liscia, immobile, tranquilla, ci fa pensare anche alla condizione di vita di quei pescatori, prima dell’incontro con Gesù: monotona, ogni giorno sempre le stesse cose. La loro è una vita di superficie, piatta come le acque del lago.
Un po’ come la nostra vita spirituale. Non siamo cattivi, non siamo gente di malaffare, tant'è che permettiamo anche noi a Gesù di usare la nostra “barca”. Però siamo convinti che stiamo bene così, che la vita è tutta qui. Pensiamo che questo sia il solo modo di vivere. E invece, fratelli, neppure sappiamo come si vive “uscendo” con Lui! Sì, abbiamo provato, ma abbiamo combinato ben poco, anzi proprio nulla!
A questo punto domandiamoci: Siamo davvero felici? C'è fuoco, c'è passione nel nostro agire? C'è luce nei nostri occhi? C'è sole nel nostro viso? C'è profondità nelle nostre parole? “Maestro abbiamo pescato tutta la notte e non abbiamo preso nulla”. Come a dire: “Facciamo tante cose, corriamo tanto e sempre, ma dentro “non peschiamo nulla, non ci riempie niente”.
La realtà, fratelli, è che se continuiamo a vivere in superficie è difficile combinare qualcosa di buono: lì, a quel livello, è proprio impossibile!
Gli apostoli stanno lavando le reti, ma mentre le lavano, ascoltano Gesù. Sentono la vibrazione che li tocca dentro; sentono che quelle parole ridestano emozioni “morte”, emozioni che fanno vivere; sentono che Egli mostra loro “la vita vera”, che li spinge ad osare.
Allora che facciamo? Beh, prima o poi arriva il momento in cui dobbiamo deciderci: la nave è pronta, l'equipaggio c'è, il comandante c’è, e l'occorrente pure. Adesso dobbiamo sciogliere gli ormeggi e prendere il largo. O si va o si sta. Non ci sono vie di mezzo. O ci fidiamo di lui e andiamo, o rimaniamo lì fermi per sempre. Ad un certo punto dobbiamo rischiare, dobbiamo osare, dobbiamo andare. Significa semplicemente avere fede: ci fidiamo e andiamo. Non sappiamo dove ma ci fidiamo di te. “Che ne sarà di noi? Che succederà? Perderemo qualcuno? Soffriremo? E se poi ci sbagliamo?”: domande legittime, certo. Ma se ascoltiamo la paura non prenderemo mai il largo.
Gesù non fa mai tanti discorsi. Infatti seguirlo, non è questione di essere convinti su quanto ha detto, ma basta amore e fiducia. Non lo seguiamo perché ci ha convinti, ma perché ci siamo innamorati di Lui, di ciò che con Lui possiamo essere e vivere.
Le proposte di Gesù sono sempre incisive, ma di grande respiro, di larghe, profonde, ampie visioni: ci costringe cioè a scegliere, a metterci in gioco; ci fa andare là dove mai avremmo pensato di poter andare, e vivere in luoghi che neppure pensavamo esistessero. Per questo quelli che lo incontravano gli dicevano: “Tu sei la Vita”; perché Lui li faceva veramente vivere!
La chiamata si articola in due inviti, semplici, decisi e chiari. Il primo: “Prendi il largo”: non ha bisogno di molte spiegazioni. Vuol dire: “inoltrati nell'ignoto, esci fuori dai tuoi soliti schemi, dai tuoi soliti modi di pensare, di fare, e inoltrati nella vita”. “Ma io ho paura!”. “Lo so”. “Ma è rischioso!”. “Lo so”. “E poi?”. “Non lo so!”. “E se non riesco, se non funziona?”. “Possibile”. Domande lecite, fratelli: dubbi più che leciti; ma se vogliamo “il nuovo” dobbiamo osare, decidere una buona volta; altrimenti continueremo a vivere così; però poi non lamentiamoci! Il treno della vita passa una volta sola: tocca a noi prenderlo. Nessuno può farlo al posto nostro. O noi, o nessun altro.
Molti dicono: “Non è per me; sarebbe bello ma non ne sono capace” e ne sono convinti. In realtà dovrebbero dire: “Ho paura; mi è più comodo così!”.
Fratelli miei, continuiamo a trastullarci con le solite compagnie, col solito giro di amici che non ci offre più nulla? “Prendi il largo!”. Frequentiamo colleghi o amici che parlano solo di donne, di sport, di soldi e lavoro? “Prendi il largo!”. Frequentiamo sempre quell’ambiente e ci sentiamo oppressi dai soliti giudizi velenosi, dagli sguardi di traverso, dalle invidie? “Prendi il largo!”. Abbiamo una sete terribile di verità, di ricerca, di scoprire, di capire; non ci accontentiamo delle risposte preconfezionate, classiche, ma vogliamo andare al centro della vita? “Prendi il largo!”.
L'altro invito è: “Cala le reti!”. Cioè: “Vai dentro; vai a fondo; vai nel mistero della Vita”. La Vita, Gesù, non si può vivere stando in superficie, fuori; bisogna immergersi. Non è un caso che “battesimo”, in greco, voglia dire proprio questo.
Siamo figli di Dio? Oh, certo che sì! Ma cosa vuol dire “si”? Perché è una risposta che non risolve nessuno dei nostri problemi e non ci cambia la vita; “Entra dentro, immergiti” e solo allora sentiremo su di noi tutta la forza, la potenza, la dignità di essere figli suoi.
Abbiamo una missione da compiere? Ma certo! Ma siamo noi che lo dobbiamo scoprire! Siamo noi che dobbiamo entrare in noi stessi (introire secum). E come si fa? Dobbiamo entrare dentro di noi: punto. Non c'è altra strada.
Quando Pietro si rende conto di come si può vivere con Gesù (la rete è piena, stracolma di pesci!), ha paura: “Allontanati da me, sono peccatore”. Cosa vuol dire con questo? Prima di tutto non si sente degno: “Non ce la faccio! Non ne sono capace! Non è possibile!”. La gente ha paura di essere felice. Poi si sente in colpa per aver sprecato tutto quel tempo. Una delle sensazioni più amare della vita è il giorno in cui a quarant'anni (o cinquanta o quello che è!) ci svegliamo, ci rendiamo conto di quanto sia inebriante e meraviglioso vivere con Lui, e diciamo: “Dio, quanta vita ho perso!”. E ci rendiamo conto di non aver mai vissuto finora; la chiamavamo “vita” ma era “vegetare”. Fa male scoprire quanto tempo abbiamo sprecato! Infine si rende conto del suo “peccato”: ha chiamato “vita” ciò che era superficie, vegetare, “tirare avanti”, vivacchiare. “Peccato”, in ebraico, significa “freccia che manca il bersaglio”: viviamo e crediamo che la nostra sia la vita vera; poi ci rendiamo conto che la vita è tutto un'altra cosa: non abbiamo fatto centro, non era vero: questo è il vero peccato. Gettandosi in ginocchio Pietro riconosce di aver chiamato “vita” ciò che era “morte”. Bisogna accettare di aver sbagliato se vogliamo trovare la strada giusta; perché se ci intestardiamo a proseguire per la strada sbagliata, non arriveremo mai là dove vogliamo arrivare.
Siamo umili, fratelli. Quando una cosa è sbagliata, quando non ci offre ciò che ci dovrebbe dare, diciamo semplicemente: “Ho sbagliato, non vale la pena andare avanti”. Abbandoniamo la vecchia strada e imbocchiamone una nuova.
Da pescato a pescatore: oggi Pietro ha toccato, sentito, sperimentato, cosa vuol dire incontrare il Signore. Capite ora perché lo ha seguito? Capite perché Andrea, Giacomo e Giovanni hanno fatto altrettanto? Cos'altro avrebbero potuto fare? Erano morti e sono stati pescati, riportati in vita; cos’altro avrebbero potuto fare se non i pescatori di Vita?
«Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». Sono le parole che Gesù ha detto anche a noi, dopo che lo abbiamo incontrato. La nostra vita era vuota, come una rete senza pesci: Gesù l'ha riempita al punto da farla traboccare. Prima chiamavamo “vita” quello che era solo “vegetare”, sopravvivere: è Lui che ce l’ha fatto capire. Prima eravamo impauriti, ma Egli ci ha insegnato quanto sia bello prendere il largo e non rimanere fermi al porto. Prima ci accontentavamo, ma Lui ci ha insegnato a raggiungere il massimo che possiamo vivere. Prima parlavamo a vanvera; ora, soltanto ora, possiamo invece trasmettere agli altri ciò che Lui ci ha insegnato. Signore, “Tu hai parole di vita eterna”: l’ho capito, l’ho provato. Per questo voglio seguirti; voglio lasciare tutto, voglio mettermi a rischio, voglio osare, voglio vivere per Te. “Sulla tua parola, getterò le mie reti”. Amen.

mercoledì 30 gennaio 2013

3 Febbraio 2013 – IV Domenica del Tempo Ordinario

«In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria... Egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino» (Lc 4,21-30).
La pagina del vangelo di oggi è il seguito di quella di domenica scorsa. Siamo nella sinagoga di Cafarnao. Gesù ha appena ultimato la lettura e la spiegazione del passo di Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me”. Nel silenzio profondo che ne segue, tutti si meravigliano, rimangono stupiti: “Ma come, non è il figlio di Giuseppe? Eppure dice proprio delle belle parole; parla bene; ci piace proprio”. Sembrano tutti accoglienti, ben disposti: ma è solo un comportamento di superficie. Ben presto, infatti, messi di fronte alle parole chiare ed esplicite di Gesù, si lasciano andare alla rabbia, vengono sopraffatti dall’ira e da tutta una serie di pregiudizi; improvvisamente innalzano nei suoi confronti delle barriere, reagiscono con violenza, lo cacciano dalla sinagoga e dalla città, e tentano addirittura di ucciderlo; ma è Gesù che, passando in mezzo a loro, spontaneamente se ne va, riprende la sua strada. È lui che se ne va: anche se lo fa contro voglia; la chiusura dei suoi compaesani è determinante, è come eliminarlo dalla loro comunità, cacciarlo; escluso perché scomodo, perché va contro la loro mentalità chiusa e rancorosa. Le sue parole costituiscono per loro un problema. Che altro poteva fare Gesù? La sua è un’amara constatazione: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria». È triste, ma è proprio così.
Quelli che lo respingono sono infatti i suoi concittadini, gente conosciuta; sono quelli che puntualmente si riuniscono tutti i sabati in preghiera nella sinagoga: persone che però hanno sì la religione nel cuore, ma non hanno Dio. Pregano dentro la “casa di Dio”, ma sono senza Dio; innalzano preghiere, ma non pregano. Hanno Gesù, ma non ne capiscono il valore e lo buttano fuori dalla loro vita.
Una constatazione quella di Gesù che, fratelli, deve farci pensare seriamente. Un “ante litteram” di ciò che succede anche oggi, di ciò che ci vede disinvolti protagonisti ai nostri giorni.
Anche noi andiamo in chiesa, ma troppo spesso dimostriamo di essere senza Dio. Andiamo in chiesa ma siamo contro Dio; non condividiamo la sua Parola. Né più né meno di come è successo allora, a Nazareth.
Anche noi vorremmo un Gesù diverso; vorremmo cambiarlo; lo vorremmo secondo le nostre idee, i nostri schemi, i nostri parametri: e quando vediamo che Gesù non è così, lo rifiutiamo. Rifiutiamo in pratica colui che può salvarci, che può guarirci; rifiutiamo stoltamente colui che costituisce tutta la nostra vita.
Quante volte vorremmo le persone diverse da quel che sono: vero? Le vorremmo come noi; secondo le nostre esigenze, fatte tutte su misura per noi, in un certo modo; vorremmo che tutto il mondo fosse esattamente come noi lo immaginiamo. Ma le persone, al contrario, sono quelle che sono, sono come sono; questa è la realtà. Volerla diversa, rifiutarla, significa voler evadere dal presente, dalla vita di ogni giorno, dalla realtà.
Quante volte, fratelli, noi rifiutiamo a priori situazioni, sollecitazioni, incontri, esperienze che giudichiamo ostili, difficili, non comprensibili. Solo se avessimo un po' di pazienza in più, un po' di apertura mentale in più, questi input potrebbero essere la nostra salvezza.
Gesù viene rifiutato dall'uomo, dal pregiudizio umano, da chi vuole modellarlo secondo le proprie idee, da chi lo vuole adattare alle proprie esigenze. Noi infatti, nel nostro egotismo, abbiamo già in testa come dovrebbe essere il nostro Dio; sappiamo già come dovrebbe comportarsi con noi, quali cose dire, quali miracoli fare. E poiché ciò non può essere, lo escludiamo dalla nostra vita. Lo accogliamo fino a quando corrisponde alle nostre idee; ma appena ci accorgiamo che è diverso, che non scenderà mai a compromessi con noi, con il nostro ego, con la nostra ottusità, automaticamente lo escludiamo. E non solo con Dio: noi ci comportiamo allo stesso modo anche con chi ci sta vicino, con i nostri confratelli, con i parenti, con gli amici: non rientrano nei nostri schemi? Li eliminiamo: “Fuori”, “Via”!
Ma che amore può avere per gli altri chi si costruisce un Dio a modo suo? Che razza di amore può nutrire chi accetta il prossimo solo quando gli va bene? Che amore è quello di chi pretende di regolamentare la vita degli altri a modo suo?
È in questo modo, fratelli, che escludiamo il Dio-Verità dalla nostra vita: è così che obblighiamo Gesù a lasciarci, ad andarsene; non lo fa di sua iniziativa, siamo noi che lo buttiamo fuori.
Il pregiudizio dei compaesani nei confronti di Gesù, è la stessa arma che usiamo anche noi continuamente contro i nostri fratelli, contro i nostri colleghi: “Ma chi ti credi di essere? guarda che ti conosco bene; abbassa la cresta”. Dove non possiamo emergere per meriti personali, ci arriviamo calunniando gli altri: “Lo sai di chi è amico? Lo sai che frequenta gente di malaffare, che è un poco di buono, un mangione, un beone, un parassita?”. Vecchia tecnica: facendo terra bruciata intorno a noi, automaticamente saremo i soli ad emergere; per innalzare noi stessi, abbassiamo gli altri.
Purtroppo le persone che criticano tutti, che hanno da ridire su tutti, che non si fidano di nessuno, dimostrano di essere dei meschini, di avere un animo piccino e vuoto: alla fine, quello che dicono degli altri, corrisponde esattamente alla loro immagine, a quel che provano nel loro cuore avvizzito. È vero: quando sparliamo degli altri, senza saperlo, descriviamo solo noi stessi. Quanto staremmo meglio noi, invece, quanto male gratuito, quante sofferenze eviteremmo, soltanto se fossimo più aperti, più sensibili, meno acidi nel criticare, più umili nell’ascoltare gli altri e più cauti nel sentenziare!
Ma “queste cose non ci appartengono”, pensiamo convintamente: “noi siamo credenti, mica siamo pagani, non ci abbassiamo a tanto!”. Fratelli mie: Gesù non fu ucciso dagli atei, dai pagani o dai miscredenti; fu ucciso dai credenti più credenti di tutti; così credenti, così pii, così zelanti, che nel loro cuore non avevano più spazio per niente e per nessuno. Gesù per le vie della Palestina annunciava la Buona Nuova (il Vangelo): fu ucciso non perché non era buona, ma perché era nuova. Gesù mandava in frantumi gli schemi, i pregiudizi e le visuali dei “sapienti” dell’epoca, stravolgeva la loro idea tradizionale di Dio, della Legge, del prossimo. Annunciava un Dio diverso, e i “fedelissimi” della Legge non gliela perdonarono; annunciava un Dio amico anche delle donne, e i maschilisti del tempo gliela fecero pagare; annunciava insomma un Dio della vita: e non era in contraddizione tra ciò che diceva e ciò che faceva; annunciava un Dio della giustizia, un Dio che condanna le falsità e le ipocrisie nascoste:e i nobili e i ricchi si sentirono chiamati in causa in prima persona. Annunciava un Dio che rompeva con una tradizione fatta di sterili regole: e i rispettosi delle regole si sentirono spiazzati nel loro orgoglio di fedeli conservatori della Legge.
Per questo Gesù non venne accolto a casa sua: e dunque, vistosi rifiutato, se ne va. A Gesù non interessava essere riconosciuto come messia, quel messia che la sua gente aspettava. Ciò che prima di tutto gli stava a cuore era essere se stesso, mantenersi fedele al Suo Dio, al Padre, e alla Sua verità: questo era per Lui il Messia.
Gesù è rimasto sempre e profondamente se stesso. Gesù non ha mai tradito il suo nome, la sua vocazione, la sua chiamata e la sua missione. Per questo Egli è un uomo compiuto. E quando sulla croce dirà: “Tutto è compiuto”, intende dire che tutto ciò che doveva fare, tutto ciò che poteva fare, Egli l'ha fatto: ha vissuto la sua vita, compiendo fedelmente la missione per cui Dio lo aveva mandato in questo mondo.
Gesù non ha permesso al pregiudizio di limitarlo: anzi, quando poteva, lo attaccava direttamente sotto qualunque forma gli si presentasse; quando non poteva farci nulla, se ne andava altrove. Perché non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire.
Non gli importava molto cosa la gente dicesse o pensasse di lui. Non gli importava di essere gradito, ammirato, accettato. Era un uomo libero. Per questo poteva permettersi di dire le cose come stavano; per questo sostava con i poveri e con i ricchi, per questo era libero di incontrare e abbracciare chiunque, perfino le donne, di ascoltarle, di toccarle.
Non c'era pregiudizio nella sua mente e neanche nel suo cuore. Non gli interessava conoscere cosa la gente pensasse di lui; non gli interessava sapere cosa l'opinione pubblica pensasse di quelle persone che incontrava: se doveva o voleva incontrarle, le incontrava, senza curarsi del parere di nessuno. Gesù, a differenza di noi, in tutta la sua vita terrena fu sempre un uomo autentico, fu sempre se stesso. Solo chi è libero da qualunque pregiudizio può vivere completamente e serenamente la propria vita: in caso contrario, non vive la propria vita ma quella degli altri; vive una vita non sua, un doppione, una fotocopia; una esperienza alienante, deludente e deprimente. Chi è fedele a se stesso non sarà mai tradito dalla vita; il male peggiore, infatti, sta proprio nel rinunciare a se stessi, alla propria anima, alla propria chiamata. Questo è il grande peccato dell'uomo, e questo è il peccato che egli deve superare e vincere ad ogni costo.
“Passando in mezzo a loro se ne andò”. Sicuramente le cattiverie, le insinuazioni dei suoi concittadini, hanno fatto male a Gesù: bassezze del genere non possono che ferire. Ma lui è passato a testa alta in mezzo a tanto lordume; niente non lo ha “smontato”, niente lo ha bloccato. Certo ha sofferto, sì, il suo cuore ne è rimasto amareggiato, ma Lui ha proseguito per la sua strada. Gesù è rimasto se stesso, è rimasto il Figlio di Dio, ha continuato imperterrito la sua missione. Impariamo da Lui, fratelli: non lasciamoci condizionare dal male, non permettiamo alle malelingue di sviarci dai nostri buoni propositi. Affidiamoci a Lui, e vedrete che nessuno mai potrà fermarci. Amen.


mercoledì 23 gennaio 2013

27 Gennaio 2013 – III Domenica del Tempo Ordinario

«Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre N.N., in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto». Lc 1,1-4; 4,14-21.
Sono le parole di apertura del Vangelo di Luca. Le ho volutamente adattate, rivolgendole a te, sconosciuto visitatore di passaggio, pregandoti di fermarti qualche istante per leggere queste brevi considerazioni.
Fermati e ascolta: forse Dio ora vuol parlare proprio a te.
Quante volte è capitato nella nostra vita: se ci succede di ascoltare, anche casualmente, un abile oratore, uno che ci colpisce immediatamente per la correttezza nel parlare, per la profondità e la condivisibilità degli argomenti trattati, il nostro primo impulso è di conoscerlo, di informarci da dove viene, di conoscere la sua storia, le sue origini, quali sono i suoi amici, le sue esperienze, i suoi studi, l’ambiente in cui vive, in una parola ci interessiamo alla sua vita.
Ebbene: noi che ci definiamo persone religiose, che ci professiamo cristiani, noi che ascoltiamo anche frequentemente in chiesa la sua Parola, che la troviamo giusta, consolante, piena di amore e speranza, non siamo per niente interessati a conoscere la persona di Gesù, ad approfondire la sua vita, i suoi insegnamenti. La sua figura non ci interessa, non ci appassiona, non ci crea alcun imbarazzo ignorare tutto, o quasi, di lui.
Eppure noi diciamo di avere “fede”: si, certo, noi abbiamo fede, ma fede in chi? Su che cosa? Su cosa appoggia la nostra fede? Possibile che Dio sia l’ultima delle nostre preoccupazioni? Allora, fratelli, siamo onesti con noi stessi; non riempiamoci la bocca di surrogati, tanto per far bella figura. Riconosciamo a noi stessi di non avere le idee chiare, quando le abbiamo, su fede in Dio, sul soprannaturale, sulla vita eterna, su come dobbiamo comportarci col prossimo, su come dobbiamo pregare e chi pregare. La nostra fede non è per niente solida, fratelli: non poggia su un terreno sicuro; al massimo si basa sul sentito dire, su qualche ricordo nebuloso della nostra infanzia, su delle usanze che abbiamo continuato a mantenere anche da adulti, senza magari chiedercene mai la ragione di fondo.
Beh, lo capiamo da noi: questo non è avere fede, non è vivere la propria fede. Non è essere cristiani. Chi cerca di amare Gesù, lo vuole ovviamente conoscere: lo vuole approfondire, vuole entrare nella sua vita, vuole rapportarsi con lui, vuole in qualche modo “sperimentarlo”; vuole entrare nel suo mondo, guardare le cose dal suo punto di vista: anche solo per provare! L'amore è conoscenza, fratelli, e la conoscenza è amore.
Una delle nostre grandi lacune, che è la stessa anche di molti preti, è che rischiamo di fare molta morale ma poco vangelo. Siamo molto esigenti con gli altri e molto poco con noi. Non conosciamo e non facciamo conoscere abbastanza il Dio di Gesù. Cerchiamo di insegnare ai nostri figli, agli amici, a chi ci sta a cuore, cosa devono o non devono fare; cosa devono fare per vivere bene, serenamente: ma ci guardiamo bene dal mostrare con l’esempio la figura di Gesù. In compenso facciamo tanta “politica” su Gesù: utilizziamo la sua parola, il suo vangelo, i suoi insegnamenti solo per determinati scopi. Ma non facciamo vedere a nessuno quanto grande sia il suo cuore, quanto la sua anima divina sia presente tra noi, quanto la sua umanità sia sconfinata, e come metta continuamente a nostra disposizione il suo amore senza limiti.
Purtroppo il perché di questo disinteresse è dentro di noi: è evidente che noi per primi non siamo innamorati di Lui. E, lo ripeto, non possiamo conoscere e far conoscere agli altri qualcuno del quale noi stessi conosciamo troppo poco, di cui non siamo innamorati. Non possiamo peraltro impegnarci, dare la vita a chi nel profondo del cuore, ci è indifferente. Non possiamo fidarci di uno che consideriamo un nemico, un controllore, un “rompi”, un ostacolo alla nostra felicità. E Gesù, d’altro canto, non ci può guarire se noi non lo vogliamo, se non ci abbandoniamo a Lui, se non crediamo in Lui, se non sentiamo che Lui è la Vita vera, profonda, intensa.
È questa un po’ la nostra situazione, fratelli! Immaginiamo di essere in regola solo perché di domenica continuiamo a frequentare la messa. Oppure ci sentiamo spiritualmente e religiosamente impegnati solo perché ci interessiamo a livello sociale di iniziative umanitarie, perché ci sentiamo sensibili alle problematiche mondiali, o perché simpatizziamo per i vari santoni oggi tanto di moda; per quei “guru” commerciali, emeriti ciarlatani, che mediaticamente propongono le loro fasulle teorie, magari condite da un eccentrico ascetismo orientaleggiante. Seguiamo purtroppo le mode. E abbiamo sempre più paura di guardarci dentro.
E invece dovremmo chiederci il perché di tutto questo. Dovremmo farlo con onestà, senza barare con noi stessi.
Certo, non è che il comportamento dei cristiani di oggi ci sia di particolare aiuto: siamo infatti circondati da tanti credenti, pastori, ministri, laici impegnati, che sono spiritualmente atrofizzati, senza entusiasmi, senza iniziative. Persone che si limitano solo allo stretto indispensabile, senza riuscire a trasmettere nulla. Persone che non si aggiornano, che non si affinano nello studio e nella preghiera, che non sono spinte dall’entusiasmo di vivere e condividere con i fratelli il messaggio di Cristo. Persone che non combattono più per i loro ideali. Persone, in una parola, che non hanno più fede.
Ebbene, fratelli, per quanto ci riguarda non temiamo di conoscere Cristo, non continuiamo a rimanere nell'ignoranza: se abbiamo il coraggio e la forza di metterci sotto la sua luce, diventeremo sicuramente illuminati. Non accontentiamoci di quello che si dice in giro, di quello che i media ci trasmettono: ma, come Luca, cerchiamo la Verità, verifichiamola, studiamola, applichiamola a noi stessi, alla nostra vita, umilmente, con i piedi per terra e con gli occhi fissi sul Suo volto.
Ascoltiamo, oggi, la voce di Gesù che ci legge il rotolo di Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio». A seguito del nostro Battesimo, siamo tutti degli “unti” del Signore. Attualizziamo le parole della Scrittura. Tutto quello che Gesù ci insegna nel Suo Vangelo, non è un qualcosa di anacronistico, una bella storia di ieri; ma è un viatico per oggi, un qualcosa di molto importante che ci riguarda tutti da vicino.
Quando ci avviciniamo al Vangelo, noi leggiamo la nostra vita: l’“oggi” della nostra vita. Quello che troviamo scritto lì, è proprio quello che ci serve oggi. Se veramente sentiamo quelle parole dentro di noi, vuol dire che parlano a noi di noi. Magari le abbiamo già udite centinaia di volte, ma forse non le abbiamo mai “sentite”. Non abbiamo capito il loro messaggio: “Ai poveri il lieto annuncio, ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, la libertà agli oppressi”. Sì, fratelli: Cristo è venuto proprio per noi; perché poveri, prigionieri, ciechi, oppressi, oggi lo siamo tutti noi. Lo siamo noi e lo sono tutti i nostri prossimi.
«Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha mandato»: Dio ha mandato anche noi: per cui le sue parole devono essere le “nostre” parole; Dio parla di noi, a noi. E lo fa oggi; anche se a noi, guarda caso, dà fastidio che Lui ci scelga proprio oggi; perché abbiamo già tanto da fare, abbiamo tanti altri impegni più importanti: i figli, la famiglia, il lavoro, la casa, la macchina, i nostri divertimenti, il nostro riposo; non possiamo sconvolgere così su due piedi tutte le nostre certezze. Vogliamo una vita serena, noi; una vita tranquilla, senza scossoni, senza imprevisti.
C’è un fatto però, cari fratelli: che se tutto quello che ascoltiamo dal Vangelo non accade oggi, se non lo caliamo oggi nella nostra vita, quelle parole di Vita ci scivolano via, rimangono lettera morta; allora il vangelo continuerà ad essere per noi soltanto un bel libretto, un’operetta scritta bene, affascinante, un piccolo best-seller. Ma solo quello; per noi Gesù è morto e basta; Gesù non è più vivo, non è più la nostra forza, il nostro coraggio; non può più dare senso alla nostra vita.
Se gli insegnamenti del Vangelo non ci toccano, non entrano dentro il nostro cuore, non ci coinvolgono, non ci commuovono, allora non servono a nulla: tutto diventa inutile, come inutile sarà la nostra vita.
Non continuiamo a perdere il nostro tempo pensando a cosa sarebbe meglio fare, a come lo dovremmo fare: facciamolo e basta. Facciamolo oggi. Dobbiamo dire qualcosa a qualcuno? Diciamola oggi! Dobbiamo scusarci? Facciamolo oggi. Dobbiamo intraprendere un nuovo cammino? Partiamo immediatamente. Oggi, subito: domani sarà tutto più difficile di oggi; “oggi” e non domani, perché “domani” è la voce della nostra paura; rimandare a “domani” vuol dire non farlo “mai” più!. Allora prendiamo subito in mano il timone della nostra vita, e illuminati dalla luce del Vangelo, decidiamo immediatamente la rotta da seguire. Amen.
 

mercoledì 16 gennaio 2013

20 Gennaio 2013 – II Domenica del Tempo Ordinario

«In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli» (Gv 2,1-12).
Quello di nozze, banchetti, feste, è un tema piuttosto ricorrente nel vangelo. Il Dio di Gesù è il Dio della gioia, delle feste, della felicità, dei sani piaceri della vita. Non si può comprendere il Dio della croce se non si comprende prima questo Dio. Dio vuole la felicità e il piacere per ogni uomo. Dio ci vuole felici, ricordiamocelo! Ma perché mai l’hanno ridotto un Dio burbero, serio, triste, imbronciato, che pretende da noi solo sacrifici e offerte? Dio non è nella noia, nel trattenersi, nel chiudersi, nel non provarci per non peccare, nelle formalità esteriori. È il Dio della vita, delle persone appassionate, di chi osa e vive intensamente. Di chi si dà da fare. Di chi sbaglia: l’importante è accorgersene e rimediare.
Gesù dunque è invitato alle nozze con Maria sua madre e i suoi discepoli. Viene da pensare: è Gesù l’invitato, o è lui che invita tutta l’umanità alle nozze del “vino nuovo”, alle nuove nozze dell’uomo con Dio? In quest’ottica il «non hanno più vino» che segue, acquista un nuovo senso: gli uomini vorrebbero festeggiare le nozze, ma non possono. Non sono più capaci di amore, di amare, di vivere. Non c'è più gusto nella loro vita, non c'è più sapore nelle loro giornate. Quando si vedono in giro certe facce, certi volti segnati solo dalla tensione e dalle rughe della chiusura, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando leggiamo certi libri o articoli su Dio, o ascoltiamo certe prediche, certi discorsi religiosi piatti, formali, moralistici, che non hanno slancio, non hanno passione, convinzione, fede, energia, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando vediamo le nostre parrocchie impegnate solo nella burocratizzazione della loro azione pastorale, attenta a non andare mai oltre i limiti orari fissati, a porre l’attenzione solo sulle cose da non fare, limitando qualunque entusiasmo, qualunque iniziativa, qualunque slancio creativo; quando trasmette solo frustrazione, delusione e ansia; ebbene, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando vediamo certe coppie che si trascinano nel loro matrimonio solo per routine, con pesantezza, con screzi, litigi e ripicche continue, dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”. Quando le persone consacrate, i preti, i frati, le suore, non provano più nessun impulso interiore, nessuna commozione, non si stupiscono più, sono diventati cinici su tutto, allora dobbiamo constatare amaramente: “Qui non c'è più vino”. Quando le persone si trascinano stancamente, senza entusiasmo, senza voglia di vivere, senza sussulti, allora dobbiamo amaramente constatare: “Qui non c'è più vino”.
E allora, «Fate quello che vi dirà», ci sussurra nostra Madre.
Nella vita, fratelli, dobbiamo fidarci, dobbiamo af-fidarci a qualcuno e fare tutto quello che ci dirà, anche se non lo capiamo, anche se lo troviamo strano. Quando individuiamo una persona saggia, vera, trasparente, spirituale e sentiamo di poterci fidare di lei, impariamo a fidarci totalmente di lei, anche se non capiamo cosa ci dirà o perché ce lo dirà: “Fate quello che vi dirà”. A volte non capiamo cosa la vita ci dica; anzi capiamo benissimo cosa ci propone ma ci sembra stupido, irrazionale, illogico: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci porta lì dove non vogliamo andare e siccome non capiamo il perché ci diciamo che non ha senso andarci: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci diciamo che certe cose sono difficili, ostiche, dure, che certe montagne non ha senso affrontarle,quando ce ne possiamo stare in pianura: “Fate quello che vi dirà”. A volte sentiamo che ci spinge o ci porta lì dove non vorremmo andare, che ci invita ad esporci anche quando non sarebbe il caso: “Fate quello che vi dirà”. A volte ci fa vivere esperienze dolorose, di sofferenza, di solitudine, di rifiuto, di non-senso: “Fate quello che vi dirà”. Perché, fratelli, la salvezza sta nel fidarsi di Dio, in quanto Lui, la Vita, non sbaglia mai.
«Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei». L'acqua di queste giare serviva per purificarsi, per lavarsi. Sono i vecchi riti, le vecchie abitudini, le vecchie consuetudini e norme: hanno il gusto dell'acqua stantia, putrida, che è diventata inutilizzabile. Con quest'acqua non si può celebrare nessuna festa. Perché proprio« sei»? Il numero sei (inferiore del sette che significa la “perfezione”), indica i nostri limiti, la nostra imperfezione: ci manca cioè “un qualcosa” di essenziale, di vitale; non siamo completi. Siamo «di pietra»: una specifica che indica non solo il materiale delle giare ma anche la nostra vita; una vita dura, insensibile, rigida, pietrificata. Una vita che si è annacquata, fossilizzata, sclerotizzata nei soliti rituali, nelle solite abitudini: ci manca un respiro più ampio, diverso, un “oltre”. È come trascorrere giornate prive di gusto, di sapore: si vive, ma senza senso, senza soddisfazione.
“La giara di pietra” è il segno dell'irrigidimento della nostra devozione, delle nostre regole religiose; è il segno di certi nostri riti religiosi, stantii e ripetitivi, che non trasmettono più nulla, che non hanno più nessuna vitalità, più nessuno slancio, che non possono metterci in comunicazione con il Dio della Vita. Continuiamo a ripeterli solo perché lo abbiamo sempre fatto, perché l’abitudine ci tranquillizza, è ciò che conosciamo, ciò che ci appartiene, ciò che non ci provoca sussulti, non ci fa paura.
E non ci accorgiamo neppure noi, come gli sposi del vangelo, che il vino è finito! Non ci accorgiamo che siamo noi ad essere “esauriti”, vuoti, inservibili per noi e per gli altri.
Ma dove viviamo? Perché non pensarci prima? Purtroppo la routine, la quotidianità, se non stiamo attenti, pialla tutto, appiattisce ogni cosa, anche i sentimenti, anche l'amore. Se non c'è uno slancio più grande, se non c'è il desiderio di qualcosa di oltre, se non c'è la ricerca per riempirci continuamente, per uscire dalla monotonia, dalla ripetitività delle cose, allora davvero moriamo. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, ogni giorno quando rinunciamo a fare qualcosa di nuovo, di diverso. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, quando per paura rinunciamo ad uscire dagli schemi e siamo sempre uguali. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, quando rinunciamo a dirci tutto il bene che ci vogliamo, tutto l'amore e la fortuna che abbiamo nel conoscerci. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci ricarichiamo, quando non frequentiamo nessun incontro di più ampio respiro, con orizzonti più grandi, in modo da toccare la ricchezza e la vitalità del nostro vivere e di quello che siamo. Moriamo lentamente e inesorabilmente quando per pigrizia rinunciamo a quello che ci piacerebbe, a quello che desideriamo perché ci costa un po' di fatica o un po' di faccia. Moriamo lentamente, ma inesorabilmente, davanti alla tv, al bar con le solite quattro chiacchiere inutili da osteria; con gli “amici” nella ripetitività delle solite cose da affrontare e da fare. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci fermiamo a guardarci negli occhi; quando non ci guardiamo allo specchio e continuiamo a mentirci, a dirci castronerie e “balle” (come se potessimo mentire a noi stessi!); quando ci nascondiamo dietro alle nostre facciate, alla nostra razionalità, intelligenza, cultura, sapere, solo per “incantare gli altri”. Appariamo perfino bravi, acuti, profondi: ma stiamo solo sfuggendo a noi stessi, a ciò che abbiamo dentro, al Dio della Vita che vorrebbe riempirci di vita. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando deleghiamo le nostre responsabilità agli altri, a questo mondo materialista, indifferente e apatico; a questa società ormai depravata. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non ci abbracciamo più, quando non ci accarezziamo più, quando la tenerezza non alberga più nei nostri occhi, nelle nostre mani e nel nostro corpo, perché l'unica cosa che ci interessa è prendere, afferrare, conquistare, dominare. Moriamo lentamente ma inesorabilmente quando non vogliamo più metterci in discussione, quando rinunciamo ad imparare, a cambiare, ad evolvere: allora la crescita si blocca. La vita si blocca. E questo succede quando andiamo a messa perché ci siamo sempre andati; quando preghiamo perché lo abbiamo sempre fatto; quando crediamo, come abbiamo sempre creduto. Tutto diventa freddo, tutto diventa “solito”, normale, piatto. Arriviamo a temere il calore, le vibrazioni, i sussulti dell'esistenza e della Vita.
E prima o poi, una certa mattina, nell’alzarci, non ci riconosceremo più: non ci sarà più vino, non ci sarà più amore, non ci sarà più vitalità. Non ci sarà più niente di niente, saremo vuoti, esauriti, finiti. Ecco, fratelli, scuotiamoci, usciamo dal nostro torpore: questa è l’urgenza vera, questa è la nostra possibilità di salvezza.
Gesù disse loro di nuovo: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola. Ed essi gliene portarono». “Attingete”, perché Dio ha già compiuto il miracolo: si tratta solo di attingere. Dio, creandoci, ha già compiuto il miracolo; ci ha già fatto grandi: si tratta solo di attingere, di crederci, di abbeverarci alle sue sorgenti profonde. Il miracolo si è già compiuto, sta dentro ciascuno di noi, basta solo raggiungerlo, basta solo tirarlo fuori, farlo emergere.
Chi è capace di cambiare, di modificarsi, di evolversi, si salverà. Chi non è capace, morirà, sommerso dal suo far niente. Si condannerà da solo.
Ecco, fratelli, è questo l’insegnamento che in estrema sintesi dobbiamo cogliere dal vangelo di oggi: se vogliamo salvarci, dobbiamo necessariamente “mutare”; dobbiamo cioè trasformarci da acqua in vino; dobbiamo migliorare, imparare dai nostri errori e crescere, crescere. Perché crescere significa soprattutto spalancare il nostro cuore e la nostra mente alla luce e al calore dell’Amore. Amen.