giovedì 6 febbraio 2014

9 Febbraio 2014 – V Domenica del Tempo Ordinario

«Voi siete il sale della terra… voi siete la luce del mondo…» (Mt 5, 13-16).
Il vangelo di oggi ci propone due immagini: il sale e la luce. Sale e luce esprimono due effetti completamente opposti. L’effetto del sale non lo vediamo: lo riconosciamo, lo sentiamo, lo percepiamo, ma non lo vediamo. Vi è mai capitato di preparare la pasta e di dimenticare il sale? Lo “sentiamo” immediatamente. Non si vede, ma se manca, lo sentiamo subito. La luce invece si vede, e fa vedere ogni cosa. Avete presente un black-out? La luce scompare e non si vede più niente. Si è completamente al buio!
Sale e luce, dunque, esprimono rispettivamente: qualcosa che non si vede, che si gusta ma non si vede; e qualcosa invece che è molto visibile, che è percepibile da tutti. Noi dobbiamo essere così: nascosti, invisibili, ma assolutamente necessari e riscontrabili.
Prima considerazione: il sale dà sapore; il “sapore” della vita è dato dal “sentire”: sentire noi stessi, ma anche ciò che ci circonda, il canto degli uccelli, il soffio del vento che scompiglia i capelli, un bimbo che piange, persone che ridono... Attraverso questo “sentire”, noi riusciamo a capire un qualcosa in più su di noi, sulla nostra vita; è come avere un'intuizione sulle sue vicende: abbiamo la fortuna di poter godere delle meraviglie del creato, ma dobbiamo fare anche i conti con la gioia e il dolore... Per questo è importante “sentire” le realtà che ci circondano: sono fonti inesauribili di emozioni, di vibrazioni, di vita interiore, di rinascita. Ma noi, noi “sentiamo”? Cosa sentiamo? Quanto sentiamo? Chiediamocelo, perché il “sentire” è vita; e se lo gustiamo, se lo percepiamo, se lo assaporiamo, diventa cibo salutare per la nostra anima.
Cosa succede se gustiamo poco, se sentiamo poco? Cosa succede se abbiamo perso il senso del gusto? Non sentiamo più niente. Diventiamo insensibili, insofferenti verso tutto e verso tutti. E a volte siamo proprio così! Se la vita ci riserva sofferenze, dolori forti, traumi profondi, cosa facciamo per uscirne fuori, per evitare di soccombere, per non farci trascinare alla deriva della vita? Adottiamo una soluzione: tagliamo tutti i ponti con ciò che ci circonda, e così non sentiamo più niente. Ci desensibilizziamo, ci anestetizziamo. Un rimedio valido per quel momento: ma catastrofico se lo continuiamo anche nel futuro, in quanto continueremo ad essere tagliati fuori dalla vita; non sentiremo più nulla: né la gioia, né l'amore, né la vitalità, né la compassione; nulla più ci procurerà commozione, nulla più ci farà tenerezza. Saremo impassibili, indifferenti, lontani e insensibili a tutto ciò che ci offre la vita. Allora ci lamentiamo che la vita è noiosa; che è un tran-tran insopportabile; che è sempre la solita, insignificante; che purtroppo non c’è nulla da fare e bisogna accontentarsi. In realtà la vita è ricchissima; siamo noi che non sentiamo, che siamo in “folle”, che non riusciamo più ad ingranare nessuna marcia.
Ci veniamo a trovare nella stessa situazione di quando, ascoltando musica con le cuffie, qualcuno ci dice qualcosa; diciamo: “Scusa, non ho sentito!”. E cosa facciamo? Ci togliamo le cuffie. Ebbene: nella vita dobbiamo fare altrettanto. Per sentire la “vita”, per gustare il sapore delle cose, dobbiamo togliere i tappi che ci siamo messi. All'inizio forse sentiremo un gran dolore (è proprio per non sentirlo che ci siamo messi i tappi!), ma se avremo pazienza e voglia di superare la situazione, pian piano, risentiremo nuovamente il gusto del bello, del buono; in una parola ci riprenderemo il “sapore” della vita e di ogni cosa del creato.
Altra considerazione: il sapore della vita ci viene dal sentirci utili.
La grande domanda che tutti, prima o poi, ci facciamo – e se non ce la facciamo è perché la risposta potrebbe non piacerci - è: “A che serve la mia vita?”.
Alcune persone, come i genitori, vivono “servendo” i figli (nel senso di essere utili ai figli; far crescere una vita ci fa sentire certamente utili, importanti, orgogliosi; è una cosa meravigliosa). Soltanto che poi i figli crescono, e poiché i genitori hanno ancora bisogno di sentirsi utili, continuano ad intromettersi negli affari dei figli. E si arrabbiano se questi li escludono dalla loro vita.
Altre persone si sentono “realizzate” dal lavoro; poi quando per qualche motivo vengono “scaricate”, vivono questa esperienza come un autentico fallimento totale.
Per altri ancora il “sentirsi utili” diventa una mania, una necessità vitale, per cui se talvolta non vengono “invitati” o coinvolti, si offendono, si risentono, si infuriano, arrivano anche a rompere legami forti di parentela o di amicizia. In questo caso, il “sentirsi utili” coincide con il nostro bisogno di primeggiare, di essere considerati indispensabili, di essere ammirati: e questo non va bene.
Per “essere veramente utili” dobbiamo infatti metterci a disposizione per dare o fare un servizio alla collettività, al prossimo: noi viviamo se il nostro vivere produce “vita”, evoluzione, benessere, amore, crescita; allora, anche se siamo servi, all’ultimo gradino della scala sociale, anche se non appariamo, se non saliamo le vette della notorietà, siamo comunque utili a qualcosa e a qualcuno. Noi viviamo e sentiamo di aver dentro di noi qualcosa di importante, dei talenti, una passione, dei doni, che possono essere utili ai fratelli, a questo mondo: lo rendiamo disponibile, lo offriamo, lo doniamo; e il nostro dono è utile, ci aiuta. Perché in questo c'è sapore, c'è gusto, c’è gioia: anche nel faticare, anche nel lottare, anche nel soffrire, perché ciò fa parte di quello che siamo, e deve servire, rendere un servizio agli altri. Non a caso la parola “sale” in ebraico (melah; m-l-h) ha la stessa radice di “pane” (lehem; l-h-m): il “sapore” infatti proviene dall'essere dono, nutrimento vitale (sale o pane) per qualcun altro.
«Voi siete il sale della terra». Ora, la “terra” è la vita di tutti i giorni: cosa vuol dire allora essere sale, senso, sapore, di questa terra? Vuol dire aiutare le persone a trovare il significato, il senso della loro vita, il senso di ciò che accade. Solo così siamo il sale della terra.
Dobbiamo insegnare alle persone a riflettere su ciò che vivono, a farsi delle domande, ad ascoltare Dio che parla al cuore di tutti, sempre e in continuazione; e lo fa attraverso i fatti, gli eventi e gli incontri di ogni giorno. La gente dice: “Dio? E dov'è?”. Per forza dice così, perché non lo sente, perché pensa che Lui se ne stia altrove, a farsi i fatti suoi, mentre noi dobbiamo arrangiarci quaggiù. Ma non è così: perché Lui, al contrario, ci è vicino, ci parla e ci educa continuamente. E noi dobbiamo farlo capire alla gente, dobbiamo ridare loro il gusto della vita.
La parola sapienza viene dal latino “sapio” che vuol dire “assaggiare, gustare”. Dobbiamo pertanto diventare saggi, sapienti; e lo diventeremo se sapremo “gustare”, quando sapremo imparare dalle nostre esperienze. Tutto insegna o nulla insegna: dipende da noi. La vita è una grande scuola, se si vuole imparare. Ma solo se si vuole imparare.
L'altra immagine del vangelo è la luce. La luce, la lampada ad olio, per una povera casa palestinese era tutto. Per noi, ad esempio, è difficile capire il Salmo: “Lampada ai miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Sal 118), perché la luce ce l’abbiamo sempre a portata di mano, è sempre a nostra disposizione. Ci basta un pulsante per accenderla! Ma fino ad un secolo fa', anche una piccola lampada o una semplice candela erano fondamentali. Ebbene, Dio è la nostra luce, e noi dobbiamo irradiarla intorno a noi. “Dio” infatti è una parola sanscrita che vuol dire “luce”. E la luce è abbinata alla vita: “Venire alla luce” o “dare alla luce”, significa nascere; “spegnersi”, vuol dire morire. Allora, cosa vuol dire “siete la luce del mondo”? Vuol dire esattamente due cose: “emettere” luce (essere luminosi) e “portare” luce (illuminare).
Emettere luce: tutto l'universo sembra materia ma, come ci insegna la fisica quantistica, tutto invece è luce, energia. Noi siamo materia ma potenzialmente siamo luce. Il nostro compito? Diventare luce, diventare luminosi e illuminati, per illuminare la nostra vita e fare luce in quella degli altri, perché tutti possiamo così vedere la vera entità di ciò che siamo.
La gente si guarda allo specchio e cosa vede? Vede un corpo, grasso o magro, bello o brutto, con la pelle liscia o piena di impurità, di brufoli. La gente mangia, beve, accumula e possiede; vive nel piano della materia. Ma noi dobbiamo far capire alle persone che la vera essenza di ciascuno, non è questa. Noi siamo luce perché abbiamo uno “spirito” che vuol vivere in noi: abbiamo un’anima che vivrà per sempre, e uno Spirito che vuol uscire da noi, che vuole manifestarsi. Ebbene, emettere luce vuol dire entrare in contatto con questo Spirito, e comunicarlo a tutti, per far vibrare la loro parte “vera”, quella interna, quella che c'è in tutti noi. Sì, perché noi siamo anima, siamo spirito; noi siamo emozione; siamo “divino”; siamo energia, siamo canto; siamo musica; siamo luce; siamo fuoco; siamo forza. Noi siamo nel tutto e il Tutto è in noi. Senza spirito, senza interiorità, non c'è luce per noi e neppure per questo mondo. Vi ricordate il volto di Madre Teresa? non era certo bello! Pieno di rughe! Eppure... aveva una luce! Il suo volto e i suoi occhi lasciavano trasparire una luce meravigliosa. Perché dentro di lei c’era Dio, l'Energia, e lo si vedeva chiaramente!
Emettere luce allora vuol dire risplendere, illuminare, far vivere la luce che abbiamo dentro.
Vuol dire far uscire tutta l'energia, la vitalità che abbiamo dentro. Dobbiamo essere sempre il meglio, il massimo di noi. Non possiamo vivere al di sotto di ciò che siamo: risplendiamo, illuminiamo questo mondo con la nostra luce. Cosa aspettiamo? Cosa aspettiamo a diventare una stella nel cielo di questa vita, per illuminare il mondo?
In uno stadio, durante una manifestazione notturna di tanti anni fa, i riflettori improvvisamente si spensero. Allora un uomo urlò: “Tutti quelli che hanno un accendino, lo accendano”. E piano piano uno, due, dieci, cento, mille, diecimila... Lo stadio si illuminò a giorno. Ebbene, tutto il mondo ha bisogno di noi e della nostra piccola luce: e tutto il mondo sarà più luminoso, se anche ciascuno di noi diffonderà la sua luce. Amen.

giovedì 30 gennaio 2014

2 Febbraio 2014 – Presentazione di Gesù al Tempio

«Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima – affinché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,22-40).
Leggendo il vangelo di oggi, può sembrare che tutto quello che è capitato a Maria e a Giuseppe prima e durante la nascita di Gesù, non li abbia toccati più di tanto. Possibile che non si siano resi conto chi fosse quel “loro” Figlio? Possibile che Maria non abbia capito le parole dell’angelo? Che Giuseppe non abbia capito quel sogno? Impossibile, ma sembra proprio di no!
Infatti cosa fanno? Siccome erano stati educati all’obbedienza della Legge, siccome da che mondo e mondo si è sempre fatto così, anch’essi continuano a fare così. Quindi portano Gesù, colui che è venuto a rompere con la tradizione e con il passato, a sottomettersi alla tradizione; lo portano cioè - lui che è Figlio di Dio! - a diventare figlio di Abramo.
Otto giorni dopo la nascita, infatti, lo portano nel tempio per la circoncisione. È la tradizione; una tradizione che crea abitudine e infonde sicurezza: noi sappiamo una cosa, la conosciamo bene, e la facciamo volentieri sapendo di essere in grado di farla, e questo ci dà sicurezza. Perché cambiare? L’abitudine, in fin dei conti, ci semplifica la vita. Ma quando l’abitudine diventa senza senso, una perdita di tempo, allora diventa anche inutile. Controproducente. Non è più un’abitudine è una schiavitù.
Tuttavia è difficile staccarsi di punto in bianco dalle tradizioni imposte dalla comunità. È difficile imboccare un’altra strada seguendo solo il proprio cuore; è difficile dar voce a ciò che si sente dentro; è difficile prendersi la responsabilità delle proprie scelte. È difficile staccarsi da ciò che ci hanno trasmesso i nostri padri, da quello che intere generazioni hanno sempre fatto, da ciò che tutti continuano ancora a fare.
Il popolo ebraico era vincolato, a proposito di neonati, da due tra le più antiche prescrizioni della legge: la purificazione della madre (Lv 12) e il riscatto del figlio primogenito (Es 13,1-2). La prima prescrive che, dopo la nascita del bambino, la madre, trovandosi in uno stato di impurità, non deve toccare alcuna “cosa santa” né entrare nel santuario. Trascorsi i quaranta giorni previsti dalla legge, la coppia deve invece salire al tempio perché la donna possa purificarsi, offrendo in sacrificio a Dio, in espiazione del suo peccato di impurità, un agnello oppure un colombo o una tortora. Subito dopo la purificazione della madre, essi devono “riscattare” il loro bambino, in quanto ogni primogenito, fin dalla nascita, è “proprietà” di Dio.
Maria e Giuseppe dunque, pur con tutto quello che avevano visto e vissuto nel loro cuore fin dall’inizio, accettano la tradizione e fanno tutto secondo la Legge religiosa: essendo poveri e non potendo offrire un agnello, ovviamente portano con sé soltanto un paio di tortore.
Compiuta la prima parte del rito, improvvisamente appare sulla scena un personaggio strano: un certo Simeone (che vuol dire “Jahweh ha ascoltato”). Non è detto che sia vecchio (normalmente i “sapienti” erano persone piuttosto anziane). Si dice invece che è un uomo giusto e timorato di Dio. Potrebbe far pensare ad un sacerdote, ma si dice che lo “Spirito Santo era sopra di lui” (nei vangeli i sacerdoti non hanno mai lo Spirito Santo!). Quindi non di un sacerdote si tratta, ma di un uomo di Dio, un profeta; Simeone non è un uomo del culto ma della Vita.
I “genitori” di Gesù, per riscattare il loro primogenito, cercano un uomo della Legge. Ma trovano un uomo dello Spirito. Le sue parole non si riferiscono a nessuna regola o prescrizione: sono parole piene di vita. Maria e Giuseppe rimangono ancora più impressionati di fronte ad esse: già i pastori avevano parlato di un “salvatore” (Lc 2,18), già l’angelo aveva annunciato a Maria che il suo sarebbe stato il Figlio dell’Altissimo (1,32); adesso questo uomo parla di “luce per illuminare le nazioni”. Cosa vuol dire tutto questo? Cosa vuol dire che questo figlio sarà “segno di contraddizione, rovina e resurrezione per molti in Israele”?
Sono andati al tempio pensando che un sacerdote purificasse la madre del bambino, invece trovano quest’uomo che annuncia a gran voce che sarà il loro bambino a “purificare” Israele.
Gesù cioè sarà per molti la “pietra d’angolo”, la pietra su cui costruire, su cui piantare le basi della propria vita; per molti altri, invece, sarà “pietra di scandalo”, ossia la pietra contro cui inciamperanno le loro infedeltà, la pietra che li farà cadere dall’arroganza delle loro scelte di vita.
Seguire Gesù non è cosa facile, piana, indolore. Non ci si trova davanti un bel sentiero, dritto, ombreggiato, con fontanelle d’acqua e panchine dove vuoi, con uccellini, sole, pieno di “vogliamoci bene” e “amiamoci tutti”. Gesù ci mette al contrario davanti a scelte difficili, a bivi oscuri, a cadute e rotture frequenti; Gesù ci pone davanti a verità dure da accettare, destinate a trasformare radicalmente la nostra vita; Gesù insomma ci mette di fronte a noi stessi, alla nostra coscienza, alle nostre responsabilità, alle quali non possiamo sfuggire. Sì, perché Gesù è un cammino di liberazione, di guarigione, di apertura, di smascheramento. Gesù non ci lascia sonnecchiare tranquilli. Ecco perché il suo Vangelo è contemporaneamente Vita per alcuni, morte per altri.
Simeone predice tutto questo a Maria, le predice ciò che succederà: in particolare le preannuncia sofferenze tremende: pur non dicendole nulla, le dice tutto. E Maria ascolta: lei ascolta, anche se non sa cosa Simeone intenda veramente dire.
La Maria che ci appare dal vangelo, è molto diversa dalla Madonna potente, onnisciente, sicura di sé, rappresentataci lungo i secoli dalla pietà popolare: per tre volte, in questo capitolo, viene detto per esempio che Maria non comprende; ed è vero: in quel momento lei effettivamente non arriva ancora a capire in pieno il suo ruolo, e meno ancora quello di suo figlio; lei non immagina mai cosa sarebbe successo; non immagina quanto le sarebbe costato quel “Si” affidato all’angelo, fin dove l’avrebbe portata; lei però conserva “tutte queste cose meditandole nel suo cuore”; pur non capendo, accoglie con la massima disponibilità il messaggio di Dio, aderendo in tutto e per tutto alla sua volontà. Maria non arriva a capire neppure suo figlio Gesù; però lo segue sempre, con trepidazione, con semplicità, con discrezione, con assoluta fiducia. E questo è il grande “passaggio”, il grande “merito” di Maria: passare dal ruolo di madre a quello di discepola di suo Figlio.
Maria, fin dall’inizio di questa sua “avventura”, non si rende conto di tutto, molte cose la turbano, molte cose non le tornano: per esempio non capisce la presenza dei pastori a Betlemme: i pastori erano ritenuti i rifiuti della società, erano considerati i peccatori per eccellenza: a forza di stare con le bestie erano diventati bestie anche loro. Che ci fa allora questa gentaglia da lei? Come mai soltanto questi “signori” vengono dal suo Bambino? “C’è qualcosa che non quadra”, pensa Maria. “Come mai il Figlio di Dio viene annunciato come il Salvatore da gente che la mia religione ha sempre guardato come cattivi, peccatori, disonesti?”. L’angelo le aveva promesso che Dio avrebbe dato a Gesù il “trono di Davide suo padre”; come mai, allora, Dio lo lascia circondare da questa gente poco raccomandabile, come mai Dio usa questi ceffi per onorarlo? L’angelo le aveva detto anche che quel figlio, Gesù, “sarà chiamato Figlio di Dio”. Sembrava che Maria avesse finalmente capito. Sembrava, perché dal vangelo non appare così; Maria infatti dimostra di non aver capito affatto cosa volesse dire “Figlio di Dio”; se avesse capito, non lo avrebbe portato nel tempio - lui, il Figlio di Dio appunto – per sottoporlo ad un adempimento legale che lo metteva sullo stesso piano degli altri mortali, ai figli di Abramo.
Ma c’è anche un’altra cosa che Maria non comprende: cosa vuol dire Simeone con “una spada ti trafiggerà l’anima?”. Cerchiamo anche noi di capirlo.
C’è da dire che nella Scrittura la “spada” è il simbolo della parola di Dio: “dalla sua bocca usciva una spada a doppio taglio” (Ap 1,16); e ciò per indicare l’incisività, l’efficacia infallibile, precisa e tagliente della Parola. Pertanto, la spada che trafiggerà Maria, altro non è che la Parola stessa del Dio suo Figlio!
Quale sarà infatti la prima parola che Gesù dice nel vangelo? È il rimprovero rivolto ai suoi genitori e soprattutto a sua madre: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” (Lc 2,49). La parola di suo figlio è difficile per lei da capire, le causerà dispiacere, sconforto, incomprensione, derisione. In quel momento Maria dovrà rendersi conto che tutte le sue aspettative di madre, riposte su questo figlio, si realizzeranno in maniera ben diversa da come lei pensava. Gesù mette subito le cose in chiaro, sottraendosi alle naturali attese dei genitori. In altre parole, è come se Gesù avesse detto loro: “voi mi avete generato ma non siete mio padre e mia madre; mio padre e mia madre sono il Signore del cielo (padre) e della terra (madre)”. E ancora una volta, per la terza volta, il vangelo dice: “Ma essi non compresero le sue parole” (2,50).
La spada tagliente per Maria sono dunque le parole di Gesù: le creano una sofferenza, un dramma interiore: un dramma che esplode in tutta la sua “crudezza”, quando Gesù sembra rifiutarla proprio come madre. Un giorno lei e gli altri fratelli lo raggiungono, mentre in una casa è intento a predicare alla folla seduta intorno a lui: gli dicono:“Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano” (Mc 3,32). Gesù risponde in maniera dura e seccata: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. E girando lo sguardo su quelli che lo circondavano dice: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre” (Mc 3,33-34). Parole forti; parole che costringono Maria a cambiare radicalmente, a smettere il suo essere madre per convertirsi; a trasformarsi cioè in “discepola” per diventare “figlia” di suo figlio.
Maria capisce che per Gesù non conta più tanto come “madre”; ma può contare come “discepola”. L’intimità con suo figlio non è garantita più dal fatto naturale di essergli madre, ma dalla sua trasformazione in “discepola”, dall’instaurare cioè con lui un nuovo rapporto, dal creare una unione ancor più intima, una simbiosi inarrestabile col suo cuore e col suo sentire.
Per rimanere “intima” con suo figlio, Maria deve dunque compiere un cambiamento radicale. Perché sarà il suo nuovo ruolo di discepola, in aggiunta a quello di madre, che le consentirà di seguire Gesù fino in fondo, fino alla croce.
La spada per Maria non sono le sofferenze naturali di una madre per il figlio: preoccupazioni, ansie, timori, aspettative non accolte, ecc. La spada tagliente per Maria è capire che la sequela, il seguire suo Figlio come discepola, è più importante, viene prima del legame ancorché forte, naturale e di sangue, che esiste tra madre e figlio. Maria, per seguire il figlio, ha dovuto rinunciare al “privilegio” della sua posizione di madre. Questo intendeva dirle Simeone, il giorno della “presentazione” di Gesù al Tempio.
E a noi, cosa dice questa ricorrenza? Cosa significa, per noi oggi, “presentazione al tempio”? Beh, sicuramente significa “offrire” i nostri figli a Dio; ma non basta farlo una volta sola, all'inizio della loro vita, col battesimo; bisogna poi seguirli, continuare a educarli nella fede. Bisogna crescerli nella fede. Bisogna irrobustirli nella fede. Perché i genitori sono i primi evangelizzatori dei figli: non tanto con le prediche, ma con le piccole cose, con le preghiere che insegnano, con le risposte che danno alle loro domande, con i giudizi che esprimono e i discorsi che fanno in loro presenza, con la coerenza della loro vita famigliare cristiana.
Presentare i figli al Signore, educarli alla fede, significa anche accettare che crescano fedeli a Dio nella libertà delle loro scelte, attraversando pure dei periodi di crisi, magari evitabili.
Uno santo prete diceva: “Quando si è fatto tutto il possibile e non si può più parlare ai figli di Dio, è giunto il momento di parlare a Dio dei figli, cioè di pregare per loro, sempre”.
E poi dobbiamo mettere in conto anche la “spada”. Quella spada della sequela di Cristo che porta a rinnegare i rapporti di sempre, quelli familiari, quelli delle persone care: non perché si voglia loro male, ma semplicemente perché il loro parlare non decolla, non riesce più a spiccare il volo, non corre più in direzione di quella libertà, di quell’autonomia, di quell’osare, tipici del seguire le orme di Gesù in risposta alla sua chiamata. Una chiamata che impone spesso scelte dolorose, ma inevitabili; scelte che lacerano il cuore e l’anima; ma scelte che fanno vivere.
Ebbene la Spada affilata che plasma tutti, è seguire la Parola di Dio, elemento indispensabile per diventare veri discepoli di Gesù: cambiare costa sempre fatica; è come subire una lama che ci taglia, che ci pota. Crescere, maturare, fa sempre male: fa male abbandonare i nostri sogni, anche se irrealizzabili; fa male confrontarsi con la cruda realtà; fa male andare avanti con mille ferite che straziano il nostro cuore. Ma questa è la via sicura del “discepolato”. Raccomandiamoci a Maria, a nostra madre, a colei che per prima ha dovuto percorrerla. Amen.

giovedì 23 gennaio 2014

26 Gennaio 2014 – III Domenica del Tempo Ordinario

«E disse loro: Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini. Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono...» (Mt 4,12-23).
La fede non è un miscuglio di preghiere, di salmi, di concetti religiosi. La fede è “movimento”. Dio mi chiama e io devo andare da Lui. C’è una chiamata (vocatus, vocazione), qualcosa che mi tocca, che mi interpella, che dice al mio cuore “Tu, vieni!”, e c’è una risposta (responsum, responsabilità) che per le logiche comuni è sempre una pazzia, ma che è la Vita per chi segue il Signore.
La fede è andare, muoversi, lasciarsi coinvolgere; fede è mettersi in gioco, scendere dal proprio “io” e aprirsi all’ascolto: “Eccomi! Non posso far finta di niente! Non posso tirarmi indietro! Non posso vivere e sottrarmi alle mie responsabilità! Vengo!”.
Quante persone, soprattutto giovani, a volte si chiedono: “Cosa devo fare nella vita?”. È una domanda che prima o poi tutti ci siamo posto: una domanda che richiede un profondo esame di noi stessi; che si attende da noi una risposta seria, una risposta convinta, propositiva: a volte invece riusciamo a trasformarla in un espediente per sfuggire dalle nostre responsabilità, per rinviare un necessario doversi coinvolgere.
Con la scusa di aspettare la “grande” chiamata, quella decisiva, quella fondamentale, quella che “vale”, continuiamo ad ignorare, ad accantonare quelle “piccole”, quelle di ogni giorno. Le chiamate “normali”, quelle che ci invitano a lasciarci coinvolgere nel quotidiano, nella scuola, nel lavoro, nel sociale: perché dobbiamo stare sempre zitti di fronte a ciò che vediamo? Fino a quando continueremo a dire: “Non mi riguarda?”; fino a quando possiamo tirarci indietro? Far finta di non sapere, di non aver visto?
Eppure intorno a noi c’è un enorme, un immediato, improrogabile bisogno di “opere”, di interventi! C’è bisogno di gente che si impegni, che lotti per un mondo meno corrotto e più vero; c’è bisogno di creare strutture e mentalità rispettose del prossimo, dei più deboli; c’è bisogno di gente che entri sul serio nel mondo della finanza e della politica per rovesciare quella rassegnazione che tanto ci avvilisce: “tanto è così, e andrà avanti sempre così”; c’è bisogno di persone che si schierino per l’umanità, che credano in qualcosa che vada oltre il denaro, la fama superficiale, l’autopromozione; c’è bisogno di persone che credano nell’uomo, che si possa costruire un mondo nuovo e diverso; c’è bisogno di persone profonde che sappiano dialogare, ma anche forti e determinate per difendere i nostri valori morali e religiosi; c’è bisogno di persone appassionate dell’anima, della fede e del profondo; c’è bisogno di persone che ascoltino il dolore e la sofferenza di milioni di persone emarginate, che sopravvivono nei meandri di dinamiche malsane e opprimenti.
Ma chi si deve muovere? Gli altri? Tutti pensiamo che tocchi a qualcun altro. Tutti siamo pronti a scaricare “il barile” ad altri: “La società dovrebbe... i politici dovrebbero... la chiesa... la scuola... le famiglie dovrebbero, ecc.”. D’altro canto i giornali, le tv, i discorsi, pullulano di “esperti”, di consulenti, di parolai urlanti, di bellimbusti che pretendono di convincerci che loro soltanto sanno come fare le cose, che hanno un sacco di idee, che se avessero carta bianca… Ma poi, chi si rimbocca veramente le maniche? Chi va? Chi si impegna? Chi lotta?
Ebbene: “avere fede” vuol dire, in concreto, che se c’è un problema, noi siamo disponibili, siamo pronti a farcene carico; “avere fede” vuol dire: “Io ci sono. Manda me”. Essere cristiani “adulti” vuol dire, insomma, mettersi in gioco sul serio. Altrimenti continueremo ad essere dei bambini piagnucoloni, perennemente in attesa che qualcuno corra in nostro aiuto, che qualcuno ci imbocchi.
È troppo comodo dire che la chiamata di Dio è una cosa riservata ai preti e alle suore. Quella certamente è un tipo “particolare” di chiamata. Ma Dio non chiama solo loro, Dio non chiama soltanto alcuni; Dio chiama tutti, noi compresi. Anche solo pensare, per esempio, che Dio esiste, è già una chiamata: percepirne anche solo l’esistenza, ci spinge automaticamente a conoscerlo meglio; ci spinge a percorrere un nostro cammino di approfondimento, di avvicinamento, con tutto quel che segue. Dio è un problema vitale; è troppo importante per ogni singolo uomo perché egli possa sistematicamente ignorarlo. Dobbiamo prima o poi conviverci: Madre Teresa diceva: “ Dio non ha mani, ha solo le nostre mani; non ha piedi, ha solo i nostri piedi... Lasciamoci usare da Lui e il mondo sarà ricolmo d’amore”.
Nel vangelo la chiamata non è mai un fatto privato. È individuale, nel senso che ogni chiamata è personalizzata; ogni chiamata è diversa per modalità, per il compito che propone, per il carisma particolare, per l’impegno che richiede. È insomma singolare, unica, personale. Ma ogni chiamata ha sempre una dimensione globale, mondiale, universale: “Andate in tutto il mondo”. Dio non è qualcosa da tener nascosto, di intimo, qualcosa da vivere chiusi nella nostra stanza, nel nostro cuore: neppure le monache recluse lo vivono in questo modo; non dimentichiamo che Santa Teresa di Lisieux è patrona delle missioni, pur non avendo mosso un piede fuori dalla clausura! Se la nostra fede è così, atrofizzata, statica, cristallizzata, vuol dire che non è fede; essa è semmai un ripiego, un’evasione da noi stessi, un pretesto per la nostra coscienza; è come una droga, è alienazione e basta.
Fede al contrario è agire, andare, muoversi, camminare; è azione, è relazionarsi. Attenzione però: agire non è fare. Il fare non necessariamente ci coinvolge in prima persona, può essere il risultato di un processo meccanico, passivo; l’agire invece è ciò stesso che noi viviamo, è l’energia che abbiamo dentro, il fuoco e la passione che coltiviamo nell’anima e che, insopprimibile, esplodendo all’esterno, crea e trasforma completamente la nostra vita, fa vivere la Vita. Se la fede pertanto non diventa trasformazione del mondo e della società, desiderio e impegno di lotta contro il male, quel male che ingabbia l’Amore, è una fede vuota, inutile, è un nulla, è vanità.
Gesù ha mandato gli apostoli (e poi i cristiani) a portare il vangelo nel mondo. Ma il vangelo è molto diverso da come pensa e vive il mondo. Da qui il loro impegno a cambiare questo mondo, a farlo nuovo, a renderlo diverso. La fede è trasformazione. E quando alla domenica assumiamo anche noi il pane e il vino trasformati in corpo e in sangue di Cristo, anche noi, come loro, dobbiamo trasformarci, dobbiamo batterci per trasformare il mondo. Dico “batterci”, perché non è un compito facile. Dobbiamo seguire la nostra fede, infischiarcene di cosa dice la gente; non curarci di cosa possa pensare; ciò che conta per noi è seguire la nostra strada, ascoltare i suggerimenti della nostra anima e scegliere di vivere sempre come Lui si aspetta da noi.
Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”. Convertirsi non vuol dire “battersi il petto” o “diventare religiosi”, uomini di chiesa. Pentirsi non vuol dire commiserarsi, dirsi: “Mi faccio schifo, sono un essere immorale, un miserabile!”. Convertirsi, dal greco “meta-noèo”,vuol dire “cambiare mentalità”; dall’ebraico shub, vuol dire “cambiare direzione”.
Il concetto è semplice: se non cambi, se non ti converti, se nella tua vita non fai una conversione ad “U”, continuerai a ripetere sempre gli stessi errori. Non basta quindi pentirsi, riconoscere di aver sbagliato: fin tanto che continueremo per la nostra stessa strada - magari in tempi e con modalità diverse - ripeteremo inevitabilmente i nostri errori. L’essenziale, l’unica cosa necessaria, è “cambiare percorso”, tagliare col passato, tagliare con certe amicizie, con certe abitudini, con certi ambienti. Solo così la nostra fede potrà rispondere adeguatamente alla “nostra chiamata”.
Gesù, nel chiamare i primi discepoli, propone loro una soluzione drastica, una cosa da pazzi: lasciare immediatamente famiglia (base della società) e lavoro (certezza di sopravvivere). Questi uomini, di punto in bianco, hanno pertanto dovuto sconvolgere radicalmente le loro idee; hanno dovuto cambiare religione; mettersi in contrasto con ciò che tutta la gente diceva e pensava; hanno dovuto deludere le aspettative delle loro famiglie, dei loro cari; andare incontro a contrasti e persecuzioni. Su Gesù infatti circolavano dicerie terribili: che era figlio di una prostituta (Tertulliano), che era un fanfarone (Origene), che mendicava vergognosamente (Origene), che cercava gente stupida e deficiente (Celso).
Beh, per la verità, non è che i primi discepoli fossero, anche caratterialmente, un granché: Levi, Matteo l’evangelista, era impuro e traditore perché esattore delle imposte per conto degli odiati romani (non potevano essere perdonati e qualunque cosa toccassero era impura!). Simone, lo zelota (zelota in greco, cananeo in aramaico), era un fanatico. Zelota vuol dire appunto fazioso, esaltato! Simone, Pietro (petros=pietra), era chiamato così per il suo carattere duro e ostinato.
Giacomo e Giovanni sono chiamati dallo stesso Gesù i Boanerghes, gli assalitori, gli attaccabrighe per il loro orgoglio e il loro carattere collerico.
Le chiacchiere e i pettegolezzi su questo gruppo, non si contano più (vedi per es. il vangelo di Filippo e vari altri vangeli apocrifi). Il loro è un gruppo singolare, diverso, che gli altri non capiscono e apertamente commiserano.
Ma essi sono la futura Chiesa. Sì, perché chiesa, ec-clesia, letteralmente, non significa altro che “chiamati fuori”. La chiesa, secondo il pensiero di Gesù, è quello spazio in cui la gente vive in maniera diversa dagli altri.
In una società dove tutti pensano al lavoro, alla famiglia e ai figli, Gesù propone uno stile decisamente diverso: la cosa più importante per lui infatti non è tanto queste situazioni (lui non ebbe né famiglia, né compagna, né figli), ma vivere seguendo lo slancio del proprio cuore, vivere con compassione, con tenerezza, far uscire le potenzialità che abbiamo dentro, vivere con leggerezza, elasticità, entusiasmo, sorriso, umanità.
Nessuno viveva così a quel tempo (e neppure oggi!): e Gesù fu osteggiato non perché il suo messaggio fosse cattivo, ma proprio perché imponeva una vita diversa da quella di tutti gli altri; e questo spaventava la gente.
Eppure la chiesa è nata esattamente così: è l’insieme di quelli che vivono secondo la chiamata di Cristo (“i chiamati fuori”) e lo fanno in maniera diversa. Non perché credono di essere migliori degli altri, ma perché hanno scelto di seguire ideali e valori decisamente migliori; perché essi vogliono veramente seguire Cristo, vivere insomma per Lui, con Lui, in Lui. Amen.

venerdì 17 gennaio 2014

19 Gennaio 2014 – II Domenica del Tempo Ordinario


In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!... [e] testimoniò dicendo: “E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,29-34).
Il Battista, nel vangelo di oggi, dice: “Io ho visto e ho testimoniato”. Troppo spesso le persone parlano per sentito dire. Allora bisogna chiedere: “Quel che dite l’avete visto voi? Voi c’eravate?”. “No, ma l'abbiamo sentito dire... tutti ne parlano...”. “Ma voi c’eravate?”. “No, ma che significa?”. “Significa che dovete starvene zitti”.
Testimone è solo colui che ha visto, che ha toccato con mano, non colui che crede, che pensa, che ipotizza, che interpreta. Per questo il Battista è sicuro, certo, perché ha visto.
E noi, cos’abbiamo visto di Dio? Come possiamo dire di conoscerlo? L’abbiamo mai incontrato? Troppa gente pretende di parlare di Dio: ma parla a vanvera, dice solo stupidaggini, fa solo chiacchiere; perché in realtà non ha mai “incontrato” Dio. Per parlare di Dio, bisogna prima incontrarlo: “Se l’hai incontrato, allora Dio esiste, altrimenti no”, diceva André Frossard nel suo libro: “Dio esiste io l’ho incontrato”.
Allora la domanda che spesso ci poniamo: “Ma io, conosco Dio? Io credo in Lui?”, è una domanda mal posta. La domanda giusta è: “Cos’ha fatto Dio per me? Riconosco in me, nella mia vita, l'opera continua di Dio?” Perché solo se lo abbiamo incontrato personalmente possiamo testimoniarlo; solo se abbiamo “visto”, sappiamo!
Il Battista dunque rende testimonianza a Gesù: “È lui l’agnello di Dio che toglie il peccato dal mondo”. È l’espressione, centro del vangelo di oggi, che anche noi ripetiamo tre volte durante la Messa. Ma che vuol dire “agnello di Dio”?
Gli ebrei erano un popolo nomade, allevatori di bestiame; conoscevano bene agnelli, pecore e capre. Conoscevano il Salmo 22: “Il Signore è il mio pastore”. Conoscevano l’agnello che ogni anno a Pasqua immolavano (tutt’oggi) per ricordare l’uscita dall’Egitto. Conoscevano il capro espiatorio sul quale - ogni anno, il giorno dell’Espiazione (Yom Kippur) - venivano caricate simbolicamente tutte le colpe del popolo, e poi veniva mandato a morire nel deserto. È infatti da questo fatto che è nata l’espressione “il capro espiatorio”: la persona cioè che prende su di sé tutte le colpe degli altri... le colpe non sue. Era un rito primitivo, per liberarsi dalle proprie colpe. Del resto tutti i popoli, in ogni tempo, hanno sempre offerto sacrifici a tale scopo, per liberarsi dalle proprie colpe: “sacrifico qualcosa di caro, d’importante, perché Dio abbia misericordia di me e perdoni i miei errori”. E di errori ne commettiamo veramente tanti, soprattutto quando pretendiamo di insegnare a Dio come deve fare il suo mestiere.
Dovremmo essere come l’acqua che si adatta ad ogni recipiente: invece no: vogliamo essere noi a decidere e stabilire cosa è buono per noi e dirigere la nostra vita. Ma allora che significato ha “credere in Dio” se poi siamo noi e non Lui a dirigere la nostra vita?
Quante volte scontrandoci con i fatti quotidiani diciamo: “Questo non è giusto!”. Quante volte diciamo: “Perché Dio mi tratta così?” Quante volte esclamiamo: “Ma perché Dio si vendica con me? È proprio cattivo!”. E se invece fosse che Dio ci sta chiamando? E se invece dovessimo passare proprio di là? Allora non imprechiamo mai, non chiediamo ragione a Dio di tutto ciò che ci succede. Diciamo piuttosto: “Cosa devo imparare? In cosa devo migliorare? Qual è l’insegnamento che devo ricavare da quanto mi succede nella vita?”.
Del resto, ogni tappa, ogni passaggio che dobbiamo superare nella nostra vita ci costringe a fare delle scelte, ci costringe a far morire qualcosa di noi. Vivere, crescere, evolvere, diventare discepoli del Signore, vuol dire far morire qualcosa, vuol dire sacrificare il proprio agnello.
L’agnello, allora, è il sacrificio; è cioè il dolore (l’agnello, simbolo della vulnerabilità, della debolezza), che devo pagare; è il soffrire, per crescere, per evolvere, per diventare spirituale, puro. Nella nostra vita abbiamo sempre avuto paura di fare una scelta difficile, controcorrente: ebbene, l’agnello è il prezzo della libertà interiore. Abbiamo sempre temuto di dire di no agli altri per non farli soffrire: l’agnello è il prezzo dell’autonomia. Abbiamo sempre voluto pianificare e decidere tutto: l’agnello è il prezzo della fede.
Nel mondo dello spirito, ciò che è più grande (l’amore) richiede il prezzo più grande (l’agnello del sacrificio). Ma ciò che richiede il prezzo più grande (l’amore disinteressato) dona anche la felicità e la pace più grande.
Ma, ripeto, perché paragoniamo Dio ad un “agnello”?
Agnello, in ebraico, si dice con la parola “taljah” che vuol dire sia “agnello” che “servo”. Probabilmente Giovanni Battista quando parlava di Gesù intendeva non tanto l’agnello, quanto il “servo di Dio”. Con il tempo però i cristiani lessero la parola “taljah” solo come agnello. D’altronde non era forse vero che la sentenza di morte di Gesù era stata pronunciata il 14 di Nisan, verso mezzogiorno, proprio nell’ora in cui sgozzavano gli agnelli? Gesù quindi è il nuovo, ultimo e definitivo agnello, che toglie il peccato dal mondo.
È vero che l’espressione della Messa “Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”, per noi vuol dire: “Ecco Colui che è morto a causa dei nostri peccati; Ecco Dio che si è sacrificato per noi”.
Ma questa espressione significa anche tutt’altro; significa un po’ il contrario di quello che normalmente pensiamo. Vuol dire infatti: “Dio è buono come un agnello; Dio non ti farebbe mai del male; Dio è bontà, è tenerezza; Dio non è vendicativo: non te la fa pagare se lo ferisci; Dio non è geloso: non si arrabbia se vuoi bene ai tuoi cari, al tuo prossimo, come a Lui. Dio non è violento: non vorrà mai la tua sconfitta”.
Gesù dunque era “l’agnello”, in quanto immagine e simbolo della bontà; l’agnello non fa paura: Dio è così. Per nessun motivo al mondo dobbiamo temere. Lui non tradisce, Lui non volta le spalle, Lui sta sempre dalla nostra parte, Lui non ci abbandona mai. L’agnello è simbolo di dono: il latte, la lana e la carne; Dio è così: tutto quello che Lui ha ce lo dona. Lui vuole che noi siamo felici, felici al massimo, che siamo inebriati di vita.
Noi oggi possiamo dire ancora meglio, possiamo paragonare Gesù ad “un abbraccio”: è infatti tra le sue braccia, stretti a Lui, che possiamo veramente sentirci accolti, accettati, avvolti, riconosciuti, stimati, amati.
Quando ogni domenica ripetiamo le parole: “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo...”, non dobbiamo cadere in ansia per le nostre debolezze, per le nostre umane infedeltà: ci devono invece rassicurare. Dio è un agnello che ci viene incontro per amarci, per guarirci, per darci tutto ciò che ha, perché possiamo vivere e vivere al massimo; perché cresciamo, ci espandiamo, siamo noi stessi; perché amiamo e siamo amati. Se Dio viene paragonato ad un agnello, vuol dire che Dio è buono. Cosa ci può mai fare un agnello? Un leone, un lupo, una tigre, sono pericolosi, ci possono fare del male. Ma un agnello? Dio è così.
Allora andare a fare la comunione, è come andare dalla persona amata: una gioia, un’attesa, un’aspettativa. Andare a fare la comunione è come stare tra le braccia della mamma: lì sentiamo quanto valiamo, quanto siamo belli e amati. Andare a fare la comunione è come stare tra le braccia del papà: ci sentiamo sempre al sicuro.
Certo, Dio è anche l’Agnello che toglie i nostri peccati: le nostre scelte sbagliate ed egoistiche, le nostre paure di donarci, i blocchi d’amore del nostro cuore, i condizionamenti negativi del nostro spirito. Ma a Lui interessa più la nostra salvezza che il nostro castigo; innamorato come una Madre, buono e rassicurante come un Agnello, ci prende per mano per aiutarci ad affrontare e superare tutto questo.
Dio infatti si è mostrato al mondo come Bambino perché voleva che non avessimo paura di Lui. Se voleva che lo temessimo si sarebbe mostrato forte, potente, intransigente. Ma che può farci un bambino? E se pure qualche volta ci mette alle strette, se ci da una qualche tirata d’orecchie, se insomma talvolta è fermo, esigente con noi, è solo per amore, perché ci ama veramente, perché vuole che diventiamo grandi, adulti e soprattutto felici.
C’è una storia andina che racconta di una banda feroce di predoni che, scesa dalle alte vette delle Ande, attaccò un villaggio, e portò via tutte le ricchezze degli abitanti e anche un bambino. La gente del villaggio formò subito una squadra per andare a riprendersi almeno il bambino; ma erano contadini, inadatti a scalare le alte vette delle montagne. Ci provarono comunque: tentarono in tutti i modi a scalare quelle rocce. Ma tutto fu inutile: dopo giorni e giorni di tentativi erano ancora bloccati a metà strada. Ad un certo punto rimasero tutti sbigottiti vedendo la madre del bimbo che scendeva dalla vetta con il figlio in braccio; era salita da sola fin lassù. Le corsero incontro e le chiesero: “Come hai fatto a salvarlo? Noi che siamo in tanti, uomini forti e vigorosi, non ci siamo riusciti; tu da sola, sì?”. E lei: “Era mio figlio!”. Ebbene, Dio è come quella madre: e noi siamo i suoi figli. Amen.

venerdì 10 gennaio 2014

12 Gennaio 2014 – Battesimo del Signore

«Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui» (Mt 3, 13-17).
Oggi il Vangelo ci parla del Battesimo di Gesù: egli parte dalla Galilea per raggiungere le acque del Giordano e farsi battezzare dal Battista: questi però è riluttante a farlo, in quanto vede in Lui quel “più forte di me”, in grado di battezzare non solo nell’acqua ma “in Spirito Santo e fuoco”, come Matteo ci dice nei versetti immediatamente precedenti al testo di oggi.
Sono parole molto chiare e programmatiche, in quanto rivelano la necessità per il cristiano di sottoporsi a un duplice battesimo: uno d’acqua e uno di “Spirito Santo e fuoco”.
Cosa vuol dire: vuol dire che con il battesimo d'acqua noi “nasciamo in Cristo”, iniziamo cioè il nostro percorso di sequela; siamo abilitati a fare la nostra corsa, a combattere la nostra “buona battaglia”. Ma è con il secondo, con il battesimo di fuoco, che noi diventiamo veramente “figli di Dio”: è il superamento della prova che ci saggerà come “oro nel crogiuolo”, trasformandoci in “olocausto” a Dio, rendendoci graditi a Lui; in altre parole significa che soltanto testimoniando con il nostro comportamento, con la nostra vita, ciò in cui crediamo, dimostreremo di essere fedeli fino in fondo a quel Qualcuno che ci appassiona dentro. Un battesimo, questo, chiaramente determinante e irrinunciabile, pur essendo in assoluto anche il più difficile.
È noto infatti come la “chiamata” (il battesimo d'acqua) dei grandi personaggi della Bibbia, sia stata sempre accompagnata da prove, da percorsi difficili, duri, faticosi, nei quali Dio ha forgiato e purificato il suo prediletto. Lo stesso Gesù ce ne indica l’importanza e la necessità: all’inizio della sua predicazione Egli infatti si “immerge nel Giordano”, scende cioè in quelle acque, che rappresentano il collettore di tutte le nefandezze umane: con questa doppia sottolineatura (il nome Giordano, yared, vuol dire appunto immergersi) viene sottolineata la Sua consapevole decisione, per il pieno adempimento del Suo mandato, di calarsi in una situazione di particolare sofferenza; di “immergersi” cioè nella fatica, nelle contrarietà, nelle pene, nelle incomprensioni di questo genere umano, talmente a lui ostile, da cercare di ucciderlo fin dai primi giorni della sua nascita.
Ora, con il nostro battesimo d’acqua, noi siamo diventati cristiani. Siamo stati cioè “generati” alla fede, aggregati alla Chiesa di Cristo. Ma non è questo il punto determinante, il traguardo finale. Abbiamo appena superato il casello di ingresso dell’autostrada che conduce alla piena figliolanza con Dio. La strada è tutta da percorrere. Non enfatizziamo troppo questo nostro battesimo d'acqua, questo inizio; non illudiamoci di aver assolto con esso ogni nostro “dovere” di credenti. Il vero battesimo, quello che ci rende cristiani a tutti gli effetti, è quello di fuoco: è, cioè, quella rinascita interiore, quel rigenerarci, quel ricostruirci che ci rende esattamente ciò che Dio si aspetta da noi; è insomma quel rispondere con la vita vissuta alla sua chiamata individuale, quella chiamata “formale” che Lui ci ha rivolto con il battesimo d’acqua.
Significa, in altre parole, passare dalla teoria alla pratica, dal poter essere cristiani, all’esserlo realmente, nella pratica; un passaggio che può avvenire soltanto attraverso il “fuoco”.
Non per nulla la radice della parola ebraica “fuoco” (a-sc) è presente in ebraico sia nella parola uomo (a-i-sc) che donna (a-sc-ha). Per diventare noi stessi, quindi, non importa se siamo uomini o donne, dobbiamo necessariamente passare attraverso il “fuoco”, attraverso il “battesimo dello Spirito”.
Gesù è molto chiaro in proposito: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso. C'è un “battesimo” che devo ricevere; e come sarò angosciato, finché non sarà compiuto. Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, la divisione...”. “Non sono venuto a portare la pace ma una spada...”.
Il nostro vero battesimo, pertanto, coincide con una nostra vita forgiata attraverso le difficoltà, il nostro costruirci spiritualmente, il nostro personalissimo rispondere con i fatti alla chiamata di Dio.
Smettiamola quindi di pensare che, per il semplice fatto di essere battezzati, siamo automaticamente cristiani. Quando le inchieste ci documentano che il 95% degli italiani sono cristiani, affermano il falso. Il 95% degli italiani sarà stato anche battezzato con l'acqua, ma per essere veri cristiani quello che serve è il battesimo del “fuoco”, è diventare “immagine” di Dio. E non possiamo certo riconoscerci in tali percentuali.
La gente è ancora convinta che seguire Gesù sia una cosa semplice, tranquilla, automatica. Basta appunto essere battezzati, fare qualche pratica religiosa, andare ogni tanto a messa, dire qualche preghiera, e il gioco è fatto. Nossignori: seguire Gesù significa “fuoco”. È quella passione che corrode, che ci brucia dentro, che non ci fa stare zitti di fronte al male, alle ingiustizie; che non ci fa assistere indifferenti ad una società che uccide l'anima degli uomini; a genitori irresponsabili che trattano i loro figli come delle marionette, dei burattini, disinteressandosi di impartire loro una benché minima formazione morale. “Fuoco” è quella passione che ci spinge ad uscire, ad esporci, a non essere concilianti con chi oltraggia impunemente Dio e la sua legge, con chi cerca di sovvertire i suoi precetti morali. Potremmo benissimo starcene in disparte e farci gli affari nostri (“non tocca mica a me!”); invece no. Quel “fuoco” ci costringe a rispondere d’istinto, a metterci in gioco, rischiando in prima persona.
Passare attraverso il “fuoco” significa anche purificarsi, bruciare tutto ciò che di impuro c'è dentro di noi; significa renderci conto che noi, e non gli altri, siamo invidiosi, siamo in continua competizione, siamo tremendamente gelosi. Che noi, e non gli altri, siamo incapaci di amare: perché vogliamo solo possedere, gestire, manipolare. Che noi, e non gli altri, abbiamo bisogno dell'umiltà per cambiare, per crescere, per migliorare e trasformarci.
Non è facile cambiare, amici miei. Non è piacevole vedere certe cose dentro di noi. Per questo seguire Gesù è e sarà sempre difficile, impegnativo; un lavorio costante, senza interruzioni. E questo non è affatto una cosa facile, di poco conto! È certo una esperienza entusiasmante, passionale, che ci dà la sensazione di vivere in piena libertà, che ci fa capire che la nostra vita ha finalmente un senso: ma vi assicuro, non è una impresa facile. Un santo vescovo soleva dire: “Pensavo che la mia vita fosse la dimostrazione di una fede forte; invece era solo una buona salute, con una discreta faccia tosta”.
La parola greca baptizein (yared in ebraico) corrisponde, come ho detto, al nostro immergersi, entrare dentro. Un significato con due sfumature: la prima è “entrare dentro nel sociale”, immergersi nelle esigenze del prossimo, rispondere alle loro chiamate di vita, calarsi insomma in un particolare contesto storico. Quante persone, in questo senso, non hanno “fuoco”, non hanno anima, non hanno niente dentro di sé. Trascinano stancamente, giorno dopo giorno, l'inutilità di una vita che progressivamente si spegne nella routine delle solite cose. Non si sono “immersi”, non hanno superato il “battesimo di fuoco”, non hanno dato cioè una impronta propositiva alla loro vita, mettendola a beneficio della collettività. “Fuoco”, in questo senso, significa proprio “solidarietà”: ciò che succede agli altri ci deve interpellare direttamente, esige una nostra immediata risposta del tipo: “Io ci sono. Io ti aiuto. Io mi metterò dalla tua parte”. Solidarietà vuol dire: "Io ho un cuore che pulsa, che ama, che si appassiona. Non posso rimanere indifferente di fronte a quanto di male ti succede. Io sono al tuo fianco!”
La seconda sfumatura di “immergersi” è “scendere dentro di noi”, entrare nella nostra anima, individuare i nostri demoni, conoscerli, sfidarli, batterli.
Tutti abbiamo dei demoni con i quali fare i conti: l’odio, l’invidia, i complessi opposti di inferiorità o di superiorità, la rabbia, la gelosia, l’ansia distruttiva; un cuore freddo, gelido, dominato dalla paura folle dei sentimenti e delle emozioni, ecc… Tutti dobbiamo passare di lì, tutti dobbiamo immergerci nel nostro Giordano per confrontarci con essi. Perché fino a quando non li avremo affrontati e “bruciati”, saranno loro a dominarci.
Vivere nel divino, essere grandi, non è essere perfetti, aver vissuto senza macchia; ma aver percorso con fatica il proprio “battesimo di fuoco”, individuando quelli che sono i nostri demoni e sconfiggendoli; non è essere infallibili, ma avere l'umiltà di riconoscerci peccatori e rimediare ai nostri errori; non è andare avanti sempre e comunque per la stessa strada, ma avere il coraggio di fermarci, ed eventualmente di cambiare direzione. Dio non ci ama perché siamo perfetti: Dio ci ama perché siamo come siamo. Figli suoi.
Un altro elemento del vangelo di oggi, che ci fa meditare, è infatti quella voce che esclama: “Tu sei il mio figlio prediletto”. È il Padre che parla, e Gesù a quelle parole si sente amato, si sente protetto, si sente al sicuro con Lui.
Ebbene, sono parole che valgono anche per tutti noi. Sono rivolte a tutti; perché tutti siamo i figli di Dio, amati e prediletti. Quella stessa voce dice a ciascuno di noi: “Tu sei l’amato... sei il mio figlio prediletto... sei grande ai miei occhi... non ti lascerò... sei importante per me... non ti abbandonerò... non mi devi raggiungere: sono già tuo... tutto ciò che esiste l'ho fatto per te... sei sempre nei miei pensieri... per quanto tu vada lontano io rimarrò sempre tuo padre e tua madre, e tu sarai sempre mio figlio...”. Certo, se credessimo veramente a queste parole, nulla potrebbe più farci paura. Non avremmo più nulla da temere.
Noi abbiamo imparato sulla nostra pelle che nulla si ottiene gratuitamente dalla vita: l’amore, l’amicizia, l’ammirazione, l’approvazione degli altri, sono tutte cose che vanno meritate, che si ottengono soltanto se si eccelle, se si è bravi.
Ma con Dio non è così. Dio non ci ama perché siamo bravi, Dio ci ama perché “siamo noi”. Punto.
Il problema grosso è che noi non riusciamo a capire così tanto amore; non capiamo e non accettiamo di farci amare così gratuitamente, per sua iniziativa. Non è lui che non ci accetta, siamo noi che non accettiamo di essere il niente che siamo. Siamo convinti al contrario di aver fatto molto, di essere “molto in alto”; avanziamo delle pretese, pensiamo di essere sempre in credito nei suoi confronti e quindi pretendiamo. “Lui deve” amarci, “Lui deve” ricambiare con l’amore. Noi lo pretendiamo il suo amore, perché ci “spetta” in cambio dei nostri meriti. Ma quali meriti? Certo, è proprio difficile lasciarci amare come Dio ci ama! Noi riusciamo sempre a rovinare tutto, anche l’amore più vero: non riusciamo a capacitarci che Lui ci ami di un amore incondizionato, di un amore fedele, di un amore perenne, di un amore gratuito e disinteressato, per il quale non dobbiamo pagare nulla, per il quale non abbiamo alcuna cambiale in scadenza. Sì, è difficile per noi capire la vera portata di tutto questo, è difficile perché sovrasta decisamente i limiti della nostra piccola mente umana.
Allora pensiamoci ogni tanto: pensiamo che noi, con tutte le nostre miserie, noi che a volte siamo proprio uno schifo, proprio noi siamo i figli prediletti di Dio. Perché in conclusione questa è la verità: Dio è nostro Padre, noi siamo suoi figli, e per questo egli ci ama. Amen.


venerdì 3 gennaio 2014

6 Gennaio 2014 – Epifania del Signore

«Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono» (Mt 2,1-12).
Il Natale ci ricorda che tutti abbiamo il compito di far nascere il Bambino Divino che si trova dentro di noi. Un bambino che, con la nostra vita, con le nostre scelte, continuiamo a nascondere, ignorare, seppellire nel profondo del nostro io: ora, per trovarlo e riportarlo al centro della nostra attenzione, del nostro cuore, abbiamo due diverse soluzioni da adottare, due strade da percorrere: quella di Erode e quella opposta dei Magi. La prima è la più semplice, in quanto ad Erode non interessa conoscere Gesù, anzi lo vede come un nemico, un pericolo, una presenza scomoda, e per questo lo vuole "uccidere", e risolvere il problema una volta per tutte. La seconda strada, invece, è quella dei Magi, di coloro che "lo cercano", che sono disposti a mettersi completamente in gioco per trovarlo ad ogni costo, convinti che Gesù è l’unico che può offrire la Vita autentica e una stabile felicità. Noi dunque siamo di fronte a questo bivio: possiamo essere tanti Erode o possiamo essere come i Magi. Ma quello che conta è che dobbiamo fare la nostra scelta!
Certo le situazioni della vita sono diverse per ciascuno di noi, molto diverse; ma tutti indistintamente, buoni e cattivi, abbiamo in comune una grande ricchezza: la presenza di Gesù dentro di noi; un Gesù che pazientemente aspetta di incontrarci, di ottenere tutta la nostra attenzione. Da questo punto di vista siamo tutti fortunati e tutti abbiamo le stesse potenzialità.
I Magi, dice il vangelo, “vennero da Oriente”: hanno percorso un cammino lunghissimo. Noi invece ci illudiamo; pensiamo che trovare Dio sia un fatto semplice, un passatempo, una cosa spontanea, automatica; siamo convinti che l’incontro con Dio, vale a dire l’adesione seria e totale alla nostra vocazione di cristiani, avverrà tranquillamente ad un certo punto della nostra vita, senza fare un passo: di punto in bianco, magari mentre siamo comodamente seduti in casa, davanti alla tv, con accanto un bel bicchiere di coca e la busta dei pop-corn.
Ma non è così. Vogliamo veramente trovare Dio, il “nostro” Bambino, quel Gesù che abita nel nostro cuore? E allora dobbiamo cercarlo! E lo dobbiamo fare decisi, con tutte le nostre forze, con tutta la nostra attenzione, con tutto il nostro entusiasmo. Non certo girandoci i pollici!
I Magi, come ho detto, partono da lontano: sono persone ricche, vivono negli agi, nel lusso, sono dei “re”; stanno benissimo già così come sono; non hanno alcun bisogno di intraprendere un viaggio faticoso, pieno di imprevisti, senza alcuna certezza di trovare alcunché, diretti verso l’ignoto, verso il mistero. Eppure lo fanno: rispondono generosamente al quel bisogno imperativo che sentono nascere dal loro cuore, dalla loro anima: il bisogno di trovare e incontrare il Dio Vero. Il viaggio, la ricerca affannosa di scoprire il Divino, diventano da quel momento il loro respiro, il loro anelito costante.
Erode invece si comporta in maniera completamente diversa: lui non intraprende nessun viaggio; schiavo dei vizi, del lusso e dell’avarizia, non fa alcuna ricerca; non vuol fare fatiche inutili; rimane a Gerusalemme, sfruttando le fatiche ed il lavoro degli altri: se ci saranno novità, c’è chi gliele riferirà. Troppo impegnato a gozzovigliare, non troverà nessuno. Perché chi non “parte”, chi non si muove, chi non si mette in viaggio, non arriverà mai a niente.
I Magi dunque partono per il loro lungo viaggio. Ma chi sono poi questi “maghi” o “magi”? Beh, dobbiamo dire che, per la Bibbia, i “maghi” sono una presenza imbarazzante, inammissibile, sempre negativa, eccetto in questo passo del vangelo. Il termine "maghi" in greco significa infatti "imbroglioni, ciarlatani, coloro che predicano menzogne" (Gr 27,10). Che ci fanno allora questi ceffi davanti alla culla del Dio Bambino? Perché Matteo, unico evangelista, ce li infila dentro, dopo averli ribattezzati col nome ingentilito di “Magi”?
Molto probabilmente perché in loro ha visto proprio noi, l’umanità peccatrice: se lo hanno fatto loro, con tutte le loro deficienze, perché non possiamo anche noi prostrarci per adorare il Dio Bambino? Noi, altrettanto negativi, troppo spesso senza dignità, volentieri lontani da Dio, immersi nel peccato?
È questo il lato positivo della loro impresa: ci hanno fatto capire ciò che è veramente importante nell’esistenza umana: la ricerca cioè di un Dio che sazia l'anima, che rende veramente felici i nostri cuori; un Dio per cui vale la pena di vivere e di morire.
Per farlo essi si sono guardati dentro, hanno meditato, hanno consultato le stelle: anche noi, per arrivare al Bambino Gesù, dobbiamo fare altrettanto: dobbiamo guardarci dentro, scrutare i nostri cieli e le nostre stelle. Non abbiamo altra possibilità! Ma purtroppo non è facile: molte persone farebbero di tutto pur di non guardarsi dentro! Perché farlo, significa scoprire che non siamo come pensavamo di essere; significa scoprire che ciò che credevamo amore non è affatto amore, anzi; significa scoprire dolori, pianti e grida che non vorremmo né sentire né affrontare; scoprire che la realtà non è quella che vediamo; scoprire che dentro di noi c'è tutto un mondo che non vogliamo vedere, che ci nascondiamo, che teniamo ben chiuso a chiave in qualche angolo della nostra coscienza.
Noi siamo quindi più disponibili a seguire l’esempio di Erode: di colui che non si guarda dentro, perché, forse più di noi, ha paura di ciò che vedrà; di colui che si limita ad appoggiarsi agli altri, ai Magi, ai sommi sacerdoti e agli scribi; di colui che cerca il profitto personale, rubando le iniziative altrui.
Se vogliamo trovare "Dio", anche noi, come i Magi, dobbiamo cambiare tutte quelle certezze che crediamo "verità", che invece sono soltanto illusioni, falsità, menzogne. Perché quello di cercare Dio è un viaggio che intende trasformarci, farci diventare degli autentici figli di Dio, farci cioè diventare esattamente come siamo stati pensati, voluti e creati da Dio.
È un viaggio, quello di cercare Dio, durante il quale ci possiamo perdere. È vero. È stato così anche per i Magi: hanno perso la loro stella e non sapevano più dove andare. Ma questo “perderci” deve servire per ritrovarci: dobbiamo cioè rinunciare sul serio alle nostre idee, alle nostre convinzioni, per trovarne di più profonde, di più valide, di più durature. Dobbiamo insomma abbandonare le nostre certezze provvisorie e fittizie, per trovare Dio, Verità immutabile. Dobbiamo perdere gli "amici" di questo tempo per trovare nuovi amici, nuovi compagni di viaggio, anch'essi alla ricerca del Dio Amore. Dobbiamo perdere la nostra immagine esteriore per trovare quella interiore, l’autentico “noi stessi”. Dobbiamo perdere il nostro instabile controllo della vita, per affidarla interamente a Lui, consapevoli che Lui soltanto è il nostro Maestro, la nostra Guida, la nostra Sicurezza. Amen.

giovedì 2 gennaio 2014

5 Gennaio 2014 – II Domenica dopo Natale

“Verbum caro factum est: il Verbo si è fatto carne” (Gv 1,1-18).
La carne è la “porta” attraverso cui Dio, la Parola, è sceso sulla terra. Se il Verbo si è fatto carne vuol dire che tutto ciò che esiste parla di Lui. Pensiamo per un attimo al nostro corpo: tutto in esso ci parla di Dio (dabar), ma solo se abbiamo occhi per vedere. Niente, silenzio assoluto, se siamo ciechi (deber). Il nostro corpo, la nostra “forma umana” ci parla effettivamente di Dio, ci rivela dei principi, ci rivela il senso profondo della nostra vita. Per esempio: perché due orecchie e una sola bocca? Perché dobbiamo ascoltare il doppio rispetto al nostro parlare. Quindi ascoltiamoci bene, prima di dire qualcosa su di noi. Ascoltiamoci bene prima di dire qualcosa sul nostro prossimo. Se uno parla tanto, se parla in continuazione, vuol dire che non si ascolta. Se vogliamo conoscere bene una persona, parliamo poco e ascoltiamola molto. È così che sapremo chi abbiamo davanti. Se vogliamo conoscerci veramente, se vogliamo sapere chi siamo in realtà, dobbiamo parlare poco e ascoltarci molto, ascoltare attentamente cosa abbiamo dentro. È così che sapremo chi siamo. Se vogliamo conoscere i nostri figli, i nostri cari, il nostro prossimo, parliamo loro, ma soprattutto ascoltiamoli il doppio: ascoltiamo le loro parole, ma soprattutto i loro silenzi.
Ancora: perché i nostri piedi sono fatti così? Perché devono andare sempre avanti. Non possono andare indietro. In questo modo il nostro corpo (il Verbo che è in noi) ci dice: "In ogni situazione, va sempre avanti!. Non fermarti mai, non scoraggiarti mai, non disperarti mai; non ti girare mai indietro, non tornare mai indietro, sui tuoi passi!”. Noi siamo fatti per andare sempre avanti. I nostri piedi sono fatti così, perché dobbiamo sempre “progredire”, avanzare, mai retrocedere.
Noi siamo pieni di sensi di colpa per ciò che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto; per ciò che avremmo potuto essere e non siamo stati, per ciò che avremmo dovuto dire e non abbiamo detto. Ma i rimpianti sono inutili; non rallentiamo mai il nostro passo per voltarci indietro: ciò che è fatto è fatto; è passato. Ora basta. Ora viviamo l'oggi. Il passato non si cambia, mentre possiamo intervenire sul presente.
E gli occhi? Anche i nostri occhi sono posizionati in funzione del nostro andare in avanti; sono fatti per guardare sempre più in là, per avere la visione di ciò che è lontano, di ciò verso cui dobbiamo andare, verso la meta del nostro peregrinare. Nella vita, guardare sempre avanti e lontano, vuol dire avere speranza, avere fiducia, non pretendere mai di rivivere i bei tempi passati. Sono belli solo perché sono passati. Qualunque cosa succeda... dobbiamo ripartire.
Guardare “sempre lontano” vuol dire avere una visione completa delle cose, riconoscere esattamente la via migliore da percorrere. Chi non vede più in là del suo naso, inciamperà. Chi è miope, chi ci vede poco, non andrà molto lontano. Manteniamo quindi una visione nitida, luminosa, uno sguardo e una mente aperti. Non fermiamoci sulle piccinerie della vita, nutriamoci di sogni grandi, di visioni entusiasmanti, per noi e per il prossimo.
E le mani? Perché le mani sono lì, in alto, e non da un'altra parte? Perché il nostro agire deve essere la conseguenza di ciò abbiamo dentro, al centro, nel nostro cuore. È la nostra mente che guida le nostre mani. Noi, in pratica, facciamo quello che siamo. Agiamo in base a quello che sentiamo dentro: le estremità sono governate dal centro. Le mani fanno esattamente quello che decide il nostro cuore.
Così è tutto il nostro corpo; la nostra carne parla di Dio, è creata da Lui secondo un principio logico, verso la cui conoscenza noi dobbiamo tendere, sul quale dobbiamo realizzarci.
Ma da dove dobbiamo iniziare? Per iniziare un cammino spirituale, basta poco; l’importante è volerlo seriamente. Giovanni ci suggerisce un metodo semplice: “In principio era il Verbo”: che vuol dire: la Parola, la “Dabar”, è il punto di partenza di ogni cosa. Noi dobbiamo quindi “principiare”, iniziare proprio da Lui, dalla Parola di Dio: poiché essa è il faro che illumina il nostro cammino di trasformazione, la garanzia del nostro benessere spirituale.
Vogliamo crescere? Vogliamo diventare più spirituali? Iniziamo dal Verbo. Fermiamoci e ascoltiamolo. Amen.