giovedì 18 aprile 2013

21 aprile 2013 – IV Domenica di Pasqua

«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano» (Gv 10, 27-30).
La maggior parte delle persone fa confusione tra “udire” e “ascoltare”. Udire è percepire un suono: è un fenomeno fisiologico e non coinvolge l’emotività. Ascoltare invece è prendere coscienza di ciò che si “ode”; significa rendersi conto delle emozioni che un certo suono provoca nel nostro intimo e intorno a noi. Ascoltare è porre attenzione, è un atto consapevole, implica il cuore e l’intelligenza. Possiamo udire,ma non per questo ascoltiamo.
Ne consegue che come uno “ascolta” così anche agirà; come uno ascolta, così camminerà, canterà, parlerà. Da come noi parliamo, ma ancor più da come noi ascoltiamo, gli altri capiranno chi siamo. Mio nonno diceva: “Non fidarti mai di chi non sa ascoltarti”.
Non possiamo diventare adulti, maturi, cresciuti, senza la capacità di ascoltare: prima di tutto noi stessi e poi gli altri. Dall’ascolto dipende la nostra maturazione, la nostra crescita: è ciò che ascoltiamo che ci “costruisce” dentro.
Dio ci ha forniti di due orecchi e di una sola bocca: sicuramente perché dovremmo ascoltare molto di più, e parlare molto meno. Abbiamo due orecchi e una bocca sola, perché abbiamo bisogno almeno del doppio di cibo dell'anima (gli orecchi) rispetto al cibo del fisico (la bocca). Se vogliamo imparare, pertanto, non abbiamo alternative: dobbiamo ascoltare! Non è un caso, allora, se si dice che la “fede nasce dall'ascolto”: dall'ascolto, non dall'aver udito tante parole religiose! Una delle espressione più usate nella Bibbia è infatti: “Hanno orecchi per udire, ma non odono” (Ez 12,2).
Ogni giorno noi udiamo milioni di suoni, ma quanti ne ascoltiamo? Alcuni santi si sono addirittura convertiti in seguito ad una parola ascoltata. Quasi tutti noi, invece, abbiamo letto l’intera Bibbia più volte e il Vangelo migliaia di volte, senza che in noi scattasse qualcosa. Perché? Perché ci fermiamo alla percezione del suono delle parole; ascoltarle invece significa farle risuonare in noi, significa far vibrare le corde della nostra anima.
Nella realtà è difficile che qualcuno ascolti gli altri. Neppure noi, ascoltiamo noi stessi.
Se ci ascoltassimo potremmo scoprire che dentro di noi c’è una folla di personaggi parlanti, che vivono nella scena della nostra anima, e sono tutti da ascoltare, da conoscere. Se ci ascoltassimo di più, avremmo molto meno bisogno di cercare fuori di noi le risposte per la nostra vita: le troveremmo direttamente in noi. Ovviamente è molto più comodo trovare qualcuno che ci dia risposte già confezionate, piuttosto che doverle elaborare da noi: ci costa molto meno fatica! Ma quelle risposte vengono da estranei, mentre le domande sono le mie. Vogliamo qualcosa? Cerchiamola! Se ascoltassimo di più, potremmo non solo ascoltare le parole degli altri, ma entrare anche in contatto con la loro anima. Se ascoltassimo di più, potremmo percepire che il anche il silenzio parla. Se ascoltassimo di più potremmo accorgerci che la realtà non è quella che fantastichiamo noi, ma è quella che viviamo realmente, quella con cui dobbiamo fare i conti. Se ci ascoltassimo di più non condurremmo una vita così assurda. Gli uomini conducono una vita assurda (ab-surdus) perché non si ascoltano, perché non sentono più le esigenze dell'anima, i richiami del profondo, i richiami delle esigenze fondamentali della vita: sono sordi! E se uno è sordo, può succedere di tutto! Così, se sapessimo ascoltare, sentiremmo la profondità e la forza del Vangelo; sentiremmo l'energia e la potenza vulcanica di queste parole.
E invece noi udiamo tutto: sono voci che entrano e che escono; ma sono voci che non si fermano, che non creano vibrazioni, che non si sedimentano.
Siamo chiusi. Quando siamo stati battezzati, il sacerdote ha fatto un gesto: ci ha toccato le orecchie e le labbra: è il rito dell'Effatà, Apriti!; che in pratica significa: “Fa' in modo che le tue orecchie siano sempre aperte, perché se saranno chiuse, tutte le mie Parole non serviranno a niente”.
Se non c'è l'ascolto siamo come Pietro che colpisce con una spada l'orecchio del servo del sommo sacerdote e gliela recide (Gv 18,10-11). Se non ascoltiamo e se non ci ascoltiamo, se non comprendiamo gli eventi, se non abbiamo l'intelligenza spirituale della situazione, non vediamo il senso profondo delle cose, e allora “tranciamo” giudizi superficiali su fatti e persone; parliamo a sproposito: il vaniloquio,è lo sport più amato e più praticato in tutto il mondo; è il parlare per niente, solo perché si ha una bocca ma non un'anima. Chi non ascolta, giudica e giudicherà sempre; e più un uomo giudica, più sarà incapace di ascoltarsi e di ascoltare gli altri.
«Io le conosco ed esse mi seguono».
Conoscere, per noi, significa sapere chi è un tizio, dove abita, quanti anni ha, cosa fa nella vita. Ma che conoscenza è questa? È una raccolta di dati, di informazioni, una conoscenza da carta d'identità.
Per la Bibbia, invece, conoscere è fare un'esperienza, incontrare, sentire, percepire. Quando un uomo conosce una donna, nella Bibbia, nasce un figlio: hanno cioè, un incontro sessuale.
Conoscere è sperimentarsi, incontrarsi. Ci conosciamo non perché sappiamo chi siamo o dove abitiamo o cosa facciamo nella vita. Ci conosciamo se “ci” sentiamo, se avvertiamo ciò che siamo dentro, ciò che proviamo, ciò che vibra in noi. Ci conosciamo se ci incontriamo, se cogliamo ciò che ci abita dentro, ciò che sta in noi, ciò che vive in noi.
Le persone pensano di conoscere solo perché hanno un sacco di informazioni su di sé o sugli altri. È come dire: conosco cos'è un liquore perché ho letto la sua marca sulla bottiglia. Ma conoscere un liquore è berlo, sentirlo, gustarlo, riconoscerne il sapore.
Allo stesso modo possiamo dire di conoscere la parola di Dio, non se l’abbiamo imparata a memoria; ma solo se ne sentiamo le vibrazioni in noi, se avvertiamo in noi la sua potenza e la sua forza, se ci coinvolge e, penetrandoci, ci cambia. Perché è solo questa la conoscenza che ci cambia.
«Le mie pecore non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano».
In greco ƒrpzw vuol dire “rapire, strappare via, prendere, rubare”: tutti noi siamo percorsi da questa paura. È la paura e l'angoscia di perdere la nostra vita, di essere strappati via dai nostri cari; la paura di uscire di casa, la paura che qualcuno entri di nascosto in casa nostra; la paura che qualche malintenzionato faccia del male, rapisca i nostri figli; la paura di perdere la faccia, la fama, il prestigio, i soldi. In certi giorni abbiamo paura perfino di quello che potrà dire il nostro capo, gli amici, la gente, gli altri. In certi giorni abbiamo paura anche di noi stessi, di aver sbagliato tutto.
Ma se ci abbandoniamo a Dio, se ci ancoriamo in Lui, cosa mai può farci paura?
Se ci ancoriamo ai soldi, prima o poi ce li sottrarranno. Se ci ancoriamo all’amore dei figli, un giorno o l’altro, da grandi, potrebbero non darcene più. Se ci ancoriamo a quello che gli altri possono o non possono dire di noi, ci costringiamo a vivere nell'ansia, a controllare ogni nostro movimento, a chiederci sempre: “Andrà bene? Piacerà?”, e in ogni caso, continueremo ad avere sempre dei nemici. Se ci ancoriamo alla salute, sul fatto che oggi non abbiamo bisogno di niente e di nessuno, facciamo attenzione, perché verrà il giorno in cui non basteremo più a noi stessi e avremo bisogno degli altri. Se ci ancoriamo alla vita, di sicuro prima o poi la morte ce la strapperà.
Allora dov'è che possiamo ancorarci in sicurezza? Dov'è che possiamo trovare una roccia che tenga, che non frani sotto i nostri piedi, facendoci precipitare nel buio e nel vuoto?
Solo in Lui. Dio infatti non vuole la nostra fine, la nostra morte: la permette solo perché attraverso lei, impariamo che è Lui l’unica nostra certezza; perché la morte ci metta in contatto con ciò che di più bello Lui vuol darci, con ciò che non abbiamo saputo o voluto imparare durante la vita: il suo immenso amore; un amore che possiamo provare solo abbandonandoci completamente, senza riserve, a Lui.
Verrà un giorno in cui non potremo più contare su di noi, in cui non potremo più controllare tutto e tenere tutto sotto controllo; un giorno in cui non ci rimarrà altro da fare che stendere le nostre mani e lasciarci accogliere nel suo abbraccio. Per molti quel giorno è “morire”, un’esperienza negativa, distruttiva. Ma per noi credenti la morte non è così; per noi è un ritorno, un incontro, un'esperienza religiosa: “Non ho più nulla, se non Te, Signore. Mi fido di Te e mi lascio avvolgere dal tuo amore”.
Per trovare la felicità, fratelli, per trovare la vita vera, dobbiamo rinunciare alla tentazione di possedere, di trattenere qualcosa per noi; perché tutto ci sarà strappato: perderemo tutto, proprio tutto. Seguire Gesù, significa quindi spogliarsi dell’illusione di possedere le cose di questo mondo. Il mondo non sarà mai nostro; non avremo mai alcun potere su di lui; qui tutto è aleatorio, passeggero, deteriorabile. Solo Dio resta: e noi siamo stati creati solo per Dio. Nulla appartiene a noi, ma noi apparteniamo a Lui, e questo ci deve bastare.
Se comprenderemo a fondo questa verità, ci sentiremo al sicuro, rannicchiati nel palmo della mano di Dio; capiremo che quello è l'unico posto in cui potremo avere riposo e felicità; che quella è l’unica nostra ricchezza e salvezza.
Chi ha paura di vivere è perché ha paura di morire; e chi ha paura di morire è perché ha paura di vivere, perché è attaccato a qualcosa che teme di perdere. Chi ha paura di morire è perché non conosce Dio, non ha ancora capito chi Lui sia veramente.
I primi cristiani dicevano: “Ci potete uccidere; potete fustigarci; potete deriderci, considerarci pazzi, prenderci in giro e umiliarci: ma non potete toglierci Dio, la nostra vera Vita, la vita eterna. Potete sottrarci la libertà, la faccia sociale, la reputazione, tutto quello che abbiamo, ma non potete toglierci la nostra dignità: perché noi siamo Suoi. Nessuno può strapparci dalle Sue mani”.
Chi vive così, fratelli, vive davvero. Chi vive così, cosa può temere? Chi vive così non avrà mai alcun timore, perché per quanto una situazione sia drammatica, dura, straziante, egli è nelle mani di Dio, nel palmo delle Sue mani.
Se abbiamo paura, è perché in fondo non ci fidiamo poi così tanto di Dio. Se viviamo nell'ansia è perché, in fondo in fondo, non consideriamo Dio nostro Padre e Pastore. E non ci rendiamo conto con quale e quanta libertà potremmo invece vivere, se solo ci fidassimo di più, se ci abbandonassimo di più in Lui. Amen.
 

giovedì 11 aprile 2013

14 aprile 2013 – III Domenica di Pasqua

«Disse Simon Pietro: “Io vado a pescare”. Gli dissero: “Veniamo anche noi con te”. Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù...» (Gv 21, 1-19).
Se leggiamo questo vangelo come un racconto “storico”, come una cronaca di quanto è successo nei fatti, non riusciamo a venirne fuori. Sono troppe le stranezze, troppe le cose che non tornano. Per esempio: i discepoli, che erano pescatori e conoscevano perfettamente il loro mestiere, pescano tutta la notte senza prendere nulla; ma poi, quand'è mattina - e tutti sanno che non si pesca di mattina! – stando a pochi metri dalla riva, prendono una quantità enorme di pesci! Gli stessi discepoli, che erano stati tre anni con Gesù, quando lo vedono, non lo riconoscono; com'è possibile? Praticamente quando hanno il Signore lì davanti a loro, non si accorgono che è lui; solo Giovanni, e da lontano, se ne accorge; eppure avevano rischiato la vita, avevano abbandonato tutto e tutti per lui, figurarsi se non lo conoscevano! Altro particolare: Pietro è nudo, ma prima di buttarsi in acqua per raggiungere Gesù, si cinge la veste, si mette cioè il vestito; forse che noi quando andiamo a fare il bagno ci vestiamo prima di buttarci in acqua? Che senso ha? Inoltre, perché devono buttare la rete proprio dal lato destro? Quando scendono poi a terra, trovano già il fuoco acceso con tanto di pesci alla brace: ma se tutto è già pronto, che bisogno c’era che Gesù chiedesse se avevano qualcosa da mangiare? E la rete? I discepoli tutti insieme non riescono a trascinarla a riva, tanto è piena di pesci; ma poi Pietro, da solo, la scarica dalla barca e la porta a riva! E la quantità del pescato? Centocinquantatre pesci: avevano per caso contato i pesci uno per uno, per conoscerne il numero esatto?
Un racconto insomma che è tutto un problema. Ma tralasciamo i particolari: fermiamoci piuttosto al messaggio che ne possiamo trarre.
“Vado a pescare”, dice Pietro; e tutti dicono: “Veniamo anche noi!”. Una risposta di automatica, di routine, quella degli apostoli, una risposta senza iniziativa, senza entusiasmo, una risposta “rassegnata”. Quella per loro è una mattina grigia, fiacca, senza entusiasmo, senza passione. Un po’ come lo sono tante nostre mattine.
Infatti, eccoci qua: noi siamo esattamente come gli apostoli. C'è da andare a pescare, e nessuno ne ha voglia. Ma lavorare bisogna; vivere bisogna; fare questo bisogna; come pure fare quell'altro. E continuiamo ad andare avanti così, perché “bisogna”: ma, fratelli miei, che vita è questa? Dov'è il gusto, la gioia di vivere, l’iniziativa e l’inventiva personale? Che tristezza: uno fa una cosa e tutti lo seguono; uno si comporta in un certo modo, e tutti a imitarlo. Qualcuno si pavoneggia per qualche ritrovato d’avanguardia? E noi a fare altrettanto. Gli altri hanno il navigatore, l’iphone, il tablet di una certa marca? Detto fatto, ce l’abbiamo anche noi!
Si, perché noi non solo dobbiamo essere sempre “come” gli altri, ma addirittura “sopra” gli altri: “ma come!? tuo figlio non va in palestra? Ma come!? non avete ancora la tv satellitare? Ma come!? non conoscete ancora quel nuovo congegno, quella nuova marca, non indossate ancora quell’accessorio all’ultima moda?
Purtroppo, oggi il modello di vita è uno solo; uno “status” a cui tutti ambiscono arrivare: lavorare lui e lei, avere una bella casa, uno o al massimo due figli, una vita tranquilla, avere disponibilità economica per le vacanze; potersi permettere, lui una “buona” auto, e lei dei “buoni” vestiti.
Beh, fratelli: è proprio questo livellamento che tutti i sacrosanti giorni ci rende tristi: sogniamo, desideriamo, facciamo tutti le stesse cose. Siamo tutti omologati sullo stesso standard.
Noi stiamo bene, ci sentiamo tranquilli, solo quando siamo esattamente “come tutti”: perché solo se facciamo come tutti, la società, il branco, ci accetta; altrimenti ci esclude, ci giudica, ci mette al bando.
Ma fare come tutti significa essere nessuno; fare come tutti significa rinunciare a noi stessi, alla nostra individualità, al nostro volto, alla nostra personalità. Fare come tutti ci protegge dal giudizio e dall'essere sotto i riflettori, è vero, ma produce in noi un vuoto tremendo.
I discepoli, quella notte, “non presero nulla”. Una constatazione che ci fa percepire la nullità, il vuoto assurdo, appunto, di una vita “trascinata”, di una vita senza entusiasmo, amorfa. Facciamo una prova: chiediamo alle persone: “Perché vivi?”. Vedremo che alcuni non sapranno cosa risponderci e staranno zitti. Altri ci daranno delle risposte a cui neppure loro credono. Pochissimi ci diranno: “vivo per realizzare il potenziale che Dio ha messo dentro di me; vivo e metto tutte le mie energie per fare questo mondo migliore, più vero di quello che è; vivo perché la gente possa essere se stessa; vivo per fare del bene, per disseppellire l'anima delle persone; vivo perché mi sento un balsamo per molti cuori sofferenti (Etty Hillesum); perché sono una matita nelle mani di Dio (Madre Teresa); perché voglio essere per gli uomini l'amore (Teresa di Lisieux)”.
La gente oggi non crede più che si possa essere felici. Crede che “bisogna tirare avanti”, che “bisogna accontentarsi”, che “bisogna prendere quello che viene”. Quanta tristezza, fratelli, si nasconde dietro queste parole: solo rassegnazione, vuoto, sconforto.
“Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù”. È sempre così: Dio c'è già, ma noi non lo vediamo, quindi non c'è.
Lui chiede: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?”. Ebbene, facciamo per un istante mente locale: noi, abbiamo qualcosa che veramente “nutra” la nostra vita? Se siamo onesti, dobbiamo ammettere: “No”. Dobbiamo cioè ammettere che in fondo non siamo affatto felici; che ci sentiamo vuoti, depressi, frustrati; che “svegliarci” la mattina è faticoso, che preferiamo andare avanti “dormendo”, rimanendo tranquilli, senza sussulti.
Beh, fratelli, non possiamo risolvere un problema che non vogliamo ammettere, di cui non accettiamo l’esistenza. La prima cosa da fare è puntare i piedi e dirci: “Così non va!”. E vi assicuro, per fare questo, ci vuole coraggio. Perché è più facile illuderci, è più facile fingere che tutto vada bene: “Abbiamo il lavoro, abbiamo la casa, abbiamo dei figli: non ci manca niente”, e ci trastulliamo in questa illusione. Dimenticando volutamente cos’è la vera felicità. Preferiamo indossare la maschera del “Mulino Bianco”, della famiglia spensierata e felice. Quando invece dentro di noi moriamo di solitudine, di insoddisfazione, di rabbia, di vuoto.
No, fratelli: dobbiamo ammettere che siamo noi gli ammalati; che siamo noi quelli che devono guarire, non gli altri. Dio non ci cambia la vita come pensiamo noi. Ce la cambia, ma non come noi la vogliamo.
«Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». Gesù rimanda i suoi nel mare: ma come, c'erano già stati fino a poco fa e non avevano combinato nulla! È vero: ma ora li manda con un compito ben preciso.
Esattamente come rimanda anche noi nello stesso mare della nostra vita: non ci dice infatti di cambiare lavoro, di cambiare residenza, di andare in Africa o chissà dove. Ci dice semplicemente di fare le stesse cose di prima, ma di farle ora in un altro modo, in maniera “consapevole”. Non possiamo più permetterci di vivere senza un obiettivo “valido” da raggiungere; non possiamo più vivere con la testa fra le nuvole; dobbiamo invece farci domande, dobbiamo osservarci, dobbiamo studiarci; dobbiamo guardarci come reagiamo, dobbiamo chiederci cosa ci appassiona, cosa vogliamo esattamente da noi, dalla vita.
Noi illudiamoci che tutto quello che ci serve, che ci soddisfa pienamente, stia al di fuori di noi. Nossignori: tutto ciò che riempie le nostre reti, cari fratelli, ciò che ci fa cantare dalla gioia, che ci fa sentire tutti uniti e amati dallo stesso Dio; ciò che ci rende così felici e vivi da ringraziarlo giorno dopo giorno; ciò che fa esplodere tutta la nostra energia interiore, bene: tutto questo non esiste fuori, ma soltanto dentro di noi.
Ecco perché dobbiamo ripristinare il “contatto” con noi stessi; dobbiamo tornare ancora dentro il nostro mare, dentro di noi, se vogliamo che le nostre reti (l'anima) tornino piene, colme, di Dio. Dobbiamo imparare a conoscerci bene: non possiamo più fuggire di fronte ai nostri “mostri”, alle nostre debolezze, ma dobbiamo familiarizzare con loro; non possiamo più nascondere i nostri istinti, ma dobbiamo farceli amici; dobbiamo essere in grado di padroneggiare quel mare burrascoso che è dentro di noi, se vogliamo che la nostra vita si riempia di Vita, di Dio.
È stato proprio questo il miracolo degli apostoli. Trovarono Dio nella loro vita ordinaria, di tutti i giorni. E la loro vita non fu più la stessa, tutto cambiò.
Giovanni, colui che lo riconosce, è il discepolo che Gesù amava: se non amiamo Gesù, se non amiamo e non siamo attratti da ciò che abbiamo dentro, se non riusciamo a fare “bonaccia” dentro di noi, se non desideriamo fare chiarezza nel nostro cuore, non potremo mai “vedere” il Signore. Non servono programmi strabilianti: Giovanni si è reso conto improvvisamente che “È il Signore!”, mentre faceva quello che aveva sempre fatto: il pescatore. Ma da lì, la sua vita è cambiata.
Il giorno in cui, pieni di entusiasmo, di stupore, di meraviglia, di sorpresa, potremo finalmente esclamare: “È il Signore!”, allora anche la nostra vita inizierà a cambiare.
Potremo “vederlo” (non pensarlo), potremo percepirlo, proprio attraverso quei piccoli eventi che accompagnano la nostra vita di tutti i giorni: quando riusciamo a dare una “risposta” diversa dalle solite; un “no” che prima non dicevamo; una fragilità che riusciamo ad ammettere; uno “scusami!” che finalmente riusciamo a pronunciare; un lasciarci andare alle piccole emozioni della vita: per un incontro che non ci aspettavamo, per un tramonto o una passeggiata solitaria, per uno sguardo o un sorriso rasserenante di una persona cara, per una complicità con i fratelli, con chi ci sta a cuore, con chi soffre, ecc. Ecco, è anche in questi casi che potremo veramente dire: “È il Signore!”.
Noi pretendiamo invece di incontrare Dio nelle visioni, nelle apparizioni, nelle estasi, negli eventi soprannaturali: per questo lo cerchiamo “fuori”. È invece nella nostra vita che Egli si lascia “vedere” continuamente. Nell’umiltà, nel silenzio, nell’autenticità.
A volte invece, noi siamo presi dall’eccezionalità, dalla ricerca affannosa di esperienze forti, decisamente “mistiche”: vaghiamo da un’apparizione all’altra, da un santuario all’altro, senza renderci conto che forse tutto questo nostro cercare proviene più da un nostro bisogno di sensazionale, di estemporaneo, piuttosto che da una nostra convinta, intima necessità, di “vedere”, di “incontrare” il Signore.
Dio c'è dove noi siamo in grado di “poterlo vedere”, cioè col cuore puro e con la mente retta. Altrimenti è una “idea” vaga di Dio, quella che noi inseguiamo, un’idea che noi ci siamo costruiti solo nella nostra testa: nient’altro. Se viviamo con questa illusione, ricordiamocelo, sarà molto difficile, se non impossibile, incontrarlo veramente.
Lui è più vicino a noi di quanto pensiamo. Gli apostoli hanno fatto la loro pesca eccezionale a cento metri dalla riva. Non in alto mare!
Ascoltiamo piuttosto la sua voce. È una voce intima, non un urlo! Egli ci chiede insistentemente, ma sommessamente, quanto noi siamo disponibili ad amarlo. Non per mari, non per monti. Ma nella nostra quotidianità. Quello che conta è la nostra risposta, perché Egli non chiede altro che amore. E solo allora, solo quando gli avremo assicurato tutta la nostra adesione, Egli ci dirà, come già a Pietro: “Seguimi!”. Seguirlo, significa camminare dietro a Lui, seguire i suoi passi, non correre a destra o a sinistra, da un posto all’altro, seguendo le nostre voglie del momento.
Ecco, fratelli: lasciamo che sia Dio a portarci, anche se non sappiamo dove stiamo andando, anche se non vorremmo andarci, anche se a volte gli resistiamo con tutte le nostre forze. È vero: ciascuno di noi vorrebbe essere lui a decidere per la propria vita, a tenerla in pugno ed essere lui a stabilire dove andare. Ma seguiamolo lo stesso! Avere “fede”, amare Dio, significa infatti lasciare spazio a Dio: lasciare che sia Lui a condurci, a portarci, a dirigere la nostra vita.
Chi dice che Dio infatti non voglia proprio rovesciare la nostra vita? Chi dice che Dio non voglia qualcosa di grande da noi? Chi dice che Dio non stravolga tutte le nostre sicurezze, le nostre idee, per seguirlo? Chi dice che Dio non ci aspetti anche nel dolore, nelle avversità della vita, per consentirci di cambiare radicalmente il nostro carattere, di trasformarci in persone completamente diverse? Chi dice insomma che Dio non scombini questa nostra vita, che noi ci sforziamo invece di costruire secondo i nostri calcoli? Noi continuiamo a vederci sempre come siamo ora: continuiamo a fare progetti senza pensare mai che la nostra vita potrebbe invece cambiare radicalmente dall’oggi al domani!
In ogni caso, Signore, qualunque sia il tuo progetto su di noi, dovunque vorrai condurci, te lo assicuriamo sin d’ora, noi ti seguiremo. Sempre. Perché sappiamo che tutto quello che fai, lo fai per il nostro bene. Amen.
 

giovedì 4 aprile 2013

7 aprile 2013 – II Domenica di Pasqua

«Mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». (Gv 20,19-31).
Il Vangelo di oggi cerca di spiegare cosa vuol dire “vedere” il Signore, il Risorto, nella vita di tutti i giorni. È la domanda che tutti noi ci facciamo: “Come possiamo vedere Dio? Come possiamo incontralo?” Dove e quando? Pensiamo che incontrarlo significhi vederlo fisicamente: “Se lo vedessi... Se avessi una visione... Se mi facesse un miracolo, allora sì crederei!”. Ma Dio non lo possiamo incontrare così, fisicamente, come vorremmo noi. Fisicamente Dio si è incarnato una volta, si è manifestato in Gesù: ma Gesù è morto duemila e più anni fa e la cosa, dopo alcune apparizioni ai suoi, nei giorni precedenti l’ascensione, è finita li.
Ma allora come, dove, quando, noi possiamo fare esperienza, incontrare il Signore della Vita?
Lo possiamo solo attraverso gli occhi della fede: accostandoci all’Eucaristia, avvicinando il nostro prossimo, il fratello sofferente, il fratello ferito nel cuore, il fratello calunniato, insultato, deriso… È così che possiamo oggi vedere Gesù in carne e ossa. Beh, a parole è semplice, ma non nei fatti, anche perché talvolta questo “fratello” è proprio il nostro “peggior nemico”, uno che ce ne ha fatte passare di tutti i colori! Come dobbiamo comportarci allora? Dotando la nostra vita di amore, di carità, di perdono; virtù che possiamo trarre dall’Eucaristia. Dobbiamo amare, perdonare, perdonare sempre. La vita di Gesù è costruita tutta sul perdono, sull’amore. Ricordate i momenti tragici vissuti dai discepoli subito dopo l’uccisione del Maestro? Ce lo suggerisce Giovanni, facendoci intravvedere i pensieri che opprimono il cuore dei discepoli in queste ore, subito dopo l’uccisione di Gesù.
È una situazione molto difficile la loro. Si sono rinchiusi per la paura. Il loro cuore è carico di preoccupazioni, di ansia: “ciò che è successo a Lui, può succedere anche a noi”. Sono pieni di tristezza, ma sono anche pieni di rabbia per come ciò è accaduto: l’hanno ucciso come un malfattore, un ladro, un delinquente. Ed essi sanno che l’hanno fatto ingiustamente, per invidia, in maniera crudele, pretestuosa, falsa.
Per questo, quando Gesù appare loro, la prima cosa che dice è: “Pace a voi”. Egli sa che la loro anima è nella tempesta, che il loro cuore è stravolto soprattutto dalla rabbia e dall'odio.
Gesù infatti, augurando la “pace”, vuol dire: “Perdonate, lasciate andare (“rimettere”, in greco f°jmi, è “lasciar andare, lasciar perdere”). Il senso delle parole di Gesù è molto semplice, e Giovanni, il discepolo dell’amore, il “discepolo che Gesù amava”, ce lo sottolinea di proposito; anzi lo pone come “ambientazione”, come condizione essenziale per poter vedere Gesù: “Perdona, lascia andare, piuttosto ama”. “Perdonare i fratelli” vuol dire allora “buttar fuori” tutti i risentimenti che coviamo dentro (odio, rabbia, dolore, vergogna, ecc.), svuotare completamente il nostro cuore; liberarlo, rinnovarlo. Vuol dire non trattenere niente dentro di tutto ciò che ci turba, e accettare la realtà, vivere la vita così com'è, con i suoi alti e i suoi bassi, con le sue soddisfazioni e le sue contrarietà. Se non perdoniamo rimarremo ancorati tutti i giorni alle ferite del nostro cuore; e tutti i giorni ci sentiremo traditi, oltraggiati, uccisi.
Non perdonare significa “trattenere”: e in questo caso la vita, fratelli miei, non scorre più.
Se noi “tratteniamo” le emozioni, la rabbia, l'odio, ponendole come una diga verso l’esterno, non potremo più alimentare il nostro cuore con la vitalità, la carità, l’amore. Diventiamo aridi, secchi, avvelenati. È per questo che spesso siamo infuriati, arrabbiati, nervosi: perché non perdoniamo, tratteniamo tutto e non c’è più posto per l’amore.
Gesù diceva agli apostoli: “Se entrate in una città e non vi accolgono, vi rifiutano, vi giudicano, non fatene una questione personale. Scuotete la polvere dei vostri sandali e andatevene tranquillamente” (Lc 10,11). Cosa vuol dire? Vuol dire: “Perdonate!”. Non facciamone una questione personale: ci hanno rifiutato, ci hanno detto di no? esprimiamo il nostro dolore, la nostra rabbia ma lasciamo quel dolore lì, non portiamocelo dietro. Lasciamo andare.
Del resto, altra verità, l'amore nasce proprio dalla nostra vulnerabilità, dall'incontro con le nostre ferite.
La prima volta che Gesù appare non c'è Tommaso. Tommaso non crede. Per credere deve toccare le ferite: mani e costato. Deve fare esperienza diretta col dolore. Tommaso, chiamato “Didimo” (in greco significa “gemello”), rappresenta tutti noi: c'è una parte di noi che crede e una parte che non crede; in ciascuno di noi ci sono due persone gemelle, ma contraddittorie.
E qui Giovanni ci dice proprio che per incontrare Gesù dobbiamo “incontrare” le nostre ferite; dobbiamo mettere il dito nelle piaghe del nostro cuore. Dobbiamo cioè “separare” semplici sensazioni dall’amore vero. Dobbiamo fare un passaggio decisivo dall’io al noi. Mi spiego.
Per Maddalena Gesù era tutto: lei era totalmente “dipendente”, da Lui: grazie a Lui era guarita da sette demoni. È chiaro che Gesù era il suo “amore”: lei era morta, era pazza, era indemoniata, e Lui l'aveva guarita. È ovvio anche per noi attaccarci a chi ci ha dato la vita; è ovvio che non possiamo non amare chi ci ha ridato dignità; è ovvio che non possiamo non essere per sempre grati a chi ci ha salvato e guarito. Lo siamo per i genitori che ci hanno dato la vita fisica, lo siamo altrettanto per chi ci dà la vita del cuore.
Lei ha amato Gesù, lo ha toccato, lo ha abbracciato. Certamente fra lei e Gesù c'è stato un rapporto particolare, speciale, un rapporto d'amore vero e puro. Poi “glielo” hanno portato via: così va comunque al sepolcro, e se non può stare con il corpo vivo del “suo amore”, ci starà con il corpo morto. Ma là non trova più neppure quello! Lei infatti sente Gesù come cosa “sua”: “Hanno portato via il mio Signore”: quando amiamo, sentiamo l'altro come nostro; lui ci appartiene e noi gli apparteniamo. Sentiamo di non poter vivere senza di lui; sentiamo che la vita non ha senso senza di lui, senza quel rapporto, senza quell'amore. Ebbene: quello che vuol indicarci Giovanni è Il grande passaggio di Maddalena: il suo è un passare dall'amore perché “sei mio”, all'amore “sei di tutti”, “sei della Vita”; dall'amore “ce l'ho vicino” (l'amore fisico, esterno, di presenza, di vita), all'amore “ce l'ho nel cuore” (l'amore interno, dell'anima).
E se fuori i nostri amori ci possono essere sottratti, dal nostro cuore nulla ci può essere rubato. Dentro di noi non perdiamo mai chi amiamo, nulla potrà mai esserci veramente sottratto, mai!. È questo il grande passaggio: dall'amore di attaccamento all'amore di libertà. Gesù le dirà: “Non mi trattenere”: “Lasciami andare, non sono tuo, sono mio e della Vita. Non ti attaccare”. Amiamo le persone ma non attacchiamoci ad esse perché non sono nostre; godiamo di loro e viviamo dell'amore, ma non facciamo del nostro legame un idolo e un possesso. Quando la Maddalena, dopo la sua “conversione interiore”, torna dai discepoli, dice: “Ho visto il Signore”; non dice più “il mio Signore”. Lei continuerà ad amarlo dentro di sé, ma non è più suo: lo ha lasciato andare. È il grande passaggio: ma se muore l'amato, non muore l'amore.
Così, quando arriva la Maddalena e annuncia ai discepoli la scomparsa di Gesù, Pietro e Giovanni corrono a vedere. Non è la corsa dei due discepoli che Giovanni vuol farci rimarcare. Egli vuol dire appunto qualcos'altro di molto più profondo.
Pietro è la testa, l'intelligenza, la razionalità, la concretezza, la praticità delle azioni e dei pensieri. Arrivati al sepolcro, lui entra e vede “le bende per terra e il sudario”, ma non ci capisce nulla. Per Giovanni è diverso: di lui dice infatti che “vide e credette”; di Pietro dice semplicemente che “vide”, ma non che “credette”. Credere è amare. Pietro la razionalità, Giovanni l’amore: egli giunge per primo, ma dà la precedenza al secondo, alla “razionalità”: a lui basta un colpo d’occhio dall’esterno; vede e crede. Non è un caso il suo; egli rappresenta il cuore, l'amore, il sentire, la sensibilità, colui che è vicino al cuore di Gesù, della Vita. È colui che è in grado di percepire con “l'interno”.
Ecco, questo è il messaggio di Giovanni. Azzardo una sintesi: nessuno potrà mai vedere Dio, se il suo cuore non è vivo, non è in grado di percepire, di sentire, di vibrare alla Vita. Anche qui c’è dunque un “passaggio”: Pietro, dopo la sua conversione, diventerà quello che Giovanni è; Giovanni invece è già quello che Pietro sarà. Il grande passaggio è aprire il proprio cuore all’amore, è tornare a sentire il palpito della Vita. Il Vangelo non ha dubbi: se vuoi “vedere il Signore” il tuo cuore deve essere vivo.
Altra considerazione: l’importanza delle “ferite”, del dolore. Quando la nostra anima grida di dolore, noi cosa facciamo? Abbiamo paura: cerchiamo di non sentirla. Abbiamo dei bisogni? cerchiamo di ignorarli. Abbiamo subito un trauma? meglio lasciarlo da parte. C'è qualcosa da affrontare? meglio non farlo, perché poi nascono problemi.
Ma Giovanni dice: “Bisogna toccare le ferite; bisogna mettere il dito sulla piaga, bisogna curarla; perché finché una ferita è viva, continua a sanguinare, ci fa urlare, ci impedisce di vivere e soprattutto ci impedisce di amare”.
Le ferite ci rendono vulnerabili. Nessuno di noi vuole soggiacere, nessuno di noi accetta di essere ferito; siamo tutti diffidenti; e lo saremo finché non scopriremo l’Amore, il più grande, quell’Amore che ha sopportato le più strazianti ferite, che ha affrontato perfino la morte per amore nostro.
Rifugiamoci anche noi, allora, nel “cenacolo”: predisponiamoci ad incontrarlo veramente. Andiamo in chiesa, con il nostro cuore ferito: chi di noi non ha ferite? Chi di noi a sua volta non ha ferito? Andiamo in chiesa con le nostre mani ferite: sono state legate, inchiodate, paralizzate, è vero; ma le “nostre” mani hanno anche colpito, umiliato e ferito i fratelli.
Andiamo in Chiesa a incontrare Gesù, perché si posi nella nostra mano e ci guarisca (la comunione). E poi mangiamolo, Gesù, perché entri nel nostro cuore, lo guarisca e lo risani. Ecco, fratelli, la Pasqua domenicale, l’Eucaristia è proprio questo incontro che ci ridà la forza di guardare a ciò che ci fa male, a ciò che non va, a ciò che non ci piace, a ciò che metteremo in un angolo, che non vorremmo mai vedere.
L'Eucarestia ci dà la forza per toccare le nostre ferite, per metterci mano, per guardarle in faccia. In questo senso l'Eucarestia è terapeutica, risanatrice, curativa, lenitiva, trasformativa.
Giovanni vuol dire proprio questo: che l'incontro con l’Amore, con l’Eucarestia, è un incontro che ci salva, che ci guarisce. E ci offre tante allusioni all'Eucarestia con le parole di oggi: “il primo giorno dopo il sabato”, è la domenica, è il giorno del Signore, il giorno dell'Eucarestia. “Pace a voi” è il saluto di Gesù, è il saluto delle prime comunità cristiane che si ritrovavano per il banchetto eucaristico. Il “toccare” è il segno domenicale del toccare/ricevere il corpo di Cristo. “Mio Signore e mio Dio!” è ciò che ci deve succedere in ogni eucarestia: un'esperienza, un incontro vivo. In ogni messa noi dobbiamo far esperienza del Risorto, toccarlo, sentirlo.
Tommaso non rappresenta colui che dubita, ma colui che deve fare esperienza per poter credere. Del resto, vale per tutti: non possiamo credere in qualcosa che non abbiamo conosciuto, sentito, visto, toccato, percepito.
“Beati quelli che pur non avendo visto crederanno”: dalla morte di Gesù, come abbiamo detto, non è più possibile vederlo fisicamente: ma possiamo vederlo e sentirlo interiormente sia nell’eucarestia, come nei nostri fratelli.
Ma dobbiamo fare attenzione: non confondiamo il fine con i mezzi.
I “mezzi” - il canto, le letture, la celebrazione, le parole, i bei riti, la liturgia - ci devono servire solo per arrivare ad incontrare il “fine”, Gesù in persona. Ma se la messa non è un'esperienza, un vero incontro, se noi non usciamo dalla messa con la sensazione chiara, netta, definita, di averlo sentito vivo in noi e in quella comunità, la nostra messa è stata inutile, non è servita a nulla. Come facciamo a ricaricarci, trasformarci in Amore? Cosa riusciremo poi a trasmettere nella carità ai fratelli? Penso che a questo punto dobbiamo farci delle serie domande: perché, fratelli, l'Eucarestia, è rendere vivo, incontrare un Vivo, non un morto! L'eucarestia non è il semplice ricordo di un fatto storico, ma è fare esperienza del Risorto oggi. L'eucarestia è un'esperienza sanante, guaritrice, un incontro con Colui che è la Vita e che ci fa vivere. E se un incontro c'è, si vede, si sente, si percepisce anche all’esterno, perché ci cambia. Altrimenti non c'è incontro, ovvio!
Allora chiediamoci: le nostre Messe sono esperienze di Vita, esperienze del Signore Risorto? Oppure rispondono ad un’usanza, a un qualcosa che “dobbiamo” fare perché gli altri lo fanno? Quando usciamo ci sentiamo trasformati? Parlano al nostro cuore, lo fanno vivere, lo fanno vibrare? Quando ci accostiamo all'Eucarestia cosa cerchiamo? Il corpo vivo e palpitante di Cristo cosa rappresenta per noi? Un'esperienza, un anestetico, un calmante oppure la vera Vita? Possiamo dire dopo un'Eucaristia: “Sì, o Signore, io ti ho visto, ti ho toccato, ti ho incontrato, ho sentito la tua voce parlare al mio cuore?”. È questo incontro, fratelli, che accresce la nostra Vita. Perché Lui è la Vita, e incontrarlo significa vivere veramente e far vivere di più. Amen.
 

mercoledì 27 marzo 2013

31 Marzo 2013 – Pasqua: Risurrezione del Signore

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!» (Gv 20,1-9)
Gesù è risorto. Nessuno ha trafugato il suo corpo, cara Maddalena. Egli ha semplicemente e definitivamente sconfitto la morte! Come?
Cerchiamo di rivivere con la memoria gli eventi tumultuosi di questi ultimi giorni.
Quando Gesù viene arrestato, una cocente delusione assale tutti quelli che lo hanno seguito fin là. I più fuggono, si disperdono; tornano alle loro case, in Galilea. Pensano: “È tutto finito! È stato bello, meraviglioso, ma adesso… che fallimento!”. Si sentono a pezzi, morti dentro. Solo alcune donne trovano il coraggio di seguirlo, anche se da lontano, fin lassù sul Golgota, per assistere alla sua straziante morte. Compiuto l’irreparabile, insieme a Giuseppe d’Arimatea, curano la deposizione nel sepolcro di quel corpo così barbaramente martoriato. Devono fare in fretta: l’indomani infatti è già la Parasceve, giorno dedicato ai preparativi per la festa del Sabato.
Giunta poi la domenica, al mattino presto, vogliono completare con calma il rito della sepoltura, e si avviano al sepolcro portando oli profumati e unguenti.
Ma si trovano improvvisamente di fronte all’impensabile, all’imprevedibile: il sepolcro è vuoto! La pesante pietra posta a chiusura dell’ingresso - che così tanto le preoccupava - è rimossa; la tomba è vuota. Qualcuno ha sicuramente rubato il corpo di Gesù! Corrono allora ad avvisare Pietro e gli altri, i quali, giunti affannosamente sul luogo, non possono far altro che constatare la realtà. Ma non è così, non è questa la realtà. E nel loro cuore se ne rendono poi conto, perché quel Gesù che credevano morto, davvero finito, davvero sepolto, improvvisamente lo sentono vivo: la sua è una presenza così potente, così inequivocabile, così indiscutibile, da escludere ogni possibilità di errore. E non è finita: a questo miracolo se ne aggiunge un altro, un miracolo ancora più sensazionale; questa volta constatabile da tutti, visibile a tutti: quegli stessi discepoli, cioè, che il venerdì erano disperati ed erano fuggiti in preda alla paura e al terrore, alcune settimane dopo, a Pentecoste, annunciano senza più paure, che quel Gesù dato per morto, è effettivamente e realmente risorto.
E per lui vanno in prigione, per lui accettano derisioni, umiliazioni, percosse; ma nulla riesce a fermarli più. Per Lui possono anche morire, e molti di loro vengono davvero giustiziati: ma nulla li ferma. C'è in loro un fuoco che non si spegne mai.
Ebbene, fratelli, tutto questo è successo e ne siamo certi; anche se umanamente non riusciamo a spiegare come abbia potuto succedere in loro - in un tempo tanto breve - un cambiamento così radicale, così profondo, così decisivo; ora sono esattamente l’opposto di come erano prima, sono completamente cambiati, non sono più loro, dimostrano di essere guidati interiormente da una forza divina inarrestabile, dirompente, e sono convintissimi di quel che dicono: “Il Signore è risorto, noi lo abbiamo visto! Il Signore è vivo, lo sentiamo, è dentro di noi, vive in noi e con noi”.
Ecco, la “resurrezione” degli apostoli è tutta qui: è questa esperienza inaspettata e incredibile che essi hanno fatto proprio quella domenica mattina, esattamente come ce la descrive il vangelo di Giovanni.
Lui, molto più giovane, e Pietro, si fanno una bella corsa. Giovanni descrive nei minimi particolari il fatto: chi arriva prima e non entra, e chi arriva dopo ed entra. E dice anche che il primo, in questo caso lui stesso, vede e crede; mentre il secondo, Pietro, no.
Pietro, infatti, (Cefa, significa appunto “pietra”, duro, ostinato), nel vangelo è colui che vuol capire con la testa, è solo razionalità. Giovanni, che nel suo vangelo si definisce semplicemente “quello che Gesù amava” è, come dice il nome, amore, intuizione, sentimento, interiorità, vibrazione.
La mente razionale controlla il sentimento, cerca di contenerlo, perché il sentimento è come un'onda d'urto molto forte. La mente serve per capire (è Pietro che entra per primo!), per spiegare, per interpretare. Ma l'organo della vita è il cuore, è l’anima; se la mente arriva a percepire la vitalità, lo stupore, la fede, la conoscenza di Dio, ciò che fa “capire” è il cuore; serve l’anima.
Gesù risorto, Cristo resurrezione, Fede, Vita, Amore, è una persona di cui inebriarsi, appassionarsi, innamorarsi. Appartiene al cuore.
Così Pietro, la mente, la durezza, quando non vuol far spazio alla vita che c'è in lui, non vede nulla. E anche se vede, quello che vede non provoca niente in lui.
Giovanni al contrario, Giovanni l'amore, l'interiorità, il sentimento profondo, non solo vede ma immediatamente capisce tutto.
È questo che dobbiamo imparare, fratelli. Quando parliamo con una persona che amiamo, guardiamola negli occhi, entriamole dentro. Ascoltiamo non tanto cosa ci dice ma le vibrazioni del suo cuore; cogliamo la sua tristezza, la sua gioia, il suo slancio, la sua meraviglia, il suo amore. Così quando cantiamo o preghiamo, fermiamoci, e ascoltiamo il nostro cuore dentro di noi: le sue vibrazioni provocano emozioni profonde, fanno risuonare le corde della nostra anima. Quando siamo in chiesa, facciamo silenzio, mettiamo da parte ogni pensiero e ascoltiamoci. Allora potremo percepire forte e chiara la presenza di Qualcun altro dentro di noi. Impariamo a farlo spesso: ogni tanto fermiamoci e ascoltiamoci. All'inizio magari, dal nostro cuore usciranno demoni e mostri. Ma se avremo pazienza, con calma, nel silenzio, nel tempo, scopriremo dentro di noi una musica celestiale, una sorgente inesauribile di vita e di luce.
La nostra “Resurrezione” è infatti questo poter cogliere l'invisibile nel visibile. Il soprannaturale nel naturale, nella vita di ogni giorno.
Ma ci servono degli “occhi speciali”, gli occhi della fede, quegli occhi che oltrepassano la soglia della materia, che colgono la vera realtà delle cose. Con la resurrezione di Gesù di Nazaret, noi “risorti” possiamo affermare: “Dio è qui”. L'Invisibile è entrato nel visibile. Dobbiamo solo cercarlo, dobbiamo solo conoscerlo, dobbiamo solo scovarlo.
Il vangelo ci dice che Maria di Magdala si reca di buon mattino quand'è ancora buio. Sono due situazioni opposte: “di buon mattino” vuol dire “luce”; “quand'era ancora buio” vuol dire invece “notte”. Apparentemente sono una contraddizione, ma in realtà esprimono due aspetti di uno stesso, unico evento: nel cuore di quella donna e dei discepoli, tutto è finito, tutto è ancora buio, notte. Ma sta per accadere qualcosa di unico: la luce, la Vita, la vitalità, sta per sorgere.
Ogni volta che diciamo: “È tutto finito”, dobbiamo essere convinti invece che sta nascendo qualcosa. Un qualcosa però che si pone su un altro livello, più in alto. Un qualcosa che ci chiede di fare un salto di qualità, un salto di fede, un salto evolutivo.
La fede infatti significa potersi fidare, perché in tutto ciò che succede, noi siamo sempre sostenuti; in tutto ciò che ci succede, c'è Dio che tenta di plasmarci, di forgiarci, di purificarci, di migliorarci. Tutto ciò che ci succede è un bene per noi. Certo, a volte è doloroso, a volte è duro, a volte non è piacevole, ma è comunque necessario, perché ogni cosa che ci succede, ogni evento della nostra vita, tutto tenta di farci andare proprio dove dobbiamo andare.
Se rimaniamo a livello di storia, come è successo per gli apostoli, diciamo: “Che disastro! Tutto è finito! Gesù è morto”. Ma se riusciamo a compiere il “salto” di fede esclamiamo: “Che bello! Gesù è risorto, tutto ha un senso! Grazie!”.
Ogni fatto grave, per quanto grave sia, se noi riusciamo a fare questo salto di fede, di evoluzione, da buio pesto diventa “luce” sfolgorante; diventa vita, resurrezione.
L’ostrica contiene la perla: ma per prenderla dobbiamo aprirla. Ogni scrigno può racchiudere un tesoro, ma dobbiamo guardare bene dentro. Così ogni morte racchiude una vita, e ogni notte è preludio di un’alba.
Se quindi noi rimaniamo allo stesso livello e non facciamo il salto, tutto ciò che succede è buio, notte, morte. Al contrario se facciamo quel salto, tutto diventa prezioso, grazia, benedizione, gratitudine. Ma quel salto, fratelli miei, non lo può fare nessuno al posto nostro, dobbiamo farlo noi stessi!
Noi spesso ci arrabbiamo perché succede quello o quell'altro, perché il collega, l’amico ci ha fatto questo, la moglie, il marito, il confratello, quello; ci irritiamo perché i figli non fanno quello che vogliamo noi, perché il mondo non va come vorremmo. Ma vivere così non serve. Dobbiamo fare il salto di resurrezione, il salto che ci trasporta dalla materia allo spirito.
Qual è il tesoro racchiuso in questa situazione? Qual è la perla per noi? Che cosa ci spinge a migliorare? Qual è il valore che dobbiamo imparare?
Facciamolo questo nostro salto; non rimandiamo, non ragioniamo, non sottilizziamo sempre e tutto. Non accusiamo il mondo, non accusiamo sempre gli altri. Il mondo non ha nulla di male e gli altri non sono noi. Troviamo la perla, il tesoro, il dono per noi. Allora tutto è accettabile; magari difficile, ma con un nuovo significato.
Poi, un giorno, la morte ci comparirà improvvisamente davanti e noi diremo: “Oddio! È già ora?”. Magari urleremo: “No, non vogliamo. No, non è giusto!”. Certo, avremo tanta paura. Ma se saremo allenati a guardare con gli occhi della fede, allora potremo serenamente dire: “Suvvia, torniamo a Casa! Andiamo incontro alla Vita!”. Ebbene: anche quella sarà la nostra resurrezione. Amen
 
 

mercoledì 20 marzo 2013

24 Marzo 2013 – Domenica delle Palme

«Passione di nostro Signore Gesù Cristo, secondo Luca» (Lc 23,1-49).
Ogni evangelista, nel raccontare la passione di Gesù, ci mostra di lui un volto diverso. È lo stesso racconto, ma ognuno ne sottolinea un suo punto di vista, una immagine “sua” di Gesù. Questo ci ricorda che i racconti della passione, oltre che verità storiche, sono esperienze, racconti con cui chi ha scritto voleva dirci chi era Gesù, secondo il suo punto di vista.

a) Per Marco Gesù è l'abbandonato. Tutti lo abbandonano, ma proprio tutti. I discepoli dal monte degli Ulivi in poi lo abbandonano: mentre Gesù prega si addormentano per ben tre volte; Pietro impreca e nega di conoscerlo, Giuda addirittura lo tradisce.
Tutti fuggono: uno perfino lascia lì la veste pur di allontanarsi da Gesù. Romani e Giudei sono cinici: lo lasciano appeso alla croce sei ore e durante tutto questo periodo lo prendono in giro e lo deridono. Perfino quando Gesù muore: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” lo deridono. Eppure il velo del tempio si squarcia e il centurione afferma: “Veramente quest'uomo era figlio di Dio”. Sono due segni chiari che attestano che, nonostante l'abbandono in cui Gesù è lasciato, Gesù non è un falso profeta.
La passione di Marco ci aiuta quando ci sentiamo soli, quando tutti ci sono contro, quando noi stessi crediamo di aver sbagliato tutto o di essere noi stessi sbagliati.
Guardiamo Gesù e lo vediamo amareggiato: perfino i suoi amici più cari, quelli più intimi, quelli con i quali aveva condiviso le gioie e le fatiche, quelli che avevano detto: “Noi, non ti abbandoneremo mai; noi ci saremo sempre per te; su di noi puoi contare”, perfino quelli adesso se ne sono andati.
Ma ciò che è più drammatico è che perfino il suo Dio non parla, è in silenzio, tace. Forse anche lui lo ha abbandonato? Forse Gesù ha davvero sbagliato tutto?
In certi momenti della vita ci capiterà di credere di aver sbagliato tutto. Ci capiterà di aver voglia di farla finita, di toglierci di mezzo; ci capiterà di sentirci soli, abbandonati e traditi. Ci capiterà di essere additati, ridicolizzati, presi in giro, beffeggiati e umiliati.
Eppure Gesù non si sbagliò. Guardando a Lui, che credette in ciò che aveva dentro al di là di tutto e di tutti, voglio credere in me e in ciò che abbiamo dentro. Guardando a Lui andiamo avanti.
Quando leggiamo il vangelo di Marco osserviamo cosa può produrre la paura nelle persone: le fa abbandonare, tradire, negare chi amano. Nessuno si schierò con Gesù; nessuno prese le sue parti, nessuno si espose. Tutti ritennero più opportuno rimanerne fuori, non impicciarsi, non cercarsi rogne. Magari lo amavano; magari lo sentivano veramente come la loro vita, ma la paura li portò a negare i loro sentimenti d'amore.

b) Matteo, che in parte ricalca Marco, si pone una grande domanda: chi è il colpevole della morte di Gesù?
Per Matteo tutti contribuiscono a loro modo alla morte del Signore. Tutti ne hanno una parte: chi direttamente, chi indirettamente; chi agendo, chi non agendo.
Giuda? Giuda s'impicca perché si rende conto di essere stato un burattino in mano ai sommi sacerdoti. Giuda è nient'altro che una piccola pedina di uno scacchiere molto più grande. È un fantoccio che per denaro, per opportunità, vende il Signore e tutto sommato se stesso. Poi schiacciato dal senso di colpa, non regge e si uccide.
Giuda sono tutti quegli uomini che vendono ciò che hanno di più bello alla causa del lavoro, del denaro e dei soldi. Lavorano sempre, fanno orari impossibili, perché così “otterranno”. Ma non si accorgono che in questo modo stanno vendendo l'anima; non si accorgono che mettono sempre qualcos'altro prima dello spirito e dell'anima. Poi un giorno si svegliano e si accorgono di essere vuoti, insoddisfatti, senza niente, e si lasciano andare alla deriva, come se fossero già morti.
Pietro? Pietro è l'uomo del grande entusiasmo: “Io non ti rinnegherò mai”. Pietro fa grandi proclami, che poi si sciolgono come neve al sole e per ben tre volte tradirà il suo maestro e amico. Pietro, sono tutti coloro che non si conoscono, ma che credono di spaccare il mondo. Fanno grandi proclami, si augurano amore eterno, si giurano che saranno sempre fedeli e ne sono convinti. Ma in loro o c'è tanta innocenza o troppa presunzione o semplicemente tanta ignoranza: non si conoscono. Non conosco le esigenze e le difficoltà della fedeltà.
Pilato? Pilato se ne lava le mani e con questo gesto crede di tirarsi fuori, di essere esente da responsabilità. La sua stessa moglie lo aveva pregato di non avere a che fare con quell'uomo. Pilato, sono tutti quelli che dicono: “Io non c'entro”, e si credono a posto, si sentono tranquilli. Se c'è un problema, ma non mi riguarda direttamente, meglio lavarsene la mani. Se c'è chi soffre cosa c'entro io? Che ci pensino quelli delegati e preposti a questo!
E la folla? La folla è “il popolo bue” che si lascia condizionare dall'ultima moda e dalle tendenze. I sacerdoti e gli anziani la persuadono ad urlare: “Barabba”. E così quando Pilato chiede: “Chi dei due volete che vi rilasci?”, la folla in maniera imbecille e inconsapevole urla: “Barabba!”. La folla rappresenta tutte le persone che si lasciano condizionare, influenzare. Sono tutti quelli che non hanno un pensiero proprio, che vivono di frasi fatte, preconfezionate o di quello che sentono dire in giro. Sono quelli che non riescono a difendere una posizione o un'idea. Sono tutte quelle persone che credono ingenuamente che tutto il mondo sia Amici, il Grande Fratello, Uomini e donne ecc. Sono tutte quelle persone che corrono dietro all'ultima moda o all'ultimo prodotto.
La folla non ha personalità: vive solo come insieme, ma non come singolo. Nessuno di loro è il diretto responsabile della morte di Gesù, eppure proprio loro lo hanno condannato a morte. Matteo attraverso i suoi personaggi dice: “Siete tutti colpevoli, direttamente o no, perché tutti per paura o per interesse l'avete tradito e non avete preso le sue parti”.

c) Luca mostra invece Gesù come colui che perdona tutti.
Luca attenua le responsabilità dei vari personaggi: i discepoli sono rimasti fedeli a Gesù nelle prove; nel Getsemani si addormentano solo una volta e non tre ed è un sonno di tristezza; i nemici non presentano falsi testimoni come negli altri vangeli; Pilato per ben tre volte tenta di liberarlo perché è innocente; il popolo è addolorato per ciò che succede e perfino uno dei due ladroni è buono.
In Luca Gesù si preoccupa di tutti: guarisce l'orecchio del servo durante l'arresto, si preoccupa per la sorte delle donne mentre sale sul Calvario, perdona i suoi crocifissori e promette il paradiso al ladrone pentito. Gesù in Luca è colui che capisce i suoi nemici: fanno così perché vivono nel buio e nelle tenebre, altrimenti non potrebbero agire così.
Questo vale sempre: la gente è cattiva non perché sia cattiva, ma perché dentro è arrabbiata; la gente è nervosa, suscettibile, perché dentro è inquieta e non riesce a dar voce ai turbamenti interni; la gente giudica perché non conosce la misericordia con sé, non conosce la tenerezza, non conosce l'amore; la gente disprezza gli altri e umilia perché non sa andare dentro il cuore degli uomini.
Gesù li perdona non perché sia giusto ciò che fanno. Gesù li perdona perché sono ciechi, non ci vedono, scambiano il male per il bene e il bene per il male; credono di essere religiosi e invece sono atei; credono di rendere omaggio a Dio e uccidono suo Figlio; credono nelle regole perché non hanno coscienza; credono di sapere e vivono nell'ignoranza totale.
Quanta gente vive così! Credono di essere liberi e, invece, sono così condizionati che neppure se ne accorgono. Credono di essere i padroni della loro vita e invece sono seduti su di un treno. Dicono: “Io faccio la mia vita”, e non si accorgono che è il treno che li porta. Credono di conoscersi, ma non sanno dire cosa sono; credono di conoscere Dio perché hanno letto qualche libro o visto qualche documentario o trasmissione, per cui basta un libro di Dan Brown per metterli in confusione. Dio li perdonerà un giorno. Ma nessuno si giustifichi perché l'ignoranza (soprattutto quella “vestita” da sapere) uccide, distrugge, umilia e compie le peggiori atrocità.

d) Per Giovanni, invece, Gesù è l'uomo consapevole che va incontro volontariamente al suo destino. Anche se viene giustiziato in realtà è Lui il vero re.
È sovrano di se stesso e lancia una sfida: “Io offro la mia vita per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie”.
I soldati romani e le guardie del tempio che vanno ad arrestare Gesù cadono a terra tramortiti quando Gesù dice la frase: “Sono io”. Nel Getsemani Gesù non prega di essere liberato dall'ora della prova e della morte, come negli altri vangeli, perché quell'ora costituisce lo scopo di tutta la sua vita. Gesù è così sicuro di sé che il sommo sacerdote si sente offeso. Pilato ha paura di fronte al Figlio di Dio che gli dice: “Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse dato dall'alto”. Giovanni non parla di Simone il Cireneo: è Gesù stesso che porta la propria croce. La sua regalità è confermata in tre lingue. Gesù non è solo, perché con lui, ai piedi della croce, c'è sua madre e il discepolo che egli amava. Gesù non grida: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”, perché il Padre è sempre con lui; le sue ultime parole esprimono, invece, una decisione solenne: “Tutto è compiuto”. Perfino la sua morte è fonte di vita perché da lui sgorga acqua viva. La sua sepoltura non è improvvisata, come negli altri vangeli; grazie a Nicodemo, il corpo è cosparso di cento libbre di mirra e aloe, come si conviene ad un re.
Il Gesù di Giovanni è l'uomo che è pienamente consapevole di ciò che succede. Per questo è il vero re. È il vero re perché è lui che domina la scena, è lui che “vuole” la sua morte. Non che Gesù voglia morire, ma non si vuole sottrarre alla fedeltà di ciò che crede e di ciò che sente. Per questo va fino in fondo, con grande dignità e regalità.
Il Gesù di Giovanni smaschera i falsi re di questo mondo: i politici, i calciatori, i potenti, gli uomini di successo, le attricette. Come Pilato e i sommi sacerdoti, credono di gestire e di dominare il mondo. Si sentono forti e chissà chi. Ma la vera regalità non è mai legata a ciò che fai o a ciò che hai; la vera regalità è legata alla persona che sei. Regalità è lottare per ciò che si crede e rimanere fedeli a ciò che si dice di credere. Regalità è andare fino in fondo e pagare di persona.
Perché quattro storie della passione? Non c'è stata un'unica passione?
Certo, ma ciascun evangelista ha “visto” con i propri occhi quanto accaduto e tutto questo ha parlato al cuore di ognuno in maniera diversa. Come succede anche a noi.

Anche quest'anno ci accostiamo alla lettura della passione: non siamo gli stessi dell'anno scorso, né saremo così l'anno prossimo. Quest'anno la passione ci parlerà in maniera diversa, quest'anno ci identificheremo di più in un personaggio piuttosto che in un altro; quest'anno emergerà più forte un sentimento piuttosto che un altro.
In silenzio, nel silenzio del nostro cuore, leggiamo e ascoltiamoci.
In silenzio, nel silenzio di chi sa di trovarsi di fronte alla vicenda del Figlio di Dio, ma anche alla vicenda di ogni uomo, lasciamo che queste parole ci entrino nell'anima.
In silenzio, nel silenzio della nostra anima, leggiamo questa vicenda e cerchiamo di capire dove noi siamo esattamente. Amen.
 

giovedì 14 marzo 2013

17 Marzo 2013 – V Domenica di Quaresima

«Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani» (Gv 8,1-11).
Gesù si trova nel tempio. Ciò che avviene è sconcertante: siamo nella casa di Dio e quelli che si ritengono gli esperti della legge divina vogliono uccidere una donna. Gli scribi e i farisei irrompono in gruppo nel tempio; interrompono la catechesi di Gesù per condurgli una donna colta in flagrante adulterio. Essi l’hanno già condannata, hanno le pietre in mano per lapidarla, appena fuori città, perché questo era il tipo di morte prevista dalla legge; ma volevano comunque mettere alla prova Gesù. E Gesù le salva la vita.
Osserviamo meglio la scena: scribi e farisei vanno dunque da Gesù in gruppo, in massa. Gesù, invece è solo. La massa, pur avendo un potere enorme, è incapace di assumersi le responsabilità individuali. Nel branco, nel gruppo, ognuno perde la propria identità. Tutti si sentono autorizzati a fare di tutto, a compiere anche ciò che, da soli, non farebbero mai.
Gesù però li blocca, li mette ciascuno di fronte alle proprie responsabilità; e quando capiscono di dover rispondere alla propria coscienza per tale esecuzione mortale, ognuno si defila, e se ne va in silenzio. Nessuno ha più il coraggio di scagliare anche una sola pietra.
Ma, come ho detto, ai farisei e agli scribi, in realtà, non interessa fare “giustizia”, non interessa punire quella donna: è Gesù il loro vero obiettivo. Se Gesù infatti si schiera a favore della donna, automaticamente si mette contro la legge, ed essi hanno un valido motivo per combatterlo; Lui, infatti, che si dichiara il Messia, paladino della rettitudine, deve dimostrarsi coerente; non può certo opporsi così apertamente alla legge dei suoi Padri. Se invece si schiera contro la donna, condannandola a morte, cade comunque in contraddizione, poiché soltanto i Romani potevano condannare qualcuno alla pena capitale. Quindi in entrambi i casi hanno dei buoni motivi per poi accusarlo alle autorità.
Ma prima di tutto questo, prima di armare tanto scompiglio, come mai nessuno di loro si è chiesto quali fossero i veri motivi che hanno spinto la donna a comportarsi in tale maniera? Cosa cercava? Chissà: forse il marito la picchiava; forse il marito la respingeva; forse il marito la umiliava; forse il marito la teneva come una schiava; forse il marito aveva un'altra. Nessuno si è fermato a riflettere sul perché sia successo tutto questo: è successo, quindi, deve morire! Sembra di assistere a tante situazioni di oggi!
E poi, perché nessuno si è chiesto: “Dov’è l’uomo che giaceva con lei? Perché non abbiamo preso anche lui? Perché solo la donna deve essere condannata? Perché?”.
Ma niente di tutto ciò: i farisei ( e solo loro?) hanno il paraocchi: si riempiono la bocca della legge mosaica, si rifanno ciecamente a ciò che è prescritto nei codici e nei manuali di teologia; essi non hanno cuore; e neppure cervello: sono dei semplici esecutori, agiscono in malafede, sono dei maniaci della forma. L’unico criterio di giudizio è la “loro” legge. Però “la legge” non giustifica, dice san Paolo. È troppo semplice appoggiarsi “a terzi”. Un bambino lo può fare: “Me l’ha detto mamma! Papà mi ha detto che si fa così!”. Ma in età adulta non possiamo fare soltanto le cose che ci dicono di fare. Dobbiamo prenderci le nostre responsabilità, dobbiamo cioè farle o non farle perché ci crediamo o non ci crediamo.
“Tutti fanno così”: non è una giustificazione valida e razionale. Siamo noi gli unici responsabili di ciò che facciamo.
E Gesù nel tempio ci dà una solenne lezione: mette tutti di fronte alla propria coscienza, alle proprie responsabilità: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. Ovviamente nessuno lo fa: perché, nonostante siano considerati dalla gente dei “giusti”, in cuor loro, nell’intimità della loro coscienza, sanno perfettamente di non esserlo: e pertanto non rischiano, preferiscono non esporsi personalmente.
Pure noi: ci è capitato di esprimere un giudizio tagliente, una valutazione totalmente negativa? Prendiamocene apertamente la responsabilità! “Ma no... sai... io non volevo... io pensavo…”. La prossima volta, fratelli miei, prima di parlare, pensiamoci. Quante persone, purtroppo, amano parlare di nascosto, dietro le spalle, gettare fango, insinuare, malignare! Non hanno dignità, non hanno personalità.
Sono come quei farisei: chiacchierano, spettegolano, malignano, accusano, insinuano, arrivando a svergognare completamente la donna. Non vedono l'ora di mettere in piazza il suo peccato, l'errore, la sua colpa. La etichettano immediatamente: “Adultera!”. E godono nell’inscenare la tragedia di lapidarla!
Gesù, di fronte a tanta falsità, non dice assolutamente nulla; ignora del tutto quel gruppo di scalmanati; non guarda neppure la donna; china solo il capo e pensa: “Quanto starà soffrendo questa poveretta! Chi sono questi buzzurri senza cuore, che sbraitano tanto? Come si fa a trattare così una persona?”. Gesù in cuor suo rispetta quella donna, comprende la sua debolezza, capisce la sua vergogna, il grande imbarazzo, per essere tacciata come una puttana davanti a tutti, famigliari, conoscenti, amici; l’essere additata come la peggiore e la più detestabile delle persone.
La calunnia: uno sport ritenuto sconsideratamente innocuo da chi lo pratica. Un gioco. Quante volte capita anche a noi, fratelli miei, di divertirci a malignare, a ricamare sulle disgrazie altrui! “Hai sentito di quello? E di quell'altro? Te lo dicevo io che non era come voleva far credere!” e giù, ci divertiamo a spettegolare, a calpestare e a volte distruggere il privato degli altri. È storia dei nostri giorni: il gossip è il passatempo più ambito e più seguito dalla massa: sembra che non ci interessi nulla all’infuori dello scoop, della notizia esplosiva, scandalistica; sempre all’erta, sempre pronti a denigrare: basta una piccola illazione, un cenno, una semplice supposizione, e noi partiamo!
È chiaro, pertanto, che una società impegnata costantemente a rincorrere l'ultimo “scandalo”, è una società che, non avendo vitalità in sé, cerca motivazioni, sussulti, emozioni all’esterno, ai margini della vita e dell’onestà, nel torbido del quotidiano; è il segnale d’allarme che preannuncia la disfatta e la morte dello spirito. È una società vuota, le cui persone, completamente vuote di loro, cercano pienezza e stimoli rovistando nella vita altrui: per questo giornali e riviste scandalistiche incontrano cotanta diffusione!
La società poi è abituata a generalizzare: lo psicologo e il medico parlano di “pazienti”; il prete parla di “parrocchiani”; l'assistente sociale di “utenti”; per lo Stato siamo il “numero” di codice fiscale, per la banca un “debitore”. Eppure nella vita noi tutti abbiamo un nome, siamo delle entità ben distinte, siamo persone che amano, che soffrono, che vivono e sperano.
I farisei dunque trattano quella donna come un oggetto. Per loro è nessuno, una delle tante donne del popolo. Niente di che. Non si rendono conto che dietro a quella malcapitata c'è forse una tragedia; comunque una storia, un volto, una vicenda, una persona ben precisa, con i suoi sentimenti, con le sue difficoltà, con i suoi problemi, con la sua dignità.
E Gesù tace. Essi lo incalzano. Pretendono una risposta chiara, una lettura forte della legge: vogliono comunque scaricarsi da ogni responsabilità individuale: “Noi siamo a posto, ce l’ha confermato anche lui, doveva essere uccisa!”.
Ma Gesù non si esprime; al contrario, scrive per terra. Continua a prendere tempo. Loro vogliono una risposta immediata e lui non gliela dà. Sente il suo cuore pieno di rabbia, e cerca di scaricarla scrivendo: questo gli permette di continuare ad essere obiettivo, di pesare bene le parole, di non rispondere d’impulso, senza la lucidità e la padronanza richieste dal caso.
Anche noi, quando siamo arrabbiati, dobbiamo fare altrettanto, fratelli; dobbiamo trovare il modo per calmarci. Perché altrimenti ci graffiamo reciprocamente, ci facciamo del male, ci feriamo fino all'inverosimile. Prendiamoci cinque minuti; andiamo in un'altra stanza; occupiamoci di qualcos’altro; andiamo a farci un giro fuori e poi, quando rientriamo scaricati, possiamo affrontare il problema con le dovute calma e lucidità.
I farisei però insistono: “Guarda cos'ha fatto quella donna lì? Perché non ti decidi?”.
E finalmente Gesù risponde: “Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra”. In altre parole: “Voi, siete proprio sicuri di essere innocenti? Di essere completamente in regola? Di non avere qualche scheletro nell’armadio? Ne siete proprio certi? Pensateci un po’!”.
Ecco: quando stiamo per puntare il dito contro qualcuno, pensiamo per un istante che in quel preciso momento almeno tre persone lo stanno puntando contro di noi. “Anche se non hai tradito materialmente tua moglie, sei proprio sicuro di non pensare ad altre donne? Sei proprio sicuro di non desiderarle? Sei proprio a posto con la tua sessualità?”. In questo modo Gesù li mette di fronte alla loro coscienza, li lega alla loro percezione intima della verità: “Chi di voi può dirsi completamente immune dal peccato, in particolare da questo peccato?”.
Gesù poi si rivolge alla donna: non la giustifica, non le dice: “Brava, hai fatto bene!”. Le dice: “Và e d'ora in poi non peccare più”. “Forse hai sbagliato, forse hai fatto qualcosa di cui neppure tu ora sei contenta. È successo, rialzati, non condannarti più, lascia stare, volta pagina, perdonati; soprattutto ricordati che se vuoi, puoi essere diversa, nuova!”.
Capite? Non è meraviglioso? Gesù non fa paternali, non fa tremende lavate di testa; fa soltanto leva sulla forza del cuore, sui sentimenti nascosti e profondi della donna, della persona. Questo è amore, fratelli. Non si ferma a rimarcare il peccato in sé, che probabilmente c'era ed era vero. Egli sottolinea semplicemente la possibilità di uscirne fuori, le indica la possibilità di costruirsi una vita migliore, di essere diversa. Le dice: “Tu puoi. Non è vero che sei così e che sarai sempre così: non crederci. Tu puoi essere diversa, puoi essere migliore; insomma tu puoi cambiare: io lo so, ne sono convinto”.
Gesù dunque non sottolinea l'errore: lei sapeva bene di aver sbagliato! Gesù sottolinea solo un cambiamento in positivo. Gesù ci insegna che dobbiamo avere fiducia nei fratelli. Ma la fiducia non si può fingere: dobbiamo crederci per davvero! Quando dobbiamo aiutare un fratello che è caduto, fare coraggio a qualcuno che è in difficoltà, dobbiamo essere convinti che lui ce la può veramente fare, che nel suo cuore egli dispone di altre forze nascoste e impensabili, con le quali egli può uscirne, egli può rialzarsi e guardare avanti essendo migliore.
Cerchiamo di guardare nei fratelli sempre il lato positivo. Cerchiamo di dir loro: “Nella vita tu farai senz’altro qualcosa di grande!” e crediamoci noi per primi. Perché, fratelli, sentire che qualcuno crede in noi, nelle nostre forze, nelle nostre possibilità, in ciò che siamo, è in assoluto la cosa più bella, la cosa che maggiormente ci sprona ad agire.
L'amore infatti dà fiducia. Perché le persone guariscono facendo certi percorsi? Cos'è che le fa guarire o cambiare o diventare se stesse? La competenza di chi le guida? No! Il percorso fatto bene? No! Ciò che le fa guarire è l’aver trovato qualcuno che crede in loro e che ha fiducia in ciò che possono diventare.
Frasi come: “Tu puoi; ci riesci di sicuro; ce la farai sicuramente; osa; prova; sperimenta; dai! ecc.”, dovrebbero far parte nel nostro vocabolario quotidiano.
Ripeto: l'amore ci conforta e ci sprona; anche se non siamo come gli altri ci vedono, il loro amore ci fa comunque sentire come dovremmo essere e come potremmo diventare; dobbiamo solo esserne convinti, noi per primi.
Tu, Gesù, credi in me; lo capisco, lo sento. Non posso deludere tanta fiducia; voglio anch’io credere maggiormente in me; voglio darmi fiducia, voglio essere come tu mi vuoi, voglio risorgere, e amarti sempre più, come meriti. Amen.
 

mercoledì 6 marzo 2013

10 Marzo 2013 – IV Domenica di Quaresima

«Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto» (Lc 15,1-3.11-32).
 
“Un vangelo nel vangelo”, potremmo definire quello di oggi. Un brano che ci mette in contatto con l’universo della bontà di Dio: perché è chiaro, la figura del “padre” è la sua. È la storia di un Dio “padre”, che accoglie a braccia aperte ogni figlio smarrito. Ma il testo ci offre anche altre chiavi di lettura: quella della nostra storia personale, la storia dei rapporti umani, la storia di tutti i figli di questo mondo che, per vivere, devono rompere con la “casa” e con “il padre”, per poter trovare se stessi, la propria vita, la propria missione, il proprio posto nella società: perché per vivere è fondamentale fare esperienza, capire, percepire la vera portata delle potenzialità che tutti abbiamo, ma di cui non ce ne rendiamo conto.
È la storia di come possiamo fare tante “cavolate” nella vita, ma è anche l’avvertimento che non è mai troppo tardi per rimediare. Possiamo anche finire con i porci, condurre una vita dissoluta, priva di qualunque valore, ma abbiamo sempre la possibilità di redimerci, recuperando la nostra vita e la nostra dignità.
È la storia dell'amore vero, che rimane: l’amore di quel padre di famiglia che ama al di là di tutto, al di là dell'evidenza, al di là del dolore, al di là del rifiuto ricevuto dal figlio.
È la storia del rifiuto “per amore”: il figlio che dice di no, che vuole slegarsi, che vuole andarsene, lo fa perché ama la vita, perché cerca nuove possibilità su cui costruire il suo domani: per vivere, infatti, tutti dobbiamo affrontare il nostro “viaggio” personale; per crescere, per maturare, per responsabilizzarci, dobbiamo affrancarci dal legame infantile che ci lega ai genitori, e prendere in mano razionalmente la nostra vita e il nostro domani.
È la storia di chi ha paura di crescere, di dover cambiare qualcosa nella vita: continua a starsene nel suo guscio protettivo, con le sue solite idee, con il suo solito mondo: e non si accorge di essere invece un “morto” in casa, corroso e paralizzato dalla paura di crescere.
È la storia di come non sia possibile alcun “ritorno”, se prima non “rientriamo in noi”: se non ci ascoltiamo, se non ci guardiamo dentro, se continuiamo a vivere proiettati soltanto all’esterno, all’effimero, facendo dipendere la nostra felicità esclusivamente dalle cose esteriori (i soldi, i divertimenti); oppure pensando che “gli altri”, e non noi, debbano darci il senso della vita.
Ecco, fratelli, queste sono tante altre possibili letture, altri spunti di approfondimento di questo vangelo.
Un vangelo, dicevo, che ripropone la nostra crescita umana e spirituale, mediante un progressivo cambiamento dei nostri rapporti con le persone, col mondo e con le cose.
Un brano, quello di oggi, che ci presenta in particolare tre personaggi, ciascuno dei quali deve fare i conti con le proprie problematiche relazionali: è pertanto il significato dei loro rapporti reciproci che va approfondito, preso in considerazione: primariamente quello dei figli col loro padre; un padre che è visto da entrambi soltanto dal punto di vista egoistico: è colui cioè “che dà”, che “deve dare”; il suo ruolo è soltanto quello di soddisfare le loro richieste; il figlio minore infatti gli dice “Dammi la mia parte di eredità”; il maggiore gli rinfaccia “Non mi hai mai dato un capretto per far festa con gli amici”. A nessuno dei due figli sta a cuore l’amore paterno; per loro vale soltanto l’utile, il proprio tornaconto.
C’è poi il rapporto tra i due fratelli: come si relazionano tra loro? Non si relazionano! C’è solo indifferenza: non si rivolgono la parola, non si dicono nulla, non s'incontrano mai! E perché? Semplice: perché volutamente non ne vogliono sapere; tra loro hanno costruito un muro di incomprensione, di egoismo, di invidia. Motivo scatenante di tale contrasto? Il comportamento del padre: sì, il loro conflitto poggia proprio sul comportamento paterno, ritenuto a torto o a ragione, discriminante, di parte. Il minore percepisce la maggior considerazione del padre per il primogenito, il prescelto, il primo in tutto; capisce di essere considerato solo come rincalzo e di non avere alcuna possibilità di competere alla pari con il fratello; quindi pianta ogni cosa e se ne va di casa. Vuole staccarsi dal padre; meglio, da quell’immagine di padre che egli si era auto costruito, un padre carente di imparzialità. Se continuava a stare in casa, non avrebbe mai potuto cambiare idea. Per farlo ha dovuto allontanarsi, intraprendere un lungo viaggio, visitare molti paesi, godersi la propria autonomia, la propria “libertà”; un cammino che finirà poi per portarlo “dentro di sé”: “Rientrò in se stesso”.
Anche il padre ha dovuto fare un suo viaggio personale: al ritorno del figlio minore lo troviamo infatti premuroso, fuori di casa, ad aspettarlo. Si è dovuto distaccare dall’idea classica di un padre, di un genitore, che ha, apertamente o implicitamente, delle pretese nei confronti del figlio: io ti do qualcosa (la vita, un nome, sicurezza, benessere) e tu mi devi qualcosa (seguirmi, rispettarmi, prenderti cura di me, farmi felice, non abbandonarmi, ecc).
Il terzo personaggio, il figlio maggiore, al contrario non ha fatto nessun viaggio: per lui suo padre rimarrà sempre quello che “deve dare”, e suo fratello continuerà ad essere quello “inferiore in tutto”, il depravato, il dissipatore, “con le prostitute”, del patrimonio familiare. Egli giudica suo fratello per rabbia: non sopporta che il “minore”, quello meno di lui, sia accolto in casa dal padre con la stessa dignità riservata a lui, che ha sempre rigato dritto; che questo sfaccendato sia trattato dal padre allo stesso modo con cui tratta lui, come se fosse suo pari; per questo egli distrugge la sua immagine, lo infanga, lo scredita. Non accetta di aver perso la sua superiorità assoluta.
Il suo problema sta proprio qui: nel fatto che è sempre rimasto in casa; non è mai uscito.
Quanti di noi, fratelli, continuano a passare la loro vita “in casa”, con le loro solite quattro idee, con i soliti pensieri, le solite persone, il solito modo di pensare, le solite cose da fare.
Non capiscono che uscire significa conoscere; vuol dire mettersi in discussione, scoprire cose incredibili, rendersi conto che il mondo e la vita sono infinitamente più grandi delle proprie piccole e sclerotizzate convinzioni. Ma uscire fa paura: è meglio rimanere in casa.
Il figlio minore, uscendo dalla propria immaturità, pur facendo delle scelte nefaste, ma pagando a caro prezzo le amare conseguenze, è comunque diventato un uomo, ha trovato la vita, ha fatto esperienza, si è messo in gioco in prima persona; il maggiore, al contrario, è rimasto un immaturo, un uomo morto, trincerato nei suoi vecchi schemi e pregiudizi; il vangelo non ci dice che fine farà, ma l’immagine che ne esce è quella di un uomo fallito. Se non si deciderà a “uscire” anche lui, a cambiare, continuerà per sempre a trascinarsi nella sua mediocrità.
Al loro “ritorno”, invece, sia il figlio minore che il padre, sono diversi. Il padre non è più quello “che dà”, e il figlio non è più quello “che prende”. Hanno fatto entrambi la loro strada, e le loro posizioni si sono invertite: il padre, che aveva dato, ora riceve; e il figlio che aveva preso, ora dà. Ma cosa dà questo “prodigo” a suo padre? La paternità: quell'uomo adesso sente che, per il figlio, lui non è più questione di soldi, di eredità, ma di amore, di affetto, di presenza. Tutto è stato superato, cambiato, maturato. Rimane un’unica nota stonata, in questo quadretto familiare: il figlio maggiore, che è ancora lì a discutere di capretti, di vitelli grassi, di soldi risparmiati e di soldi buttati: è il figlio che non ha ancora capito, che non è ancora passato, che non ha fatto nessun viaggio, che non ha ancora cambiato nulla.
Nella vita c’è un dato di fatto imprescindibile: i rapporti interpersonali sono destinati a cambiare; e se non cambiano, intristiscono, languiscono, muoiono. Ecco perché noi stessi dobbiamo cambiare, uscire, maturare continuamente, adattarci alle nuove situazioni: nei confronti dei figli, del nostro partner, dei fratelli, di quanti ci circondano. Dobbiamo trovare continuamente nuovi motivi, altre funzioni, nuovi equilibri: quelli di una volta, con il passare del tempo e dell’età, non vanno più bene. Dobbiamo rinnovarci. Dobbiamo abbandonare la nostra “immagine” per trovarne un'altra più vera, rivista e corretta; più coerente con i nostri sentimenti, con la nostra anima, col nostro cuore.
Ecco, fratelli: il Vangelo di oggi ci mette di fronte a questa tremenda alternativa: o uscire da noi stessi, che vuol dire rinascere, vivere, maturare, godere della pienezza dell’amore paterno, rischiando magari di cadere ma trovando la forza di rialzarci immediatamente; oppure rimanere immobili, morire, soffocati dalla paura e dall'indolenza, insoddisfatti della nostra vita e corrosi dall’invidia verso gli altri; sempre pronti a giudicare e a prendersela col mondo intero; oppressi dal rimorso e dall’amarezza di non aver saputo guardare oltre l’orizzonte del nostro io.
Dalla scelta che andremo a fare dipenderà ciò che ciascuno di noi sarà. Amen.